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Con la parabola degli invitati a nozze (cfr. Lc 14,7-11), Gesù illustra la condizione dell’uomo davanti a Dio: l’uomo è invitato alla tavola del suo Signore! Scegliere l’ultimo posto non è questione di furbizia, ma dipende dalla coscienza della dignità dell’invito. Più l’uomo ha il senso della grandezza del mistero del Regno dei cieli e più si sente piccolo; più si sente piccolo e più è esaltato Colui che l’invita. Più si fa grande e più vuol dire che si pone nel confronto con gli altri invitati, cioè non gli importa nulla di Colui che l’ha invitato. Si serve dell’invito per farsi bello davanti agli altri convitati. 

Quarto di quattro brevi articoli sul tema: “Parole chiavi della vita spirituale oggi”, per la rivista “In caritate Christi”, delle Suore Elisabettine di Padova, anno 2010.


4) Umiltà/letizia

 

La parabola degli invitati a nozze.

Con la parabola degli invitati a nozze (cfr. Lc 14,7-11), Gesù illustra la condizione dell’uomo davanti a Dio: l’uomo è invitato alla tavola del suo Signore! Scegliere l’ultimo posto non è questione di furbizia, ma dipende dalla coscienza della dignità dell’invito. Più l’uomo ha il senso della grandezza del mistero del Regno dei cieli e più si sente piccolo; più si sente piccolo e più è esaltato Colui che l’invita. Più si fa grande e più vuol dire che si pone nel confronto con gli altri invitati, cioè non gli importa nulla di Colui che l’ha invitato. Si serve dell’invito per farsi bello davanti agli altri convitati.

In effetti chi si umilia ha un senso vivo della dignità a cui è chiamato e si sente tanto indegno dell’onore tributatogli che non c’è più posto nel suo cuore per pensieri di confronto o invidia verso chiunque. È la dinamica tipica dell’amore: non ha bisogno di affermare se stesso chi ha raggiunto lo scopo vero dell’affermazione vera di se stessi, che è quello di godere intimità con l’amato. L’umiltà ottiene quello che la grandezza sogna soltanto.

Come si esprime il Siracide, secondo alcuni manoscritti greci e il testo ebraico: “Molti sono alteri e gloriosi, ma i suoi segreti li rivela agli umili, poiché grande è la misericordia di Dio, agli umili svela il suo segreto” (Sir 3,19-20). È il segreto della compiacenza di Dio per i poveri e i peccatori che siamo, svelata da Gesù nel suo amore di misericordia per gli uomini. Se l’uomo rivendica per sé o esibisce davanti agli altri titoli particolari di dignità, non ha ancora conosciuto l’intimità dell’amore di Dio e perciò non sarà capace di rinunciare alle sue meschine grandezze. In positivo, la conseguenza strana, ma salutarmente evangelica, di tale atteggiamento è che meno ci si preoccupa della propria grandezza, più ci sta a cuore la grandezza di tutti. Tale è la natura dell’umiltà evangelica.

Nel libro dei Proverbi si legge questa espressione: “non darti arie davanti al re” (Pro 25,6). Si può comprendere: in ogni incontro con un fratello, se hai coscienza di Colui che ti invita alla tavola dell’Amore, come puoi preferire te a lui e offrirti di occupare il primo posto? Ti daresti arie davanti al Re che ha invitato te come lui.

Gesù sigilla la parabola degli invitati a nozze con l’espressione: “chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”, richiamando il giudizio che verrà pronunciato alla fine dei tempi, ma la cui veridicità appare evidente fin da adesso. Due possono essere i punti di vista nella cui ottica la frase acquista particolare significato:

            1) Dal punto di vista del principio che riceveremo in base alle nostre azioni. Allora vuol dire: chi si esalta [= avrà umiliato gli altri] riceverà umiliazione; chi si umilia [= avrà onorato gli altri] riceverà onore. Oppure ancora: chi si esalta [= sarà stato così pieno di sé da essere vuoto degli altri] sarà lasciato solo; chi si umilia [= sarà stato così vuoto di sé da essere pieno degli altri] godrà dell’amore di tutti. 

            2) Dal punto di vista  della dinamica spirituale. Nella prima parte della frase i verbi esprimono un’azione di segno negativo: esaltarsi=gonfiarsi, essere umiliato=condannato. Nella seconda parte invece i verbi esprimono un’azione di senso positivo: umiliarsi=attirare la grazia (come dice Is 66,2: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito”), essere esaltato=glorificato, come Gesù sulla croce e nella sua resurrezione.

L’umiltà e la conversione del cuore

È caratteristico che la prima parola della liturgia quaresimale, tempo consacrato alla penitenza, suoni: “Tu ami tutte le tue creature, Signore, e nulla disprezzi di ciò che hai creato; tu dimentichi i peccati di quanti si convertono e li perdoni, perché tu sei il Signore nostro Dio” (antifona d’ingresso del mercoledì delle ceneri). Su questa professione di fede e di amore si innesta l’invito alla penitenza coniugata in elemosina, preghiera e digiuno. La dinamica spirituale in gioco è sottolineata dall’accorgersi e dal relazionarsi al prossimo (l’elemosina, oltre che una sorta di restituzione, è un atto fraterno, una condivisione, un riconoscimento del prossimo come nostro fratello) e dalla capacità di relazionarsi a Dio (la preghiera è abolizione del teatro, cioè del fare le cose per essere visti sia dagli altri che da se stessi; il digiuno serve come sostegno alla preghiera, all’agire interiore pulito e retto, contrassegnato dalla gioia del cuore che va incontro al proprio Dio e di conseguenza è libero di incontrare i suoi fratelli).

L’elemento che però suggerisce meglio la corrispondenza dell’azione esteriore con la conversione interiore del cuore è la gioia, che io interpreterei come quel senso di levità, di leggerezza, di non seriosità con cui si compiono le buone opere lontani da quel dannato senso di importanza che ci diamo o da quell’ottuso bisogno di affermazione presso gli altri che ci divora. È significativo che la chiesa, all’inizio del cammino quaresimale, ricordi proprio questa condizione di levità con cui occorre compiere tutte le opere di penitenza. È il modo più autentico per far rimarcare come le opere di penitenza non riguardino che la conversione del cuore e la conversione del cuore non consista in altro che in una capacità di fare incontro con Dio, con il prossimo, con noi stessi. La ricompensa promessa non ha nulla a che fare con la paga dovuta al lavoro fatto; riguarda solo la rivelazione e la pienezza che gusta il cuore quando viene incontrato da Qualcuno di cui porta il desiderio, quando si apre alla vita di una relazione che trasforma totalmente il suo modo di vedere e di sentire.

La via dell’umiltà.

Con l’umiltà, che fa in modo che nessuno debba mai chinare la testa davanti a noi, ritroviamo la nostra dignità la quale si risolve nel dare dignità a tutti. Si ricostituiscono gli spazi per vivere rapporti di comunione con i fratelli. È l’umiltà ben definita da Marco Asceta:

“Pensare umilmente non consiste nel condannare la propria coscienza, ma nel discernere la grazia di Dio ed i sentimenti correlati”[1].

È l’umiltà che fa dire a Isacco Siro:

“Se pratichi una bella virtù e non senti il gusto del suo soccorso, non meravigliarti. Finché l’uomo non diventa umile, non prende la paga della sua opera. La ricompensa non è data all’opera, ma all’umiltà. Chi fa torti alla seconda, perde la prima”[2].

Di questa umiltà parla Pietro nella sua lettera svelandone il segreto di grazia: “Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili. Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, perché vi esalti al tempo opportuno, gettando in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi” (1Pt 5, 5-7).

Se osserviamo il modo di agire di Gesù nei vangeli, con quel suo fare deciso e sovranamente libero, è proprio all’umiltà, compresa nel suo mistero, che va riferito quel tratto che caratterizza Gesù come persona e che Gesù esige dai suoi apostoli. La sua decisione non va letta tanto nel segno della radicalità della sequela di Dio contro i sentimenti naturali dell’uomo, quanto nel contenuto di questa radicalità: essere abitati da mitezza ed umiltà di modo che la misericordia di salvezza del Signore si compia senza esserne deviati o distolti da nessuna cosa o persona, da nessun evento lieto o triste, da nessuna afflizione per quanto pesante. Il riferimento al regno è assoluto; la via per il regno è unica, la stessa che ha percorso Gesù, quella che s. Chiara di Assisi commenta con rara finezza:

“Disse egli, infatti: Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli del cielo i nidi, ma il Figlio dell’uomo, cioè Cristo, non ha dove posare il capo (Mt 8,20); e quando lo reclinò sul suo petto, fu per rendere l’ultimo respiro (Gv 19,30)”[3].

Come a dire: quando ha lasciato riposare il suo capo, lo fece per sempre e rese il suo spirito, cioè rese il suo spirito a noi perché di Lui e come Lui potessimo vivere, senza voler avere altro posto ove riposare. Si tratta di quello stesso spirito che s. Paolo, scrivendo ai Galati, chiama spirito di libertà e contro il quale nulla possono i desideri della carne che pur ci fanno guerra. È la libertà di vivere in mitezza ed umiltà, segno della presenza dello Spirito del Signore che introduce al suo regno. È il compimento dell’invocazione che recitiamo nel Padre Nostro: venga il tuo regno, venga il tuo Spirito[4] e ci purifichi facendoci vivere in mitezza ed umiltà per realizzare fino in fondo la rivelazione dell’amore di Dio agli uomini, unico scopo di ogni annuncio apostolico.

La gioia del Regno

La gioia del regno è coinvolgente e radicale, arriva alle radici del cuore e ne alimenta la vita. Capace di far dire: l’afflizione del tuo cuore è affare tra te e Dio, mentre i tuoi fratelli hanno diritto alla tua gioia[5]; non tenere i tuoi beni come costituissero la tua gioia, perché quando te li toccassero, sparirebbe la tua gioia; non rivendicare diritti perché quando non te li riconoscessero resteresti schiacciato. Perché noi ci lamentiamo tanto nella vita? La lamentela è il sintomo della precarietà della libertà conquistata, lo spazio di morte nel quale indugiamo, un impedire al nostro cuore di vivere nell’amore esattamente là dove si trova, né più in qua né più in là, né più su né più giù!

La perdita di senso e di interiorità nella società odierna lascia gli individui troppo distanti tra loro e nell’impossibilità di superare la distanza. Troppo preoccupati dei propri diritti, non ci si accorge dello scadimento di livello nel difenderli perché, invece di lottare in nome dell’essere, finiamo per lottare solo per l’avere, nell’illusione che il possesso ci porti all’essere. Se per il possesso, agire con la forza della rivendicazione porta a qualche risultato, al livello dell’essere, rivendicare, esigere e difendere porta al fallimento. In effetti, insieme all’affermazione di se stessi sta l’incapacità del dono di sé, l’incapacità di un rapporto in gratuità e gratitudine, vera porta d’ingresso al mistero della comunione e della riscoperta delle radici del proprio cuore.

Ci potremmo domandare: in cosa consiste il regno di Dio? La risposta di Gregorio di Nissa è assolutamente chiara:

«Altrove è detto: “Mi hai dato la gioia nel mio cuore” (Sal 4,8). E il Signore dice: “Il regno dei cieli si trova dentro di voi” (Lc 17,21). Qual è il regno dei cieli che secondo lui si trova dentro di noi? Di cos’altro si può trattare, se non della gioia che si riversa dall’alto nelle anime tramite lo Spirito? Essa è come l’immagine, la garanzia e la prova della gioia eterna di cui godranno le anime dei santi nel secolo che attendono»[6].

La gioia è in rapporto con il mistero della rivelazione del segreto di Dio: la comunione con gli uomini. Come la sua gioia è quella di stare con i figli degli uomini, così la gioia per gli uomini è stare con Dio. Ma non si può stare con Dio, che è Creatore e Padre, se non insieme a tutti i fratelli. La gioia dello Spirito corrisponde, come frutto, alla sua opera, che è la riconciliazione, il poter vivere ‘un cuor solo e un’anima sola’. Forse è per questo che troviamo così difficile far sì che la gioia lambisca in profondità il nostro sentire. Vorremmo essere pieni di gioia, ma non nello Spirito Santo; vorremmo essere pieni di gioia, ma senza partecipare al segreto di Dio. Non per nulla la Scrittura abbina gioia e Spirito Santo: “… mentre i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo” (At 13,52). L’opera dello Spirito Santo è l’edificazione di un’umanità che vive ‘un cuor solo e un’anima sola’ ed in questo consiste la gioia. Queste due cose insieme sono la vita eterna, la partecipazione al mistero stesso della vita di Dio e in Dio, che non dipende minimamente da quello che fa il mondo o da quello che ci fa il mondo. Ci potrebbe venire tutto quanto contro, ma nulla potrebbe contro queste due cose. Per questo è da qui che proviene la speranza per il mondo.

Per quanto ci possiamo riconoscere in mille opere buone, non è a partire da queste che troveremo sicurezza. La grazia è data all’umiltà e non alla fatica, perché il riposo adatto per il nostro cuore è soltanto l’intimità di condivisione con Qualcuno di sentimenti profondi e non la fiducia in una propria grandezza, pur nobile. Riporto ancora un passo di Isacco Siro estremamente chiaro per riconoscere la dinamica dello Spirito:

“Non c’è nessuno che abbia discernimento se non è anche umile, né uno che sia umile se non ha discernimento. Non c’è nessuno che sia umile se non è anche pacifico, né uno che sia pacifico se non è umile. Non c’è nessuno che sia pacifico se non è anche gioioso”[7].

Una bella espressione di p. Timothy Radcliffe, pensata in rapporto al teologo, ma applicabile anche al discepolo, al credente, dice che chi ascolta la Parola è chiamato a essere il testimone della gioia di Dio, che ha fatto conoscere la profondità del suo amore per l’uomo[8]. Ogni lotta contro le nostre resistenze e le nostre ribellioni davanti alla parola come davanti alla sua osservanza, in noi stessi come in tutti, è per far scaturire la benedizione che racchiude, la benedizione della gioia.

Quando ci si oppone al mondo in nome del vangelo non è per cambiarlo con il nostro volere – sarebbe impresa vana, tragica, il trionfo dell’ideologia e non della santità cristiana -, ma per aprirlo allo splendore di Dio, solidali con l’umanità e con il creato. Quella gioia è la potenza di cui preghiamo di essere pervasi, dopo la comunione eucaristica: “La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo santo Spirito”.

Quando l’opera che si compie si traduce in vero atto sacro, il suo frutto sta nella gioia che si sprigiona nell’anima, potenza dello Spirito Santo, del regno di Dio che si rende così sfiorabile. In effetti così è delineata la comunità cristiana nei racconti evangelici della risurrezione di Gesù: una comunità unita attorno al suo Signore, testimone del suo amore, pervasa dalla gioia dello Spirito Santo, in missione apostolica nel mondo fino alla fine dei tempi.

p. Elia Citterio

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[1] Cfr. MARC LE MOINE, Traités, I, par Georges-Matthieu de Durand, Paris 1999, cerf (SC 445), La justification par les œuvres, n. 103. Nella versione italiana del primo volume della Filocalia, ed. Gribaudi, corrisponde al n. 111 e suona: “L’umiltà non è condanna da parte della coscienza, ma riconoscimento della grazia di Dio e della sua compassione” (Marco l’Asceta, A proposito di quelli che credono di essere giustificati per le opere, p. 198).

[2] “A proposito di coloro che vivono presso Dio”, Discorso 37 in E. CITTERIO, La vita spirituale, i suoi segreti, Bologna 2005, EDB, p. 210.iqajon

[3] Lettera prima di s. Chiara alla beata Agnese di Praga, FF 2864.

[4] L’espressione è riportata da Gregorio di Nissa nel suo commento al Padre nostro: “Lo stesso pensiero ci è spiegato forse più chiaramente da Luca il quale, auspicando che venga il Regno, invoca l’alleanza dello Spirito Santo. Invece di «Venga il tuo regno», dice infatti in un passo del suo Vangelo: «Venga il tuo spirito su di noi e ci purifichi»”. Si veda S. GREGORIO DI NISSA, La preghiera del Signore, Roma 1983, Paoline (Letture cristiane delle origini, 12/testi), Omelia III, p.79.

[5] “E badino di non mostrarsi esteriormente tristi e rannuvolati come gli ipocriti, ma si mostrino gioiosi nel Signore e ilari e convenientemente affabili”, Dalla Regola non bollata, VII, 16 in S. FRANCESCO DI ASSISI, Scritti, Padova 2002, Edizioni francescane, p. 267. Cfr. FF 27.

[6] GREGORIO DI NISSA, Fine professione e perfezione del cristiano, Traduzione, introduzione e note a cura di Salvatore Lilla, Roma 1979, Città nuova (Testi patristici, 15): Il fine cristiano, p. 55.

[7] ISACCO DI NINIVE, Un’umile speranza. Antologia. Scelta e traduzione dal siriaco a cura di Sabino Chialà, Bose 1999, Qiqajon, p. 180.

[8] Si veda la sua bellissima lettera ai domenicani: La perenne sorgente della speranza. Lo studio e l’annuncio della buona novella, Roma 1995, Curia generalizia dell’Ordine dei Predicatori.