Si affronta la questione dei fondamenti e dei criteri dell’agire formativo oggi nella chiesa e, per tutti i cristiani, la responsabilità del generare alla fede, dell’essere padri e madri nella fede. Punto fermo da non perdere di vista è che lo spirituale non è una sovrastruttura che si aggiunge a quello che san Paolo chiama ‘corpo psichico’ (cfr. 1Cor 15,44). È una realtà di radice, costitutiva del cuore dell’uomo che vive del rapporto col suo Dio. Sembra però che la percezione di questa realtà si sia molto affievolita nella coscienza degli stessi credenti e ciò contribuisce non poco a rendere come irrilevante la proposta cristiana nella sua specificità. In una parola, fa difetto la dimensione spirituale nell’agire ecclesiale.
Intervento di p. Elia Citterio al XXVII convegno formatori francescani, tenutosi ad Assisi il 21 settembre 2011.
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Il mio intervento punta ad offrire elementi alla vostra discussione attorno alla questione dei fondamenti e dei criteri dell’agire formativo oggi nella chiesa, in particolare nell’ambito della vita consacrata, dentro la consapevolezza delle fragilità del momento che invita a uno sguardo lucido e benevolo e alla possibilità di una vera esperienza di Dio. Procede da un’esperienza ventennale nella cura delle anime secondo l’antica intuizione di Origene:
“… beato colui che è sempre generato da Dio: poiché non dirò che il giusto è stato generato da Dio una volta per tutte, ma che egli è sempre generato ad ogni opera buona, perché è in essa che Dio genera il giusto. Se ti spiego riguardo al Salvatore che il Padre non ha generato il Figlio in modo da staccarlo dalla sua generazione ma che sempre lo genera, spiegherò qualcosa di simile anche per il giusto”. [1]
La prima sottolineatura che intendo proporre deriva dalla specificità della rivelazione evangelica che purtroppo però viviamo ormai stemperata nella nostra coscienza moderna e riguarda la responsabilità del generare alla fede, dell’essere padri e madri nella fede. La formazione prima di tutto nella chiesa parla di questo. La domanda, a tratti angosciosa o ansiosa che oggi ci si pone, suona: perché l’esperienza della fede non suscita più impegni duraturi? Cosa è venuto meno? Sembra infatti che la caratteristica comune della sensibilità attuale sia quella di non attribuire a nulla una consistenza valoriale che sappia di duraturo perché percepita come possibile ostacolo alla realizzazione di se stessi, vera araba fenice dell’immaginario interiore odierno. Come immaginare in tale contesto una vera passione apostolica? Un impegno per tutta la vita?
La dimensione spirituale risponde all’urgenza di allargare gli orizzonti del cuore, al fine di riscoprire il senso di appartenenza a un insieme dato di valori, nella comunione di persone che riconoscono di partecipare all’unico mistero della vita, dentro una storia sacra, che ci precede e ci ingloba. Si tratta cioè di ritornare a percepire la vita nello Spirito, ad accoglierla, ad assecondarla nel nostro vivere quotidiano; si tratta, per noi cristiani, di tornare a vivere quello splendore che Gesù ci ha illustrato. La vita spirituale non riguarda lo sforzo nostro di acquisire qualcosa, ma allude principalmente all’accoglienza, alla scoperta di un dinamismo che muove e impegna in una relazione. Allude a un ‘vigore’, un ‘calore’, un ‘principio vitale’.
Posso aggiungere brevemente che in fondo la vita spirituale si gioca in rapporto a tre cose:
– alla rivelazione del mistero di Dio. In primo piano non sta mai il riferimento a noi, ma a ciò che ci viene da Dio: l’intelligenza spirituale della Parola presiede alla conoscenza dei dinamismi del cuore e all’impegno nel bene per e con i fratelli;
– alla collaborazione con Dio perché si realizzi il suo sogno di stare in comunione con gli uomini, condividendo i suoi segreti e i suoi sentimenti verso i suoi figli. Di quel ‘sogno’ è intessuta la vita del Signore Gesù e di quel ‘sogno’ parlano i nostri aneliti più profondi. L’azione nostra si situa come ‘reazione alla Presenza’ più che come volontà di ottenimento;
– alla realizzazione della vocazione all’umanità. Nasciamo uomini, ma dobbiamo diventare umani, conforme al volere di Dio, secondo il suo progetto, radicati in Gesù. È l’invito a custodire e coltivare il giardino del proprio cuore come Adamo nel paradiso terrestre.
Punto fermo da non perdere di vista è che lo spirituale non è una sovrastruttura che si aggiunge a quello che san Paolo chiama ‘corpo psichico’ (cfr. 1Cor 15,44). È una realtà di radice, costitutiva del cuore dell’uomo che vive del rapporto col suo Dio. Sembra però che la percezione di questa realtà si sia molto affievolita nella coscienza degli stessi credenti e ciò contribuisce non poco a rendere come irrilevante la proposta cristiana nella sua specificità. In una parola, fa difetto la dimensione spirituale nell’agire ecclesiale.
Attorno a questa constatazione, cercherò di proporre le mie riflessioni in due tempi: prima di tutto, nel presentare una radiografia della situazione tenendo insieme i bisogni dei cuori e lo stile della formazione e poi nell’indicare le possibili vie di uscita.
Radiografia della situazione.
In un suo recente libro, papa Benedetto annotava: “I tempi cambiano. Nel frattempo è sorta una nuova generazione con nuovi problemi. La generazione del ’68 con la sua peculiarità si è affermata ed è passata. Anche la generazione successiva, più pragmatica, sta invecchiando. Oggi bisogna effettivamente domandarsi questo: come venire a capo di un mondo che minaccia se stesso e nel quale il progresso diviene un pericolo? Non dobbiamo forse nuovamente ricominciare da Dio? La nuova generazione si pone la questione di Dio in modo diverso rispetto a quella precedente. Anche la nuova generazione ecclesiale è diversa, più positiva rispetto a quella di rottura degli anni ‘70”. [2]
Se l’atteggiamento è più positivo rispetto alla fede, non vuol dire però ancora che la fede, così come è vissuta e percepita, sia capace di incidere profondamente nel vissuto reale delle persone. Almeno così sembra. Se consideriamo il movimento di emancipazione dal principio di autorità che caratterizza il pensiero moderno, mi pare che l’atteggiamento di fondo dell’uomo contemporaneo, alla ricerca di un senso della vita, possa essere descritto in questi termini: si è passati da un perseguire la verità per non fallire la felicità, di ieri, a un perseguire la felicità a costo della verità, oggi. Evidentemente la semplificazione è eccessiva, ma rende ragione del punto in cui ci si trova: si vuole comunque la felicità per sé senza ancorarla a qualcosa che la giustifichi. Così, la felicità è davvero accessibile? Una felicità che duri, non passeggera; una felicità che soddisfi, che sia feconda, non semplicemente una somma di piaceri in un continuo sfruttamento vicendevole; una felicità capace di eternità.
Parlando del peccato degli angeli, Tommaso d’Aquino afferma che non può essere consistito nel fatto di voler essere uguale a Dio. L’angelo sa bene che Dio è infinitamente più grande di lui, sua creatura. Il suo errore è stato quello di voler “conseguire con le proprie forze la beatitudine ultima, il che è proprio di Dio”.[3] Ha voluto cioè avere il controllo di tutto e non dipendere nella sua felicità da altri. Avere però la totale padronanza della propria vita significa distruggere la vita nella sua innata apertura.
a) Rispetto ai cuori.
Quanto ho appena descritto mi sembra la fotografia del panorama interiore odierno. Tanto che fallire la propria felicità comporta sempre un giudizio cattivo su Dio che mina alla radice il fluire della vita rendendola ingiusta e oppressiva. Non per nulla nelle società moderne, pervase da un’ansia angosciosa per l’insicurezza nel perseguire l’obiettivo della felicità[4], ormai percepito come una specie di assoluto, è venuta meno l’idea di Dio. Si vuole la felicità senza accettarne le condizioni vere di realizzazione che sempre ci sfuggono perché non più disposti a sottomettersi alla vita. Il desiderio di realizzazione si accompagna alla mancanza di una tensione interiore adeguata. Alla fine si desidera qualcosa, ma non vivere. Sembra che ci si perda in velleitarismi o in una sentimentalità vacua (la cosa però ci deve interrogare quanto alla consistenza della proposta cristiana che siamo capaci di testimoniare e di suscitare!). Quanto è distante dal sentire moderno l’atteggiamento evangelico, così tipicamente francescano, della sottomissione dolce e libera a tutto e a tutti! Del resto, credo vada riconosciuto che il ‘secolarismo’ imperante, di per sé, non è negazione di Dio, ma della creatura. L’eterno serpente tentatore, sempre all’opera nelle sue suggestioni illusorie, rivela all’uomo tutte le sue potenzialità (illimitate: “Sarete come dèi”, cfr Gn 3,5), ma gli nasconde con ciò stesso il suo limite ontologico. La ragione profonda dell’angoscia moderna deriva da qui: voler prendere da sé qualcosa che invece ci può essere solo donato.
Penso che la sensibilità culturale moderna, nel suo complesso, manchi proprio delle due caratteristiche che costituiscono i segnali della buona salute dello spirito: della gioia (la gioia della salvezza e la salvezza che è gioia) e dell’umiltà. E a me pare che la formazione religiosa, quando prende in carico le persone che già si ritrovano ferite dalla vita o comunque arruffate interiormente, invece di favorire l’acquisizione di quelle due caratteristiche, si perda nell’illusione di voler risolvere i problemi piuttosto che insegnare a viverli cercando il Regno di Dio, come invita il vangelo. La tendenza rivendicativa della sensibilità odierna è proprio il male di fondo che va guarito con l’accompagnamento ad una vera esperienza di incontro col Signore Gesù.
Rilevo due difficoltà di fondo, oggi, nell’approccio alla vita, di cui un cammino formativo deve rendere ragione:
1) invece che accogliere preferiamo voler scegliere, anche se illusoriamente. Invece di rapportarci a una realtà significante, già portatrice di ‘logos’, preferiamo disporre a piacimento di realtà materiali neutre, confezionandocele su misura. Si pensi alla questione del ‘genere’, oggi così dibattuta. Così, non si deduce la morale dalla fedeltà a una realtà, ma si fissa la realtà in base ad una propria morale. La centralità del soggetto, vera conquista della modernità, è così vissuta a partire da desideri rivendicati o pretesi; il che mi sembra la via migliore per fallire la propria felicità, come si può costatare ampiamente nella società di oggi. Di qui deriva anche la debolezza nel percepire l’esigenza della fedeltà, tanto che oggi dovremmo educare non semplicemente alla fedeltà, ma a riconoscere e vivere i processi di fedeltà in modo da imparare a diventare fedeli nelle varie situazioni della vita e saper trasformare le difficoltà in opportunità e risorse per una vita più autentica.
2) invece di cogliere e aprirci al mistero vediamo solo problemi con l’illusione di poterli prima o poi risolvere. Siccome però la vita è insidiata dalla morte, che non si può risolvere ma solo posticipare o al massimo anticipare, viviamo angosciati e fuggenti. Preferiamo un’impostazione funzionale, tipica di una mentalità scientifica, anche a livello interiore e perdiamo il senso dell’agire. Ogni evento triste, ingiustizia, offesa, delusione, si traduce in lamentela, dentro un ingorgo emotivo insuperabile, invece che costituire segnali per la propria conversione. C’è uno spreco enorme di risorse costruttive. La lamentela è lo spazio di morte nel quale indugiamo, impedendo al nostro cuore di vivere nell’amore esattamente là dove si trova.
Alcuni nodi sono significativi e paradossali.
La cultura parla di libertà, di affermazione; la fede di obbedienza, di sottomissione. Perché il discorso sull’obbedienza oggi sembra eclissato? Non si può vivere la fede se non dentro un’obbedienza, riscoperta però nella sua dimensione rivelativa evangelica per la vita.
La cultura parla di diritti, di uguaglianza. La fede parla di amore, di dedizione, di comunione. Ad esempio, la nostra cultura odierna non può non essere contro la famiglia perché la famiglia, quella di un uomo e di una donna aperta ai figli, smaschera il male indotto da una teorica uguaglianza contrabbandata come dovere assoluto per la società. L’amore è assenza di comparazione, esige il coinvolgimento esperienziale delle persone, mentre l’uguaglianza è perseguita sul livellamento delle differenze. È l’imperativo della teoria sulla concretezza dell’esperienza.
La cultura, la scienza vogliono offrire certezze, mentre la fede offre solo verità. Le certezze però riguardano l’ordine funzionale del vivere, mentre le verità l’ordine del cuore, dentro relazioni interpersonali significative. La questione affettiva si svela qui in tutta la sua drammaticità: si vorrebbe essere sicuri di un amore, mentre la verità dell’amore pesca nella fiducia, umile e tenace.
Nella nostra società, all’individuo è richiesta una fatica incredibile per arrivare al successo nei vari campi, ma per la propria felicità si suggerisce la via più facile e a buon mercato. Non si è più abituati alla fatica della lotta, tanto che il principio di fedeltà ha perso molto del suo lustro, con la conseguenza che tutto appare effimero e inconsistente.
Se dovessi riassumere le paure di fondo dal punto di vista spirituale direi che oggi le persone, i giovani in particolare, ma non solo, hanno paura di restare fregati da Dio, dalla Chiesa, dalla fraternità, dagli uomini e hanno paura del futuro. Le due paure non hanno a che vedere solo con le contingenze tipiche del nostro tempo, sebbene queste ultime contribuiscano a fomentarle. Alla base della prima paura rilevo lo sguardo di non benevolenza, di disprezzo di sé e la diffidenza verso la vita, che derivano da una cattiva immagine di Dio, come del resto tutte le parabole di Gesù rivelano e che si traducono sovente in arroganza e aggressività. Dopo duemila anni di cristianesimo siamo ancora alle prese con la difficoltà a percepire e assimilare la letizia dell’annuncio evangelico, il cuore della rivelazione di Gesù. Nella seconda paura rilevo l’incapacità di vivere la vita da dentro un’alleanza, perché percepita dipendere dagli eventi, a noi esteriori ma che hanno presa su di noi. Più l’uomo cerca la sua felicità ad ogni costo, più resta in balia delle sue ossessioni.
b) Rispetto alla formazione.
Dal punto di vista della formazione religiosa, posso esprimere questi nodi nel dire che si confonde facilmente il livello psicologico e quello spirituale, confusione che rivela la difficoltà di percepire la natura dell’esperienza cristiana che è essenzialmente escatologica. Il rischio grosso è quello di vivere ‘mondanamente’ la dimensione religiosa o di condurre una pratica religiosa in modo mondano. Il cuore così non scopre nessun tesoro, non riesce a godere e finirà per esaurire le sue risorse cedendo a quello che le Scritture sono solite chiamare ‘mormorazione’: si finisce per accusare Dio che non è capace di adempiere le sue promesse. Così l’impegno della conversione o della sequela si spompa e ci si sente in diritto di cercare altro o in altro modo.
Non va dimenticato che la potenza di rivelazione delle parole e dell’agire di Gesù non riguarda la denuncia del mondo nella sua ostilità a Dio (sarebbe scontato!) ma lo smascheramento della modalità mondana nel vivere la sua sequela. Il che significa che se vogliamo che la fede renda luminosa la nostra esistenza occorre accoglierla senza condizioni, proprio come si vive la realtà di un grande amore. Sembra invece di essere in diritto di vivere la sequela del Signore con un amore provvisorio, parziale, condizionato.
Due i presupposti di questa accoglienza in-condizionata che rammento con due citazioni evangeliche e che il percorso formativo dovrà illustrare in tutta la loro radicalità, anche perché non riguardano specificamente la vita consacrata, ma la possibilità stessa di una autentica esperienza evangelica:
- la radicale dipendenza da Dio libera dalla dipendenza reciproca: “E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5, 44). Siamo sicuri che nel cammino di fede intrapreso e perseguito adoriamo Dio e non invece l’idolo più grande? A giudicare dagli entusiasmi effimeri e dalle pretese affettive camuffate si direbbe che i cuori si accontentino più di servirsi di Dio che di servire Dio. Dovremmo mostrare con la nostra vita che l’obbedienza genera la libertà.
- essere nel mondo, ma non del mondo (cfr. Gv 15,19; 17,11).[5] La fede ha a che fare con la scoperta del Regno nell’agire quotidiano, nella trasparenza del quotidiano che si apre sul mistero del Regno. Insegniamo questo ai giovani nel cammino della loro maturazione e nella vita fraterna e ecclesiale? È caratteristico che i giovani oggi esprimano le loro potenzialità migliori nel viaggiare (giornate della gioventù, esperienze missionarie, pellegrinaggi) che fanno poi intraprendere percorsi di vita significativi. Ma una volta attivati i percorsi di vita, quando l’intensità emotiva scema, sono educati alla percezione del mistero del regno dei cieli nella loro vita quotidiana? Risulta essenziale tornare ad educare alla percezione del mistero del Regno.
Potrei riassumere il tutto in una affermazione di Paolo a proposito del giudizio dell’uomo spirituale: “Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo, con parole non suggerite dalla sapienza umana, bensì insegnate dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. Ma l’uomo lasciato alle sue forze non comprende le cose dello Spirito di Dio: esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché di esse si può giudicare per mezzo dello Spirito. L’uomo mosso dallo Spirito, invece, giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno. Infatti chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo consigliare? Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo” (1Cor 2,12-16).
Nemmeno crediamo più di essere in grado di pensare in tal modo, se non, disgraziatamente, nella scomposta presunzione di essere superiori agli altri (cosa non inusuale nella chiesa!), il contrario di quella gioia/umiltà che caratterizza l’annuncio evangelico.
Il vangelo è letto come ideale, non come radice della vita. Puntiamo troppo all’entusiasmo, che dipende dagli ideali e troppo poco all’intelligenza spirituale, che dipende dalle radici. Così manchiamo di quell’armonia e modestia nel vivere la propria vita senza mai arrivare alla saggezza del cuore, vero spazio per la fraternità. Perché dipendiamo sempre dal passato, dalle nostre ferite, come dovessimo salvarci da noi stessi e non restiamo aperti al futuro, alla promessa di Dio, alla gioia dell’essere invitati comunque alla tavola di Dio?
D’altra parte, a fronte della formazione come vedo viene impartita, uno dei rischi che mi sembra di poter segnalare è quello di demandare la responsabilità, come succede un po’ in tutti gli ambiti preposti all’educazione: famiglia, parrocchia, scuola, ecc. Sembra logico defilarsi rispetto alla presa in carico delle persone con l’affidarsi ai vari ‘esperti’ nei vari ambiti. Occorre costituire e vivere un unico ambito educativo, giocando la nostra vita e non semplicemente svolgendo un ruolo. Solo da dentro questo unico ambito educativo risulta efficace la collaborazione con tutti coloro che hanno qualche titolo per intervenire nei vari aspetti che interessano la crescita delle persone. Le persone hanno bisogno di vedere che la presa in carico è totale nel senso che ciò che viene insegnato fa parte del mistero comune della vita. Se è difficile morire a se stessi, vederlo come incarnato nelle persone che ci accompagnano e ci guidano è il solo modo per imparare a farlo. Vedere che la potatura dà frutto, porta vita, è assolutamente determinante coglierlo nei nostri accompagnatori. Se gli uomini che ci guidano tolgono se stessi per fare spazio a Dio, allora suscitano la fiducia. Se si vive secondo Cristo molti problemi decadono sia a livello personale che comunitario. L’importante è non camuffare, non coprire, non nascondere, non aver paura.
Purtroppo nella chiesa non si bada sufficientemente al fatto che si possono vivere mondanamente gli ideali più belli con la conseguenza di non riuscire mai ad affascinare per davvero i cuori al tesoro che può splendere in essi. Ho l’impressione che si finisce di parlare di maturità umana, di maturità affettiva, come del miraggio dell’acqua a un assetato nel deserto.
Se l’amore del Signore non coinvolge le nostre risorse più creative, come educare ad amare? Pensiamo alla diversità di coinvolgimento emotivo delle espressioni: ‘fare la carità’ e ‘fare l’amore’. Non ne siamo in qualche modo responsabili per aver banalizzato o annacquato l’esperienza cristiana?
Da tener presente pure le difficoltà inerenti alla stessa organizzazione della vita consacrata nella chiesa che in qualche modo opprime i cuori, anche inconsapevolmente. Penso, ad esempio, alla non chiarezza nell’equiparare la volontà della Fraternità alla volontà di Dio per coloro che si consacrano: hanno sentito la voce di Dio e si ritrovano a fare i conti con la voce degli uomini. Fatta la tara alle proiezioni sentimentali personali, resta pur sempre la questione della mediazione umana che, se non colta in una dimensione spirituale adeguata, diventa fonte di delusioni e di calpestamenti. Non è così semplice vivere il primato della persona nella struttura ecclesiale e nelle opere apostoliche; eppure, il binomio chiesa e persona parla della rivelazione evangelica, anche se ha sempre bisogno di spazi di attuazione credibili.
Possibili vie di uscita.
Quando Dio ha creato l’uomo, l’ha posto in un giardino, nel paradiso terrestre “perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gn 2,15). Ora, la terra di quel giardino allude alla terra del cuore; coltivare il giardino significa coltivare la terra del cuore, significa coltivarsi. Il problema della formazione è come coltivare il proprio giardino interiore. Il lavoro e la fatica non appartengono al peccato, perché lo precedono; appartengono al vivere, allo sviluppo, alla realizzazione di quello che si è ma non si è ancora rivelato. L’uomo è chiamato a passare da essere semplicemente individuo a diventare persona e volersi persona è volersi responsabili dell’esercizio di una libertà donata, che ha bisogno per realizzarsi di un lavorio costante e fecondo. Si tratta della specifica vocazione a diventare umani. Uomini si nasce, ma umani si diventa. L’uomo, a differenza di tutti gli altri esseri, ha questo di singolare: per diventare se stesso è chiamato a trascendere se stesso. Il cane non fa fatica ad essere cane; per l’uomo non è così. Lo si può spiegare come si vuole, ma questa esigenza è insopprimibile.
Nell’esperienza cristiana si cresce nel proprio uomo interiore, vale a dire si realizza la propria vocazione a diventare umani, in rapporto alla pratica dei comandamenti di Dio. Comandamenti, che vanno letti appunto nell’ottica della realizzazione di quella vocazione all’umanità che costituisce la somiglianza con Dio e che comporta l’esperienza forte della comunione e dell’amore vicendevole. Noi spesso leggiamo il comandamento dalla parte della paura, del sacrificio, della rinuncia a qualcosa, ma in realtà bisogna imparare a leggerlo dalla parte della passione del cuore, dell’anelito e del desiderio che ci muovono dentro e della possibilità finalmente di viverli compiutamente.
Non sembra perciò strano che, alla domanda di cosa sia il regno di Dio, Gregorio di Nissa risponda in tutta chiarezza:
«Altrove è detto: “Mi hai dato la gioia nel mio cuore” (Sal 4,8). E il Signore dice: “Il regno dei cieli si trova dentro di voi” (Lc 17,21). Qual è il regno dei cieli che secondo lui si trova dentro di noi? Di cos’altro si può trattare, se non della gioia che si riversa dall’alto nelle anime tramite lo Spirito? Essa è come l’immagine, la garanzia e la prova della gioia eterna di cui godranno le anime dei santi nel secolo che attendono»[6].
La gioia è in rapporto con il mistero della rivelazione del segreto di Dio: la comunione con gli uomini. Come la sua gioia è quella di stare con i figli degli uomini, così la gioia per gli uomini è stare con Dio. Ma non si può stare con Dio, che è Creatore e Padre, se non insieme a tutti i fratelli. Non per nulla la Scrittura abbina gioia e Spirito Santo: “… mentre i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo” (At 13,52). L’opera dello Spirito Santo è l’edificazione di un’umanità che vive solidale e dal tendere a questo deriva la gioia.
In negativo, lo rileva anche l’analisi sociologica di Bauman quando riporta: “Come afferma Erich Fromm, «la soddisfazione, nell’amore individuale, non può essere raggiunta senza la capacità di amare il prossimo con umiltà, fede e coraggio», solo per poi aggiungere, tristemente, che in «una cultura in cui queste qualità sono rare, l’acquisizione della capacità di amare è condannata a restare un successo raro»”.[7]
L’urgenza educativa, allora, intesa come capacità di mediazione per coinvolgere i cuori nella grazia della fede per vivere la propria vocazione all’umanità, l’appunterei attorno a questi quattro nodi:
1) ritornare ad essere capaci di avere uno sguardo umile e gioioso sulla nostra realtà di creature. Mi piace citare un’espressione di Florenskij a commento del famoso passo di Gc 1,2-4: “Fratelli miei, accogliete con grande letizia ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza; la pazienza agisca in voi da perfezionamento, affinché siate perfetti in tutta pienezza, senza mancare di nulla”. [8] La pazienza allude alla fatica del vivere, che non è evitabile; altro però è fare la fatica giusta, feconda e altro è fare la fatica inutile, oppressiva. Alla potenza della visione si accompagna una modestia nell’agire. Spesso gli obiettivi sono fuori portata e non si accettano i tempi e i passaggi adeguati. Si vive proiettati e presuntuosi, segno della non accettazione della propria realtà di creature.
2) essere strumenti di mediazione per coinvolgere i cuori nelle dinamiche spirituali corrette, che non sono istintive né dipendono dalla sensibilità. Faccio notare, ad esempio, la particolarità dell’espressione ‘seguire Cristo’. Del Cristo, non si dice che va, che parte, ma che viene. Non si tratta allora di seguire Cristo facendo questo o quello (è volontà di Dio che io mi consacri o che assuma questo compito – ci diciamo), ma di fare in modo che in quello che scelgo in libertà e responsabilità o che assumo in obbedienza possa essere trovato in Cristo, possa scoprire cioè il Cristo che viene. È la realtà che diventa santa e santificante se mi ritrovo in Cristo, se sto aperto all’incontro con lui, non che Cristo mi dice quale sia la realtà santa e santificante. Molti giudizi di discernimento sulla vocazione delle persone finiscono per impedire il vero cammino spirituale nell’incontro con Cristo.
Due dinamiche, in particolare, voglio ricordare:
- la dinamica dell’intelligenza delle Scritture è la medesima che presiede all’intelligenza dei cuori: Ascolta – noi –tu, secondo la proclamazione di Dt 6,4-5, ripresa da Gesù nell’indicare il primo comandamento.
a) Ascolta, Israele. L’ascolto ha a che fare con la risposta a questa domanda: come possiamo vederci davvero peccatori? Cipriano ricorda, nel suo commento al Padre nostro,[9] che all’invocazione ‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’, la prima cosa che domandiamo non è la generosità per essere capaci di perdonare, ma piuttosto la coscienza di essere peccatori. Sentendoci peccatori, non avanziamo diritti e possiamo sperimentare in tutta la sua dolcezza il perdono di Dio; ci sentiamo solidali con tutti i nostri fratelli e, non avendo più alcun motivo di rivendicazione, non ci separiamo più da nessuno per nessun motivo. E così facendo restiamo nella carità di Dio per gli uomini.
Tutto dipende da quell’ Ascolta! che ci porta a riconoscere l’amore di Dio per noi proprio attraverso la consapevolezza di essere peccatori. Al di fuori di questa logica non si accede alla rivelazione di Dio. Ma senza ascoltare la parola di Dio, che guarisce e fa vivere, non si attiva quella logica e l’accesso alla rivelazione di Dio resta sbarrato.
L’unica innocenza possibile è quella che deriva dalla scoperta della possibilità del perdono, alla cui rivelazione tende tutta la storia intessuta da Dio con l’uomo e di cui le Scritture portano testimonianza. Per giunta, l’eliminazione di ogni pretesa di innocenza nei confronti di Dio purifica anche quella miriade di pretese che abbiamo l’uno verso l’altro e che intralciano il buon corso dei rapporti umani. Più l’uomo si scopre peccatore, meno accampa pretese verso il mondo e gli uomini. L’uomo si accoglie perdonato davanti a Dio, peccatore davanti agli altri, in tutta umiltà e fiducia, con sano realismo.
Nella dinamica dell’obbedienza della fede, l’ascolto della Parola equivale alla fin fine ad accogliere e generare in noi il Verbo, di cui risplendono tutte le parole della Scrittura, come ci fa pregare la colletta della quarta domenica di avvento: “O Dio, Padre buono, tu hai rivelato la gratuità e la potenza del tuo amore, scegliendo il grembo purissimo della Vergine Maria per rivestire di carne mortale il Verbo della vita: concedi anche a noi di accoglierlo e generarlo nello spirito con l’ascolto della tua parola nell’obbedienza della fede”. La traiettoria propria dell’ Ascolta! punta diritto sull’esortazione di Paolo, che riassume la dinamica interna di tutte le Scritture: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2 Cor 5,20).
b) Il Signore è il nostro Dio. In evidenza non c’è un io, ma un Se è vero che Dio offre continuamente la sua alleanza, non posso avere la sfrontatezza di pretenderla per me. A che titolo potrei? Dio offre la sua alleanza alla chiesa, a un popolo, all’umanità, nella quale mi ritrovo e con la quale sono solidale. Prima c’è la chiesa, poi il fedele.
Si tratta di ritrovarsi insieme dentro quel mistero, di vivere in santa compagnia. Il mistero dell’ intimità non si scopre da soli. Prima c’è un noi e soltanto dopo scopri chi sei, cominci a scoprire che sei ciò che intuisci di poter diventare. Noi siamo secondo la possibilità di un amore che ci scopre a noi stessi. Qui si innesta l’intelligenza delle Scritture: riceversi a partire da un noi.
c) Tu amerai. Poi finalmente c’è il tu, tu che puoi agire in responsabilità. La responsabilità si esercita dentro il movimento di rivelazione che è stato messo in moto dall’ascolto. Se a noi non è svelato nulla di Dio, vuol dire che il cuore non è aperto e la grazia non ci ha toccati.
Quando Origene, in una bellissima pagina del suo commento al libro dell’Esodo a proposito della manna,[10] dice che la parola di Dio può diventare per noi tutto ciò che desideriamo, si riferisce precisamente alla nostra responsabilità di lettori e oranti, perché tocca a noi cercare ciò che nelle Scritture può illuminarci nel momento presente e diventare nostra forza. Se le Scritture si aprono al nostro cuore e apriamo il nostro cuore alle Scritture, si aziona quel tipo di movimento che porta a una conoscenza potente, pur nell’estrema debolezza della nostra carne. Si tratta di accogliere la rivelazione di Dio nella sua santità, come dimensione etica della verità. Il tu amerai si riferisce appunto alla possibilità di partecipare in questo mondo alla santità stessa di Dio.
- la celebrazione liturgica indica il percorso di verità degli affetti: sacrificio-comunione. Non si può fare il sacrificio di sé se non per godere una comunione con chi si ama, ma non si può godere quella comunione se non si accetta di ‘sacrificarsi’. Non è automatico però il passaggio dal sacrificio alla comunione, anche se necessario. Occorre mostrare la fattibilità e la fecondità del passaggio secondo il principio di realismo e gradualità.
3) tornare a desiderare la sapienza del vangelo tramite l’intelligenza del cuore.
Qui sarebbe da indicare la scoperta delle connessioni segrete nella vita (non serve voler la carità, se non si è disposti ad onorare gli altri più di quello che meritano; la grazia non è data allo sforzo, ma all’umiltà; la purità di cuore non deriva dal fatto di non avere pensieri cattivi, ma dal fatto di guardare con occhio benevolo gli altri, ecc.); l’urgenza di imparare a leggere i propri bisogni con più radicalità (noi viviamo di ‘reazioni’, non della verità del nostro cuore: traduciamo spesso in giudizi di verità le nostre reazioni, incapaci come siamo di leggerle più in profondità rispetto alla verità del nostro cuore, secondo la sapienza evangelica. Ad esempio, l’ira che proviamo di fronte alle offese non sappiamo mai leggerla in funzione del principio di conversione per godere il mistero del regno dei cieli).
L’autenticità della fede, la sincerità del credere, dipende dallo spazio che il cuore concede libero alla potenza dello Spirito, il cui agire si percepisce nel dinamismo di una carità che ci guida a dare la vita perché a tutti si riveli l’amore di Dio per gli uomini. Tutta la disciplina interiore, tutto lo sforzo ascetico trova qui il suo obiettivo qualificante. La fede che non si traduca in carità è smorta, ma un amore che non faccia presagire la fede è destinato inevitabilmente a vincolare gli uomini a sé. La carità allude sempre all’intimità dell’esperienza di Dio, rivelato in Gesù, del nostro cuore. Qui si coglie in tutta la sua rilevanza la forza del comandamento di Gesù: “Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). L’aver sottaciuto questo ha comportato una certa banalizzazione dell’esperienza cristiana e una certa irrilevanza del mistero cristiano nel vivere l’obbligazione all’agire buono verso il prossimo. Il movimento non è chiuso, ma aperto, nel senso che l’esito del bene non è quello di farmi dei meriti o di far vivere bene eventualmente gli uomini, bensì permettere alle persone che amo di conoscere a loro volta il Volto di Dio e il suo amore e permettere quindi a loro volta di amare altri secondo la stessa dinamica.
Prima di tutto, vale il riferimento alla Parola, capace di introdurci alla visione delle cose, in quel movimento di obbedienza che orienta la nostra vita a scoprire la promessa di Dio per noi. La stessa dinamica vale per gli eventi della nostra vita: se non li accolgo come Provvidenza di Dio per me, non potrò comprenderli e comprendermi. Sarebbe un’illusione aspettare di accoglierli finché non li abbia compresi. Significherebbe voler vivere la vita esigendo risposte previe invece di trovarle proprio perché si accetta di viverla da dentro una benedizione, qualunque siano gli eventi quotidiani.
In secondo luogo, l’esperienza della confidenza in Dio vince ogni forma di rivendicazione individualistica. Tanto che vi si può applicare la proclamazione del profeta Abacuc: “Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede” (Ab 2,4), intendendo: chi non avanza pretese confida davvero in Dio, non inciamperà nella vita perché non sarà in contesa né con se stesso né con gli uomini.
Il percorso si può intuire leggendo la preghiera del Padre nostro dal fondo al principio. Non ci accorgiamo che quello che diciamo per primo in realtà è il punto verso cui aneliamo: liberi dal male e dalla tentazione, perché abbiamo un cuore risplendente del perdono dato ai nostri fratelli, per la misericordia ricevuta e per essere un unico corpo con il Signore Gesù che è diventato nostro cibo, sapienza e gusto, capaci di compiere il volere di Dio vivendo il mistero della fraternità nella potenza dello Spirito, facendo risplendere in tutta la sua gloria la santità di Dio, che si rivela come Padre di noi tutti, come Padre del Figlio suo Gesù Cristo. Ed è appunto in lui che possiamo compiere tutto il percorso per avere la vita, la vita vera, assunti in quell’amore di Dio che costituisce il dono divino della vita. Realizzare la propria vocazione significa contemporaneamente godere di quella pienezza alla quale si anela e godere di quella umanità senza divisioni di cui si ha nostalgia. Qui possiamo comprendere i sogni dell’uomo perché in Dio hanno le loro radici. Perché – e la cosa sorprende non poco – se il cuore dell’uomo, nelle sue fibre più intime, è fatto ad immagine di Dio, allora vuol dire che ha anche nostalgia dei comportamenti secondo Dio, che proprio Gesù rivela con il suo agire e il suo parlare.
4) L’assunzione di un compito: la missione.
Perché l’interiorità non si volatilizzi in intimismo, l’esito del percorso formativo si tradurrà in assunzione di responsabilità, nell’assunzione cioè di un compito che costituisce la nostra ‘missione’ nella vita, la nostra chiamata particolare, il nostro cammino spirituale, come testimoni del vangelo nel mondo.
È importante intuire che il senso della testimonianza evangelica ruota attorno a tre elementi:
a) richiama l’annuncio che insieme ci si è aiutati ad ascoltare. Alludo a quella dimensione di trasbordo che la pratica cristiana comporta. Alludo a una specie di stile della pratica cristiana, che è stile di pensare e di volere, che si forgia per mezzo della familiarità con le Scritture e con il respiro della grande tradizione della chiesa della cui ricchezza l’accompagnatore si fa tramite. Rispetto al pensare, si tratta di riflettere sul destino della verità in un mondo sempre più pluralista e di rendere amabile ciò che il vero implica, in vista di una fraternità rinnovata segnata dalla grazia della Rivelazione. Rispetto al volere, più che cercare di ‘volere bene a qualcuno’, dove bene è il complemento oggetto del volere, si tratta di imparare a ‘volere bene qualcuno’, dove bene è un avverbio che esprime il modo adeguato di volere che qualcuno o qualcosa siano, proprio come fa Dio con noi. Occorre un’ascesi che tenda a generare un nuovo modo di volere in cui l’accento non sia posto tanto sull’affermazione di sé quanto sulla disponibilità a servire ciò che è voluto, ad accompagnarlo al suo destino, servitori e testimoni di un mistero che ci supera e ci racchiude: questo è il ruolo dei credenti, oggi riscoperto in una dimensione di fede più umile. La frequentazione delle Scritture ci dà la coscienza di partecipare a una storia che è più grande di noi, fatti segno di una grazia che, se è data a noi, non è semplicemente per noi. La capacità di annuncio, che fa da perno alla missione, implica che il nostro porci nel mondo, prima che al mondo, esprima la gioia per qualcosa che ci è stato affidato.
b) si alimenta con l’intercessione. La prima forma di responsabilità nei confronti dei nostri fratelli non è giocata davanti a loro, ma davanti a Dio. Esprime la tensione interiore di un movimento che pesca nel desiderio di Dio per la salvezza di tutti e che poi accompagniamo con la nostra testimonianza. Senza la tensione dell’intercessione la testimonianza si esaurirà nel fare semplicemente delle cose per gli altri e non potrà far risplendere l’opera di Dio. L’intercessione è la condizione di fondo che permette di finalizzare ogni impegno e fatica a che all’uomo appaia esperibile la prossimità di Dio. Induce noi a non mescolare mai interessi nostri all’opera di Dio e favorisce negli uomini la ricevibilità dell’annuncio e della testimonianza di cui portiamo la responsabilità. Risponde alla domanda: è forse possibile dare il vangelo ad una persona senza che questa ci diventi cara? Come dice Paolo: “Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari” (1Ts 2,8). Solo a patto che una persona ci diventi cara, il nostro linguaggio saprà essere concreto, capace di offrire una rivelazione vissuta e vivente che può suscitare una risposta, un lasciarsi prendere dalla nostalgia di Dio, che già tutti portano racchiusa in loro.
c) si traduce in testimonianza. Cosa è realmente in gioco nella testimonianza cristiana? Quando Gesù invia i suoi discepoli in missione, dopo aver ricordato loro le prove che li attenderanno, li esorta a non avere timore: temete Dio e non gli uomini! (cfr. Mt 10,26-28). Dicendo loro che “nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto”, è come se dicesse: per quanto gli uomini cerchino di contrastarvi, se non cedete alla violenza ricordate al mondo che l’amore di Dio è più forte. L’amore di Dio non riguarda gli uni o gli altri semplicemente, ma gli uni in rapporto agli altri, perché a tutti venga partecipato e dentro ciascuno si accresca con la testimonianza degli uni per gli altri. Evidentemente Gesù non intende dire che verremo risparmiati, che non subiremo violenza o morte. Vuol dire più concretamente che Dio sarà con noi anche nella morte, che Dio è implicato nella nostra morte e quello che c’era di segreto nella nostra vita sarà manifestato. Tanti esempi di testimoni moderni sono lì a ricordarcelo.
Con un’attenzione particolare però, soprattutto per colui che accompagna. Le preghiere che eleviamo a Dio, Padre nostro insegnando, non si concludono con la richiesta della carità. La tradizione insegna che la carità ha bisogno di un custode attento e intelligente. Così vedere i propri peccati e non accusare il fratello riassume la forza di una santa associazione: l’umiltà della carità. In questo si sostanzia l’arte divina del servire, un servire la propria vocazione all’umanità, le cui esigenze si possono esprimere così: custodire la bellezza delle creature condividendo il perdono ricevuto, liberare la dignità di tutti non mettendosi sopra nessuno. Allora la fatica comune del vivere, con la mortificazione delle nostre illusioni e dei nostri sogni di esibizione, si risolverà nella fatica delle beatitudini evangeliche, che rinnovano l’energia del cuore e moltiplicano la vita. È forse il modo più pertinente per farsi carico dell’inquietudine che non lascia istupidire le coscienze. Così è garantita la vivacità della trasmissione della fede alle nuove generazioni.
E se, alla fine, potessi indicare gli atteggiamenti fondamentali che predispongono a far vivere quanto abbiamo appena enunciato li descriverei così:
1) la disponibilità prima di tutto alla convinzione che il Signore accoglie tutti, ognuno per se stesso, nella sua specificità, in tutta misericordia. Ogni richiesta dei nostri fratelli è un appello di Dio che vuole ‘finire’, portare a compimento la sua creazione perché possa riposare in lui. La persona ha bisogno di essere accolta integralmente e concretamente e la disponibilità si trasforma in farsi carico, in amicizia. Si tratta di una disponibilità alla sinergia con Dio che continuamente opera nei cuori e compie i suoi voleri di salvezza anche là dove nemmeno si riesce ad intuirne la presenza. La disponibilità è così una forma di affidamento a Dio, capace per ciò stesso di suscitare a sua volta il medesimo tipo di affidamento in colui che è accolto.
2) la mansuetudine (come dice Paolo nella lettera a Tito: “mostrando ogni mitezza verso tutti gli uomini”, Tt 3,2) che si fa immagine dell’accondiscendenza di Dio verso i suoi figli. Allude allo sguardo di benevolenza, di pazienza e di tenerezza, per cui la persona non si sente mai giudicata. L’esperienza insegna che diventare più amorevoli significa diventare più veri e più lucidi. Ce se ne accorge anche dal linguaggio usato, immediato e concreto, nello sforzo di collegare l’annuncio cristiano alle esigenze del cuore, al di là di ogni strategia psicologica.
3) la responsabilità, che comporta l’accettazione di un compito, il cui senso sta tutto nel favorire la riconciliazione con Dio e con se stessi, con il mondo, liberando gli spazi del cuore. Si tratta di imparare a custodire la tenerezza verso l’umano nella sua trasparenza del divino senza contrapporre o contrarre nervosamente i due poli a scapito della sanità di fondo dell’anima.[11]
Anticamente ci si poneva questa domanda: «Dio si sarebbe incarnato anche senza il peccato?». Secondo certe impostazioni teologiche no. La Chiesa non si è mai espressa in modo definitivo sul problema, però tutta la teologia greca ha sempre sostenuto che Dio si sarebbe incarnato comunque. Perché? Il ragionamento è semplice, ma potente: perché l’uomo esiste come uomo in quanto è creato a immagine del Verbo di Dio che si sarebbe fatto uomo. L’umanità è già concepita in funzione della divinità. Non ce ne rendiamo conto e spesso lottiamo invano contro noi stessi.
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[1] ORIGENE, Omelie su Geremia. Introd., trad. e note a cura di L. Mortari, Roma 1995, Città nuova (collana di testi patristici,123), p.122: omelia IX, 4.
[2] BENEDETTO XVI, Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald, Roma 2010, Libreria editrice vaticana, p. 113.
[3] La somma teologica, I, q. 63, a. 3. Devo il rimando a un’osservazione di Fabrice Hadjadj, Farcela con la morte. Anti-metodo per vivere, Assisi 2009, Cittadella, p. 152.
[4] Un’osservazione significativa di Bauman a proposito dei ‘legami’ affettivi dà ragione del timore di fondo che comanda l’insicurezza: “Siamo stati erroneamente spinti a cercare le ‘relazioni pure’ (termine caro ad Anthony Giddens), stimolati da un desiderio viscerale e continuo di soddisfazione personale del tipo ‘fino a nuova comunicazione’, mentre tutti i legami forti vengono meno, soprattutto quelli che rispondono alla formula ‘finché morte non ci separi’. Veniamo così ingannati, poiché ingannevoli sono le premesse da cui parte la nostra ricerca. Ridurre l’interazione personale ad una questione di piacere consegue all’illusione di libertà, mentre i legami forti, la dedizione all’altro, la responsabilità appaiono come lo scotto da pagare (almeno così siamo indotti a pensare) per quella che, alla fine, non è altro che una questione di desiderio e di gratificazione personale. La dedizione è vista come la negazione della felicità e della libertà personale (gli impegni ipotecano il futuro e, così facendo, minacciano di ridurre le occasioni che potrebbero, un giorno, presentarsi). Nella pratica, tuttavia, le ‘relazioni pure’, che si fondano su basi emozionali incerte e instabili, private dello scudo protettivo che solo i legami duraturi sono in grado di offrire, costituiscono una fonte inesauribile di ansietà; un’ansietà che rovina il divertimento. A ben vedere, per iniziare una ‘relazione pura’ ci vogliono due persone, ma per troncarla basta la decisione di uno solo dei partners. Pertanto, nessuno si può mai sentire completamente sicuro e per questo ognuno vive nel timore”: Zygmunt Bauman, Una nuova condizione umana, Milano 2004, Vita e Pensiero (Transizioni, 13), p. 70-71.
[5] “Essere non di questo mondo non significa non essere nel mondo, non essere qui, ma significa avere un proprio essere interiore libero dalle cose di questo mondo, al di sopra delle cose di questo mondo, e dunque avere in sé il segno della vittoria sul mondo e vincerlo (Gv 16,33; Ap 2,21; 5,5). La trascendenza al mondo dell’essere e l’immanenza al mondo dell’azione: questo significa essere santi o essere non di questo mondo”: Pavel A. Florenskij, Il concetto di chiesa nella sacra Scrittura, a cura di N. Valentini e L. Zak, Cinisello Balsamo MI 2008, San Paolo, p. 198.
[6] GREGORIO DI NISSA, Fine professione e perfezione del cristiano, Traduzione, introduzione e note a cura di Salvatore Lilla, Roma 1979, Città nuova (Testi patristici, 15): Il fine cristiano, p. 55.
[7] ZYGMUNT BAUMAN, Amore liquido, Bari 2010, Laterza, p. 11.
[8] Pavel A. Florenskij, Il concetto di chiesa nella sacra Scrittura, a cura di N. Valentini e L. Zak, Cinisello Balsamo MI 2008, San Paolo, p. 202.
[9] Vedi San CIPRIANO, Opere, a cura di Giovanni Toso, Torino 1980, UTET (Classici delle religioni, La religione cattolica), La preghiera del Signore, pp. 203-237, in particolare il cap. XXII, p. 226. Si può consultare anche l’edizione: CIPRIANO, Trattati. Introduzione, traduzione e note a cura di Antonella Cerretani, Roma 2004, Città nuova (Testi patristici, 175), La preghiera del Signore, pp. 145-177.
[10] “Anche per te, dunque, se accoglierai con fede e devozione la parola di Dio che viene annunciata nella Chiesa, questa stessa parola diventerà tutto ciò che tu desideri. A mo’ di esempio, se sei nella tribolazione, ti consola dicendo: Dio non disprezza un cuore contrito e umiliato; se ti allieti per la speranza futura, porta al colmo la tua gioia dicendo: Allietatevi nel Signore, o giusti, ed esultate; se sei adirato, ti ammansisce dicendo: Cessa dall’ira e abbandona lo sdegno; se sei oppresso dai dolori, ti risana dicendo: Il Signore risana tutte le tue malattie; se ti struggi nella povertà, ti consola dicendo: Il Signore solleva dalla terra il misero e innalza il povero dal letame. Così dunque la manna della parola di Dio prende nella tua bocca qualunque sapore tu voglia”, ORIGENE, Omelie sull’Esodo, a cura di Manlio Simonetti, Roma 2005, Città nuova (Opere di Origene, 2), p. 231: omelia VII,8.
[11] Le riflessioni attorno ai quattro nodi dell’urgenza educativa le ho riprese dal mio testo: L’intelligenza spirituale delle Scritture, Bologna 2008, EDB, passim.