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Più che una riflessione elaborata, cercherò di sviluppare punti singoli di riflessione con l’apertura a domande di approfondimento che potranno servire come base per una discussione nei gruppi. Non mi dilungherò inutilmente sulle cause del disagio che caratterizza nel suo complesso la realtà della Vita Consacrata nella Chiesa, a partire dagli anni del post-concilio fino ai giorni nostri, nonostante i tentativi di rinnovamento che generosamente sono stati intrapresi. Né voglio approfondire l’analisi della perdita di credibilità della VC rispetto al fascino esercitato un tempo.

  1. Vorrei solo soffermarmi su quello che io chiamo una strana congiuntura della realtà ecclesiale contemporanea che ravviso in due elementi. Primo elemento. Il Concilio Vaticano II, con il cap. V della Lumen Gentium, ha consacrato come acquisito in modo nuovo alla coscienza ecclesiale il dato tradizionale della universale vocazione alla santità nella chiesa. Paradossalmente, negli anni successivi, si è registrato nettissimo il declino del culto dei santi a favore, giustamente, della centralità della Parola di Dio e della figura di Cristo, ma con la conseguenza o, forse meglio, la concomitanza, della messa in sordina dello stesso ideale di santità, come se la possibilità dell’esperienza stessa di Dio, tratto peculiare della santità, non fosse più percepito come costitutivo dell’essere cristiani e dell’essere chiesa. La VC nel suo insieme lo registrava in modo marcato. La tendenza si è mantenuta nonostante la proclamazione costante dei nuovi santi nella chiesa. E quello che si può dire riferito all’ideale di santità lo si può estendere alla VC nel suo insieme.

Secondo elemento. Con la rivalorizzazione del principio della chiamata universale alla santità è stata riscoperta la dimensione della comune responsabilità di tutti i credenti nei confronti della missione della chiesa. Il documento del Concilio ‘Apostolicam actuositatem’. n. 2, recita: “Tutta l’attività del Corpo Mistico ordinata a questo fine si chiama «apostolato», che la Chiesa esercita mediante tutti i suoi membri, naturalmente in modi diversi; la vocazione cristiana infatti è per sua natura anche vocazione all’apostolato”.

La conseguenza è stata che la VC si è vista appannata nella sua stessa identità ecclesiale sia dal punto di vista dell’eccellenza dello stato di vita (è venuto meno il concetto della vita religiosa come stato di perfezione) sia dal punto di vista della missione (è venuta meno la percezione che il duplice compito dell’annuncio del vangelo e della diaconia della carità fosse un’esclusiva dei presbiteri e delle persone consacrate). Perfino il carisma, con la spiritualità e la missione che vi sono incluse, non può essere posseduto in esclusiva, come proprietà di uno o dell’altro Istituto religioso. Queste costatazioni, anche se non sono sempre proposte esplicitamente, tendono a insidiare la coscienza dell’identità dei consacrati nella Chiesa. Credo che occorra partire da qui per riformulare una visione che, mentre può di nuovo far presa sui cuori, ci renda umili e fieri rispetto a un tesoro che siamo chiamati a far risplendere nel mondo nella compagnia degli uomini.

  1. L’urgenza e la pertinenza del nostro tema è direttamente assunto dalla chiesa nel suo magistero. Giovanni Paolo II, nella sua Novo Millennio Ineunte, 29-30, scrive: “È dunque un’entusiasmante opera di ripresa pastorale che ci attende. Un’opera che ci coinvolge tutti. Desidero tuttavia additare, a comune edificazione ed orientamento, alcune priorità pastorali, che l’esperienza stessa del Grande Giubileo ha fatto emergere con particolare forza al mio sguardo. E in primo luogo non esito a dire che la prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale è quella della santità”. Benedetto XVI invita spesso alla sequela di Gesù in santità. É assunto anche dalla stessa autocoscienza dei consacrati che ritornano a proporre con sempre maggior convinzione l’ideale della santità come radice di efficacia apostolica (per es., le lettere del Rettor Maggiore, p. Pascual Chavez, ai Salesiani). L’orientamento è quello di puntare su uno stile dell’essere piuttosto che su una generosità del fare. Del resto, mi sembra che a questo si ricolleghi direttamente anche il compito pastorale che il sinodo dei Vescovi dell’Europa ha individuato per gli anni a venire nella formazione alla fede. In effetti, come formare alla fede se non facendo risplendere la bellezza della fede che è diventata radice di umanità per l’intimità di vita con il Signore Gesù che ha conquistato il cuore? E come può diventare la fede radice di umanità se non è condivisa gioiosamente nella fraternità?
  1. Per cogliere la portata di questo orientamento del sentire ecclesiale, ci possiamo rifare al cap. 6 di Giovanni, là dove viene presentata la ragione dello scandalo dell’umanità di Gesù insieme al fascino della sua rivelazione, fatto, del resto, caratteristico e della Chiesa e della VC nella storia degli uomini. É tipico di Giovanni formulare la verità su Gesù attraverso un dialogo che, mentre allude all’esperienza della storia dell’alleanza con Dio di Israele, fa emergere gli aneliti e i sogni dei cuori. La rivelazione di Gesù che l’evangelista vuole presentare è ottenuta sovrapponendo il racconto del miracolo della moltiplicazione dei pani con la trama della storia di Israele e la celebrazione liturgica dell’eucaristia della chiesa. Il racconto non ha il sapore di un semplice ricordo, ma la potenza di un memoriale che si rinnova e partecipa la grazia che racchiude, grazia che arriva fino a noi che leggiamo o ascoltiamo. Non va dimenticato che Giovanni non racconta l’istituzione dell’eucaristia che ci dà la vita del Figlio, essendo l’argomento di tutto il suo vangelo. Il suo cap. 6 ne illumina proprio il mistero.

            Vedendo il comportamento della folla, prima entusiasta, poi delusa e latitante, ci possiamo chiedere perché sia così difficile per l’uomo entrare nel progetto di Dio e accogliere la sua grazia. Seguire il Signore, evidentemente, è diverso che desiderare il Signore. Rammentando un altro passo del vangelo, potremmo rispondere che effettivamente troviamo se cerchiamo ma non troveremo quello che cerchiamo. Se la grazia è grazia, vuol dire che non è semplicemente in funzione dei nostri desideri, sebbene sia proprio la grazia a colmare davvero i nostri desideri. Riecheggiano i passi del salmo 144: “Giusto è il Signore in tutte le sue vie e buono in tutte le sue opere. Il Signore è vicino a chiunque lo invoca, a quanti lo invocano con sincerità. Appaga il desiderio di quelli che lo temono, ascolta il loro grido e li salva”. Come a dire: se vogliamo il pane e non la gioia di colui che ce lo dà per essere in comunione con lui, come pensare di essere esauditi? Non rivivremo lo stesso esito della folla, che lascerà di seguire Gesù?

Tutti mangiano, tutti si entusiasmano ma nessuno in realtà sa vedere l’opera di Dio. Gesù si darà da fare per cercare di far capire, ma invano. Gli uomini potranno capire solo dopo che avranno rimirato Colui che hanno trafitto. Quel pane mangiato diventerà pane di vita solo quando parlerà di quella passione d’amore di Dio per l’uomo. L’ amore di Dio per l’uomo non lavora mai secondo il registro della potenza, così caro agli uomini, i quali vorrebbero soddisfare i loro desideri servendosi di Dio, invece che aprire i loro desideri a Dio e accoglierne la grazia. In realtà, tutta la difficoltà per il cuore degli uomini nei confronti di Dio risiede qui. Gesù sa bene questo e pur cercando in ogni modo di aprire la mente degli ascoltatori, nelle varie occasioni, sa di dover andare a Gerusalemme, dove la verità del suo amore per gli uomini si farà splendente da conquistare finalmente i cuori e infiammarli dello stesso amore. Vale la stessa cosa anche per noi oggi e una delle difficoltà ad aderire veramente al Signore nasce dal misconoscere il senso di questo cammino.

Se riandiamo al racconto di Giovanni, all’inizio troviamo una folla smarrita: non trova più Gesù, che si è ritirato in solitudine sul monte. La ragione è da ricercarsi nel fatto che i discepoli hanno abbandonato il maestro e se ne sono andati senza di lui. La gente non sa più dove trovare il Signore quando la sua comunità l’abbandona. Non è una responsabilità di poco conto per la chiesa!

Cercano Gesù perché sentono che quel profeta ha qualche cosa da dire da parte di Dio, dentro quella storia di alleanza con Dio che tutti condividono. Gesù li rincalza nelle loro domande per portarli a vedere il dono di Dio che sta avvenendo e di cui essi non si avvedono. Li conduce attraverso vari passaggi che possiamo sintetizzare in tre.

Primo passaggio: Gesù sposta l’attenzione dal cibo come alimento di vita alla vita che il cuore desidera. Dichiara subito che quella vita deriva da lui sul quale il Padre ha posto il suo sigillo. Ma il sigillo è lo Spirito Santo che su di lui riposa in pienezza e che lo rende capace di dare la sua vita perché si manifesti quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini e perché gli uomini tornino capaci a loro volta di dare la vita nella stessa sua dinamica di amore. É il passaggio dal soddisfare un bisogno alla scoperta di un senso, cosa tutt’altro che scontata.

Secondo passaggio: dalle opere all’unica opera. Saremo giudicati in base alle opere, ma il valore delle nostre opere deriva da un’unica opera. La risposta di Gesù mette in rilievo che il cuore non troverà il compimento dei suoi desideri nelle opere. Un’opera sola ricerca Dio: credere in Colui che egli ha mandato. Ma credere a Dio significa accogliere il suo amore per l’uomo, manifestato nel Figlio, al punto da non poter vivere che di quell’amore, che dentro quell’amore, che dà senso a tutte le opere che possiamo intraprendere. Non sono però le opere a precedere, ma l’amore di cui queste si nutrono. E senza questa esperienza le opere non porteranno gioia e non si risolveranno in conoscenza amorosa di Dio. La domanda della folla “che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?” potrebbe essere resa: “Come vivere in concreto il comando dell’amore perché porti vita a noi e a tutti?”, tenendo presente che l’unica possibilità per l’uomo resta quella offerta da Gesù: l’unione con lui comunica la vita di Dio al mondo. Se le nostre opere non lasciano trasparire quell’unica opera, porteranno vita?

Terzo passaggio: l’uomo vuole sincerarsi dell’offerta di Gesù prima di affidarsi. Dio aveva dato la manna al popolo confermandosi così il loro Dio, secondo il racconto dell’Esodo. E Gesù cosa dà? La risposta di Gesù introduce al suo mistero, che è il mistero dell’amore di Dio per il mondo. Gesù rimanda al dono di Dio che lui rappresenta e che diventa la cifra eloquente del suo amore per gli uomini, amore di cui fa dono facendo dono di se stesso. Percepito così, come non volerlo? Eppure non è facile convincere il cuore degli uomini che lì trova quella vita che cerca. Si avverte confusamente ma potentemente tutta la rischiosità del passaggio: dare fiducia al Signore, all’amore del Signore, consegnandosi a quel Figlio che promette libertà, verità e vita. Si resta come sull’orlo dell’abisso: o ti trattieni nelle tue sicurezze di un tempo (in realtà, ti abbarbichi alle tue paure) o ti abbandoni ad una fiducia che senti nascere ma di cui non sei per nulla padrone. Eppure, la vita scaturisce da qui. I desideri che la folla rivela e che tutti portiamo in cuore, vale a dire: l’urgenza etica per una qualità di vita accettabile, l’apertura al mistero di Dio che si manifesta, la fame del pane della vita, trovano qui la linfa per custodirli e compierli nella storia quotidiana.

Come sempre nel vangelo di Giovanni, ma in particolare in questo dialogo, le espressioni hanno un valore intensivo. Come succede spesso nella vita di tutti i giorni, tutto può scadere in ovvietà, materiale o religiosa che sia, eppure tutto può assumere sfumature insospettate. In questo brano i verbi usati (discendere, mangiare, vedere, credere, imparare) hanno tutti risonanze, scritturistiche e interiori, impensabili. Gesù cerca di illustrare il mistero che costituisce la sua persona come il segreto di Dio svelato agli uomini che, pur immensamente desiderabile, non è facilmente ricevibile. Perché? La reazione della gente al fatto che Gesù si presenti come il pane della vita è rivelatrice. Di per sé la gente non rifiuta l’equiparazione di Gesù al pane di vita; rifiuta l’affermazione che lui discenda dal cielo. Come a dire: rifiutano il suo venire da Dio perché sembra scandaloso che Dio si confonda con l’umanità. Essi ne conoscono la famiglia, la provenienza (cf. Mt 13,55; Mc 6,3; Lc 4,22; Gv 7,15). Come può dire di venire dal cielo? Forse c’è l’allusione alla credenza che del Messia non si potesse sapere l’origine oppure, velatamente, potrebbe esserci un’allusione alla nascita verginale di Gesù. Il fatto comunque è che la rivelazione definitiva di Dio è ormai l’umanità di Gesù, tanto che mangiare la carne del Figlio dell’uomo significa assimilare il Figlio di Dio fino a vivere di lui. Non è possibile che l’uomo non desideri la presenza del Signore e il suo amore, ma proprio quando gli viene rivelato che quel desiderio può essere soddisfatto fa resistenza.

Gesù aveva notato che la gente l’aveva visto ma non aveva creduto; ricorda poi che chi lo vede e crede ha la vita. C’è un modo di vedere senza arrivare a credere come un modo di credere senza arrivare a vedere. Il vedere santo – potremmo chiamarlo così – , invece, è quello che impegna il cuore ad aderire a Dio accogliendo il suo segreto per noi, tanto da vivere della potenza di vita e di amore che quel segreto comporta. Quel segreto si svela con il Figlio dell’uomo, dato per noi, che consegna il suo Spirito a noi perché anche noi possiamo vivere nella stessa dinamica di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini. Ci possiamo di nuovo chiedere: perché, pur desiderando la vita, i cuori non l’accolgono?

Forse la risposta va cercata proprio in quel movimento di discesa che caratterizza l’agire di Dio. Il discendere dal cielo non indica semplicemente la provenienza di Gesù; indica piuttosto il movimento dell’abbassarsi di Dio per comunicare il suo amore e far vivere. Gli uomini non amano abbassarsi, benché vogliano la vita e desiderino l’amore e quindi pensano sempre in termini di grandezza mondana, dove il potente prevale sul debole, dove l’alto la spunta sul basso, dove l’affermazione di sé presuppone l’innalzamento. Gesù, quando parla di innalzamento, allude sempre al suo essere innalzato sulla croce, là dove risplende l’amore di Dio per l’uomo. Ma non esiste altro movimento per vivere un amore tanto che aprire il cuore al credere significa approdare alla percezione della grazia dell’accondiscendere a quel movimento di abbassamento perché risplenda in questo mondo l’amore di Dio. La fede è proprio a servizio dello splendore di quell’amore che discende dall’alto e di cui il pane eucaristico è simbolo perfetto.

La verità  che noi credenti in Cristo confessiamo usualmente, cioè che in Cristo ci è data la rivelazione piena dell’amore di Dio, siamo poi disposti ad accoglierla in tutta la sua densità? Una confessione del genere resta vincolata a due domande specifiche. Prima domanda: chi si vuole servire? (cf. Gs 24). Nel linguaggio della Scrittura servire Dio allude a un rapporto gioioso e liberatorio che esalta le energie dell’anima sottraendola alle schiavitù quotidiane e all’oppressione del male. Quale dio servire? Il servizio funziona in ragione della continuamente reiterata libertà di scelta per la verità. E di quale verità ci si vuol nutrire?  Prima che il popolo accetti di servire il Signore suo Dio, Giosuè ricorda: “Voi non potete servire il Signore perché é un Dio santo, è un Dio geloso; egli non perdonerà le vostre trasgressioni e i vostri peccati. Se abbandonerete il Signore e servirete dèi stranieri, egli vi si volterà contro e, dopo avervi fatto tanto bene, vi farà del male e vi annienterà”. I tradimenti si consumano nella beata incoscienza. La provocazione di Giosuè tende a impedire la stolta, beata incoscienza. Servire Dio significa aprirsi alla sua grazia e non piegare la sua grazia ai nostri interessi, cosa facile a pensarsi, ma non altrettanto a farsi.

Seconda domanda: cosa si vuol cercare?, domanda di cui avvertiamo l’eco nel rivolgersi di Gesù a noi quando la delusione fa capolino: “Volete andarvene anche voi?”. Non c’è nessun esito scontato nella vita. Di fronte all’incomprensione dei suoi discepoli Gesù non riduce il Dono di Dio, non banalizza il suo mistero. Svela i vari aspetti del suo mistero, ma il mistero resta. Questo significa che la rivelazione di Dio non comporta una semplificazione del suo mistero, ma più semplicemente la sua maggiore prossimità. La tensione del cuore non va puntata sul contenuto del mistero, spesso inafferrabile, ma sul dinamismo che lo caratterizza: “Dio ha tanto amato gli uomini da dare il suo Figlio unigenito …”. Ciò che è da cogliere è questa intenzione di Dio, che va diritta al cuore. E quando spunta l’incomprensione tra Dio e i suoi figli, nel dramma della vita, vale unicamente la risposta di Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”. Pietro non si esprime in merito al discorso che Gesù ha fatto, ostico anche per lui, ma si esprime in merito al senso della Sua persona per il suo cuore perché intuisce che da qui viene la vita. É il punto fermo che la stessa esistenza della VC richiama realisticamente. Ma quanto autenticamente?

Un’ultima annotazione. Il brano finisce con l’allusione al tradimento di Giuda, nonostante che la scelta di Giuda sia stata fatta dallo stesso Gesù. Ecco la questione: se è Dio ad attirare gli uomini, allora in che cosa gli uomini sono responsabili del loro rifiuto? É Dio a scegliere, sì, ma la sua scelta non comporta automatismi, perché fidarsi di Dio significa fidarsi dello spazio di libertà in cui ci pone. Lo spazio di libertà è in funzione della possibilità dell’incontro, gioia di Dio e dell’uomo insieme. Così la fede esprime l’umano nella sua radicalità quando, per compiersi, si scopre fondato e attratto da un oltre che lo sorpassa, benché gli appartenga. La scelta di Dio non comporta perciò l’esito scontato. É il dramma che segna tanto Dio (che resta solo, se abbandonato da noi) come pure noi, che restiamo soli senza di Lui, incapaci come siamo a realizzare la nostra stessa vocazione umana. L’amore di Dio però non viene meno tanto che quei discepoli, che ora abbandonano Gesù perché il suo discorso è troppo duro, saranno gli stessi che, guardando a Colui che hanno trafitto, potranno ricredersi e convertirsi e finalmente avere la vita, cosa sempre possibile per tutti noi. Perché l’uomo non si condanni alla solitudine, restando in balia delle sue ossessioni, è invitato a vivere nell’alleanza offertaci da Dio, in Cristo, e non a condizionare l’alleanza ai suoi scopi, che comportano il rifiuto di quelli di Dio. Ma negli scopi di Dio sta appunto l’offerta di vita eterna, che non può provenire da noi stessi. É lo stesso spazio del dramma che si trasforma nello spazio di una vita piena, intrisa di gioia inattaccabile, allorché Dio e l’uomo si incontrano, esperienza sempre misteriosa e imprevedibile, di cui la VC è segno fascinoso. Se restasse priva di questo segno, la VC avrebbe ancora qualcosa da dire ai cuori?

Il senso di tutto quello che ho cercato di descrivere commentando il lungo discorso di Gesù nel cap. 6 di Giovanni si nasconde però in un particolare che non ho ancora illustrato. A un certo punto Gesù proclama: “Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 6,40). Qui ritrovo l’immagine di fondo adatta a delineare la natura della VC e a percepirne la mediazione pastorale di santità possibile nel mondo. La volontà del Padre è di mostrare il Figlio, far sì che gli uomini possano contemplarlo (non semplicemente vederlo, indicando con ciò il fatto che non si tratta di semplice conoscenza storico-razionale o sentimentale o dottrinale) per avere la vita che da lui discende. Ora, la santità parla proprio, lungo la storia degli uomini, di quel mostrare il Figlio che rivela l’amore del Padre per gli uomini. Non per nulla, nella tradizione bizantina, i santi si chiamano i somiglianti, la Vergine la somigliantissima. La realtà della VC, nel suo stesso esserci, non allude proprio a questo movimento di rivelazione di Dio: mostrare il Figlio perché tutti abbiano la vita? Tutto converge su quell’unico Volto che non solo fa risplendere ma irradia della sua bellezza la nostra umanità, rendendola capace di godere della prossimità di Dio, accondiscendendo al suo movimento di abbassamento.

Così, una pastorale che non si faccia carico di mostrare lo splendore di questa rivelazione e di accompagnare i cuori a goderla non può toccare le radici dei cuori. Resterà ingabbiata nell’ordine della funzionalità, dei servizi, senza riuscire ad aprire orizzonti o impegnare i cuori. Vale per la Chiesa come per la VC. Anche perché – mi sembra essenziale rammentarlo! – la santità non risponde ad un ideale, ma riguarda il fondamento. Il discorso sulla santità procede dal porre la questione delle radici, del fondamento, da non confondersi con quella degli ideali. L’ideale è più una questione di investimento psichico, il fondamento riguarda le energie del cuore. L’ideale ha bisogno di entusiasmo, il fondamento di intelligenza spirituale. E mi sembra che oggi manchi più l’intelligenza spirituale che l’entusiasmo. Porre la questione delle radici significa, in altre parole, introdurre il discorso sulla santità possibile, sull’amabilità e la possibilità di vivere senza vergogna e senza illusione, in comunione con Dio, nella grazia di una ritrovata fraternità, secondo la rivelazione e la responsabilità che scaturiscono dal Vangelo.

Collegato al discorso sul fondamento, sulle radici del nostro vivere, sta l’altra questione: perché la pratica cristiana spesso non conduce alla letizia? Possiamo dire che la rivelazione di Gesù costituisca la letizia della nostra umanità? E se non conduce là, possiamo dire che la rivelazione di Gesù tocca le radici del nostro cuore? É molto facile essere ingabbiati nell’impossibilità di soddisfare i desideri del cuore, restando così sulla propria fame. Gesù aveva avvertito: “Non mormorate. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato”. S. Agostino, commentando questi versetti, ha un’intuizione geniale. Osserva che se siamo attirati dal Padre, questo non vuol dire che siamo attirati per forza. E cita un verso del poeta Virgilio: “trahit sua quemque voluptas” (Bucoliche, Egloga II,65). Vale a dire: ognuno è attratto dal suo piacere. É come se dicessimo a Dio: fa, Signore, che io trovi in te la mia felicità e tu mi darai i desideri del mio cuore (cf sal 37,4: “cerca la gioia nel Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore”). In verità il testo del salmo non dice semplicemente che Dio soddisferà i desideri del nostro cuore, ma che farà nascere i desideri del nostro cuore, il nostro cuore vorrà ciò che forma la sua felicità. In questo verremo ammaestrati da Dio, perché saremo attirati là dove il piacere del nostro cuore ci spinge. Già il profeta Geremia l’aveva proclamato: “Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato” (Ger 31,33-34). Ora, proprio nel Cristo, il Figlio prediletto, morto e risorto per noi, noi otteniamo il perdono dei nostri peccati, siamo accolti nel perdono di Dio che ci consente di vederlo, di scoprirlo cioè nella sua verità di amore per noi. E nessuno ce lo spiegherà, perché lo capiremo direttamente, esperienzialmente. Quando Gesù proclama che lui è il pane di vita, dice essenzialmente che lui ci comunica quell’amore di Dio che è radice di vita e che ci permette di conoscere Dio direttamente (= secondo esperienza) accogliendoci senza riserve nel suo perdono. Proprio questo è ciò che la folla desiderava nel profondo del suo cuore, ma alla fine si trova impossibilitata ad accettare perché non si riconosce adatta al mistero di Dio. La VC dà testimonianza della verità di questa conoscenza diretta?

  1. Oggi viviamo un determinato contesto culturale che occorre imparare a decifrare per poter recepire l’invito alla santità che presiede all’azione apostolica della chiesa, in sintonia con la sensibilità dell’uomo contemporaneo, che può essere specificata attorno a due principi: il principio di autenticità e quello di non autoreferenzialità. Credo che occorra riconciliare i cuori con l’invito alla santità, permettendo loro di coglierlo a partire dalle loro stesse esigenze, così come oggi sono percepite. Lo sforzo dovrebbe essere quello di riuscire a cogliere l’esperienza interiore che soggiace ai condizionamenti ed alla sensibilità attuali per riscattarne l’anelito di fondo, l’energia positiva e compierla in verità. Senza un’operazione del genere la coscienza fatica a ritrovare negli ideali di sempre significatività e rilevanza.

La coscienza odierna è estremamente sensibile alla cultura cosiddetta dell’autenticità[1], dove l’aspirazione all’auto-realizzazione non deve essere vista come una concessione all’individualismo, all’egoismo autoindulgente, permissivo, ma in funzione di un certo ideale che ha presa sulla coscienza stessa. Nel definire il  movimento dalle molte facce che caratterizza la nostra cultura e che si potrebbe chiamare ‘soggettivizzazione’, occorre distinguere due aspetti tra i quali corre una differenza importante: uno concerne la maniera e l’altro il contenuto dell’azione. A livello della maniera in cui abbracciamo una qualunque meta o forma di vita, l’autenticità è palesemente auto-referenziale: l’orientamento che scelgo deve essere il mio orientamento. Ma ciò non significa che, ad un altro livello, il contenuto debba essere anch’esso auto-referenziale. Anzi, l’appagamento si ottiene solamente in qualcosa che ha un significato oltre e indipendentemente da noi o dai nostri desideri. Confondere questi due livelli è disastroso.  Solamente il primo è ineluttabile, nel senso che è inammissibile un ritorno all’indietro che ci riporti a prima dell’epoca dell’autenticità, mentre il secondo, se viene confuso col primo, finisce per fornire legittimità alle peggiori forme di soggettivismo. Del resto, molte forme individualistiche di vita, con il corollario inevitabile della cosiddetta autorealizzazione, pescano in questa confusione.

I termini del problema per noi oggi credo siano i seguenti: se l’autenticità significa recuperare un contatto morale autentico con noi stessi, che è fonte di gioia e di appagamento, se significa essere fedeli a noi stessi, allora si può trovare compiutamente la  propria realizzazione soltanto se riconosciamo che questa tensione interiore ci congiunge a una totalità più ampia. Noi abbiamo perso  il senso di appartenenza operante attraverso un sistema dato di valori  e questa perdita va compensata con il senso, più forte e più intimo, di un legame. L’invito alla santità lo porrei qui a condensare e a svelare la forza e l’intimità di quel legame che ci viene dall’alto e ci costituisce nell’intimo.  Rientra nella capacità e nel dovere di mediazione della chiesa, attenta alla voce di Dio e alle esigenze dei cuori, proporre l’invito alla santità in tutta la sua rilevanza. La posta in gioco è la vivacità stessa della trasmissione della fede. Chiaramente la più convincente articolazione di quel legame per gli uomini del nostro tempo appartiene alla genialità e fecondità dell’esperienza cristiana  testimoniata dai santi in carne ed ossa. E quando preghiamo perché il Padre mandi operai per la sua messe (cf Lc 10,2) preghiamo Dio perché continui a fare dono di Sé agli uomini attraverso i suoi santi, come ha fatto dono di Sé nel Figlio, il Santo, che ha rivelato il Suo volto agli uomini. Credo sia necessario, invece che criticare la cultura e la società o perdersi in lamentele e recriminazioni, ritornare a descrivere la bellezza della fede ancorandola alle esigenze dei cuori che vogliono sentire vere le cose che si dicono; non possono accettarle semplicemente perché corrispondono alla verità di una dottrina, ma perché risultano traducibili in percorsi di vita capaci di rispondere alle attese più profonde.[2]

A me sembra che le attese dei cuori ruotino attorno a tre bisogni. Primo, il bisogno di senso. Gli uomini di oggi non hanno più il senso di uno scopo superiore, qualcosa per cui valga la pena di morire. Concentrandoci sulle nostre vite individuali, abbiamo perso la visione più ampia di un’appartenenza ad un insieme significativo e fonte di significato. Ciò appiattisce e restringe le nostre vite, impoverendone il significato. É inevitabile uno scadimento della tensione etica, che rafforza questa chiusura d’orizzonti sull’io, sempre più in balia delle sue ossessioni. In effetti, alla perdita di senso si accompagna sempre una forma di ir-responsabilità, cioè di non risposta di fronte alle questioni che trascendono l’individuo. Il riapparire del religioso, anche nelle sue forme più assurde, assolve al bisogno di senso, spesso però in maniera tragicamente illusoria (vedi il proliferare di sette e movimenti dalle qualifiche più fantasiose). Rispondere al bisogno di senso significa ridare capacità di responsabilità come portatori di un compito che ci trascende e ci rivela a noi stessi.

Secondo, il bisogno di interiorità. La tendenza alla valorizzazione del soggetto nella nostra cultura è un fatto ricco di conseguenze positive, ma in pratica spesso si risolve in una specie di relativismo dove il soggetto si sente arbitro non solo dell’agire, ma del suo essere. È l’illusione di definirsi in base a ciò che si sente senza voler o poter raccordare ciò che si sente a uno scopo e a un compito che ci precede e ci interpella. Si finisce col restare prigionieri della propria soggettività, dilatata all’infinito fino alla vacuità, senza più radici, senza più identità. La conseguenza, per quanto strana possa sembrare, è che il soggetto non è più capace di intimità, non sa più vivere in intimità né con se stesso né con Dio né con gli altri né con le cose. Dove si stempera l’identità non può esserci intimità. Ma il desiderio di intimità come della propria identità è costitutivo del nostro essere. Così, alla illusione di una dilatazione interiore fasulla, si accompagna il desiderio di una interiorità autentica, che si traduce nel rifiuto della vacuità, nel desiderio di essenzialità, nella disponibilità a cercare un cammino spirituale che dia ragione delle aspirazioni del nostro cuore e si configuri come un riappropriarsi della totalità del nostro essere.

Terzo, il bisogno di comunione. La perdita di senso e di interiorità lascia gli individui troppo distanti tra loro e nell’impossibilità di superare la distanza. Troppo preoccupati dei propri diritti, non ci si accorge dello scadimento di livello nel difenderli perché, invece di lottare in nome dell’essere,  finiamo per lottare solo per l’avere, nell’illusione che il possesso ci porti all’essere. Se per il possesso agire con la forza della rivendicazione porta a qualche risultato, nell’essere rivendicare, esigere e difendere porta al fallimento. In effetti, insieme all’affermazione di se stessi sta l’incapacità del dono di sé, l’incapacità di un rapporto in gratuità e gratitudine, vera porta d’ingresso al mistero della comunione e della riscoperta delle radici del proprio cuore. Non è forse quello che fa presagire un uomo che sentiamo lambito dalla santità allorquando scopriamo che ha un cuore più vasto del suo interesse personale, che oltre a farci sentire il bene di cui è capace senza nulla in cambio, ci rende a nostra volta capaci di agire similmente? Si apre allora una finestra sul mistero stesso di Dio. Scoprire Dio passa spesso attraverso lo scoprire la Fonte e il Nome di quel bene. Tutto quello che succede al cuore dopo questa scoperta resta  segreto, ma la sensazione sicura è che il mondo è diventato più vivibile ed umano.

La VC ha a che fare direttamente con tutto questo e la mediazione pastorale della Chiesa non può non farsi carico di questo. In sintesi potremmo dire che la mediazione pastorale della VC, rispetto ai cuori ai quali vuole far giungere l’annuncio della buona novella, si traduce nel conoscere le loro sofferenze, nell’intuirne i desideri profondi e nel suggerire le vie adatte per compierli.

  1. Con quali strumenti specifici la VC vive la dimensione pastorale della sua missione nella chiesa e nel mondo? Se la Chiesa “affida alle comunità di vita consacrata il particolare compito di far crescere la spiritualità della comunione prima di tutto al proprio interno e poi nella stessa comunità ecclesiale ed oltre i suoi confini” (Vita Consecrata 51), ciò significa che diventa particolarmente urgente per la VC rivalorizzare in chiave apostolica i due strumenti specifici della sua sensibilità ecclesiale, vale a dire la lectio e la vita comune, la centralità della Parola di Dio e la vita fraterna. Nel progetto pastorale della Chiesa locale, la dimensione pastorale dell’esistenza della VC si gioca proprio attorno a queste due risorse, al di là delle caratteristiche specifiche dei carismi dei vari istituti. La lectio esprime il radicamento personale nel mistero di Cristo e la vita comune costituisce il luogo di umanità dove si realizza la tensione alla santità della vita in Cristo, che altro non è, secondo le parole di Giovanni Paolo II, che quella “misura alta della vita cristiana ordinaria” (Novo Millennio Ineunte 31). La vita fraterna, con la convivenza di persone che non si sono scelte per ragioni elettive, affettive o professionali, ma solo in ragione di un’esperienza di fede e in un’obbedienza accolta e condivisa, rende l’annuncio evangelico e la sequela del Signore umanamente più credibili. Offre una testimonianza ecclesiale di vicinanza alla vita dei laici e delle famiglie, alle prese con le ferite e le sfide della vita, alimentando un segnale di speranza. Poter approfondire insieme la lettura della propria situazione, scoprendo le disponibilità e le resistenze, aiuta a riconoscere le sfide fondamentali e ad affrontarle con coraggio e fiducia e in questo concorrere a costruire un modello alternativo di umanità e di famiglia umana, nella prospettiva della speranza cristiana, dentro il tessuto ecclesiale di un determinato territorio.

Vorrei spendere qualche parola a illustrare la potenza di queste due risorse caratteristiche della VC. La prima richiama la capacità di ascolto. Se non si attiva l’ascolto interiore della Parola, non si attiverà nemmeno l’ascolto sincero dei cuori, neppure quello del nostro cuore. Il movimento dell’ascolto è tipico della dinamica della fede e dell’intelligenza della Parola. Prima occorre udire, ascoltare: noi non siamo produttori di messaggi, tanto meno siamo produttori di significati. Siamo invece invitati a cogliere i messaggi, ad essere testimoni degli eventi e ad assimilarne i significati. Non è però nemmeno sufficiente ascoltare, se l’ascolto non introduce alla visione, all’andare a vedere, come viene descritto nei brani evangelici della natività a proposito dei pastori. Il che significa: se non sei disposto a praticare quello che ascolti, non potrai mai vedere e non scoprirai mai se il messaggio aveva una verità per te. E se non si arriva a vedere, la nostra vita non sarà interessata e non potrà mai risolversi in racconto di lode, racconto e lode che costituiranno per altri l’invito angelico: vi annuncio una gioia grande! La stessa dinamica, in una visione di fede, vale per gli eventi della nostra vita: se non li accolgo come Provvidenza di Dio per me, non potrò comprenderli e comprendermi. Sarebbe un’illusione aspettare di accoglierli finché non li abbia compresi. Significherebbe voler vivere la vita esigendo risposte previe invece di trovarle proprio perché si accetta di viverla da dentro una benedizione, qualunque siano gli eventi quotidiani. Davanti alle Scritture, non si tratta di leggere per saperne di più, ma per aprirsi al mistero, per entrare più a fondo nel mistero, per imparare a pensare nello Spirito.

Dello Spirito si dice: “Lo Spirito del Signore ha riempito l’universo, egli che tutto unisce, conosce ogni linguaggio” (Sap 1,7). Se è vero che lo Spirito del Signore conosce ogni linguaggio perché tutto unisce, allora unire il tutto e farlo risplendere dell’amore di Dio è proprio dello Spirito di Dio, autore delle Scritture. Invece la carne, che ha il suo linguaggio, non conosce gli altri. Il nostro dramma proviene proprio dal fatto di imporre un linguaggio sugli altri, di imporci con un linguaggio contro gli altri, con la conseguenza che non sappiamo più conoscere il linguaggio degli altri e perdiamo il senso stesso del nostro. Per questo, quando si accoglie lo Spirito, le cose si aprono, non ci sono più ostili e noi non restiamo più ostili nei loro confronti e lo spazio di comunione si allarga, si scioglie la fatica. Il segreto? Accogliere solo la lingua che porta alla comunione, rinunciando ad ogni altra. È la lingua della Scrittura quando viene letta spiritualmente. Si tratta di dare fiducia alla promessa di Gesù di inviarci il suo Spirito, che tutto unisce perché tutto conosce. E questo vale anche per il nostro cuore, diviso da mille contraddizioni e tirannie.

La seconda richiama l’azione dello Spirito nel concreto della vita. Risuona tremenda, e consolante al tempo stesso, l’affermazione di Paolo ai Romani : “tutto quello, infatti, che non viene dalla fede è peccato” [3] (Rm 14,23). Potremmo commentare: quello che non deriva dalla confidenza in Dio viene dalla paura e se viene dalla paura è la rivendicazione che avanza, rivendicazione che stoppa il cammino della comunione con se stessi, con gli altri, con Dio, con le cose. Ora, la vita fraterna è il luogo per eccellenza dove l’esperienza della confidenza in Dio vince ogni forma di rivendicazione individualistica. Tanto che vi si può applicare la proclamazione del profeta Abacuc: “Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede” (Ab 2,4), intendendo: chi non avanza pretese confida davvero in Dio, non inciamperà nella vita perché non sarà in contesa con gli uomini; l’intimità con Lui lo custodirà nella libertà di un cuore che ormai non ha più bisogno di dimostrare ed esibire nulla perché ha trovato ristoro e diventerà a sua volta fonte di vita per tutti. La rettitudine del servizio divino sta esattamente in questo accogliersi nei confronti del padrone senza perdersi nei confronti con gli altri servi. A questa condizione, la vita fraterna torna a essere luogo di rivelazione di Dio e spazio di esperienza di umanità.

Quando, nel Padre nostro, invochiamo “venga il tuo regno”, annota Gregorio di Nissa: “Lo stesso pensiero ci è spiegato forse più chiaramente da Luca il quale, auspicando che venga il Regno, invoca l’alleanza dello Spirito Santo. Invece di ‘Venga il tuo regno’, dice infatti in un passo del suo Vangelo: «Venga il tuo spirito su di noi e ci purifichi»”[4]. Ci purifichi, vale a dire abiliti il nostro cuore a vivere in tutta la sua estensione, profondità ed intensità la fraternità. Se il nome di Dio rivelato da Gesù è Padre, allora l’azione dello Spirito è la fraternità, che diventa sacramento della paternità di Dio. Quando, nell’invocazione successiva, domandiamo “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”, chiediamo di poter vivere in modo da celebrare il Signore in grande concordia, nell’amore e nella pace, al modo degli angeli in cielo perché là non vi è orgoglio né invidia, ma amore e sincerità vicendevole[5]. Se ‘cielo’ è la dimora adorante di Dio, ‘terra’ è tutto ciò che è segnato dal peccato, dalla divisione. I nostri cuori sono ancora terra e noi preghiamo che questa terra finalmente diventi tutto cielo, dove godere della comunione con Dio e con i fratelli in pienezza. Perché il cielo è la dimora di Dio, là dove Dio è adorato e glorificato. Il cielo è il nostro cuore, che diventa dimora di Dio; e segno della sua presenza in noi è appunto la fraternità. Quando s. Paolo (cf Col 1,9-12) dice che le opere devono portare il frutto della conoscenza del Signore allude a questo ‘mistero della fraternità’ come rivelazione di Dio, perché la conoscenza del Signore è la condivisione del suo segreto, del suo desiderio di comunione con gli uomini.

Tutta l’opera spirituale, l’opera che procede dallo Spirito, è indirizzata a questo. Parte dalla condivisione del segreto di Dio in Gesù, si fa comunione di vita con lui e diventa fonte di vita per tutti. Dinamismo, che potremmo interpretare in rapporto ad un sincero voler bene. Forse, più che cercare di volere bene a qualcuno, dove bene è il complemento oggetto del volere, si dovrebbe imparare a volere bene qualcuno, dove bene è un avverbio che esprime il modo adeguato di volere che qualcuno o qualcosa siano. L’ascesi per la santità è un’ascesi che tende a generare un nuovo modo di volere in cui l’accento non sia posto tanto sull’affermazione di sé quanto sulla disponibilità a servire ciò che è voluto, ad accompagnarlo al suo destino, servitori e testimoni di un mistero che ci supera e ci racchiude. In questo contesto trova piena espressione la libertà, oggi tanto agognata e così facilmente fraintesa. Un uomo libero è un uomo che in mitezza e umiltà vuole bene chiunque: non ha più ostruiti i sentieri interiori verso nessuno e nessuna cosa.  Il mondo può risplendere ancora della primitiva luce di Dio.

  1. Ci possiamo ancora domandare: attorno a quali nessi si gioca il contributo della VC nell’agire pastorale? Fondamentalmente, attorno a tre: fede/carità, fede/sapienza, missione/testimonianza. Prendiamoli in esame brevemente uno ad uno.

Fede/carità. Il nesso concerne il rapporto tra radice e frutto nell’agire spirituale. Avevo sopra notato come Gesù si dichiarasse pane di vita perché su di lui il Padre aveva posto il suo sigillo (cf Gv 6,27). Ma il sigillo è lo Spirito Santo, che su di lui riposa in pienezza, rendendolo capace di dare la sua vita perché si manifesti quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini.  La fede, l’autenticità della fede, la sincerità del credere, dipende dallo spazio che il cuore concede libero alla potenza dello Spirito, il cui agire si percepisce nel dinamismo di una carità che ci guida a dare la vita perché a tutti si riveli l’amore di Dio per gli uomini. Tutta la disciplina interiore, tutto lo sforzo ascetico trova qui il suo obiettivo qualificante. La fede che non si traduca in carità è smorta, ma un amore che non faccia presagire la fede è destinato inevitabilmente a vincolare gli uomini a sé. Il nesso comporta l’esito che a prevalere debba essere la testimonianza di quanto grande sia l’amore di Dio per gli uomini, testimoniato da noi e non il nostro amore. La carità allude sempre all’intimità dell’esperienza di Dio, rivelato in Gesù, del nostro cuore. Qui si coglie in tutta la sua rilevanza la forza del comandamento di Gesù: “Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). L’aver sottaciuto questo ha comportato una certa banalizzazione dell’esperienza cristiana e una certa irrilevanza del mistero cristiano nel vivere l’obbligazione all’agire buono verso il prossimo. Il movimento non è chiuso, ma aperto, nel senso che l’esito del bene non è quello di farmi dei meriti o di far vivere bene eventualmente gli uomini, bensì permettere alle persone che amo di conoscere a loro volta il Volto di Dio e il suo amore e permettere quindi a loro volta di amare altri secondo la stessa dinamica. Non che questo avvenga per ogni uomo che cerchiamo di amare, ma, come è valso per Gesù, così  vale anche per i suoi discepoli.

Si innesta qui la questione delle opere. Con quale intenzione di fondo esibiamo davanti a Dio i meriti di un agire buono? Per far emergere la coscienza di questo basta che ci confrontiamo con il passo di Lc 6,27-38 e scopriamo una cosa sorprendente. Gesù sta parlando ai suoi discepoli per illustrare la potenza e l’estensione della dinamica che l’incontro con lui ha messo in moto: “Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano … se amate quelli che vi amano che merito ne avrete?…”. [6]

A dire il vero c’è un problema di traduzione. Così come lo leggiamo nel testo italiano qualcosa ci sfugge e qualcosa di essenziale. Rilevo tre particolari. L’espressione ‘fate del bene a coloro che vi odiano’ suonerebbe piuttosto ‘agite in modo che risplenda il bene per coloro che vi odiano’, dove ‘bene’ non è complemento oggetto ma avverbio.  Ancora: ‘benedite coloro che vi maledicono’ andrebbe più semplicemente resa con ‘dite bene di quanti vi maledicono’, per non perdere questa sfumatura di senso: portate in pace la maledizione che vi viene dagli uomini senza scadere nella vendetta delle parole, mantenete il cuore nella pace senza corromperlo con la rabbia di parole insolenti, non ricambiate con parole amare chi vi amareggia, con parole irose chi vi ferisce, né in voi stessi né in presenza d’altri, custodendo l’onore per la persona che l’ha calpestato. E ancora: ‘se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete?’, espressione che va resa con ‘se amate quelli che vi amano, quale grazia avete?’ oppure ‘…qual è la vostra grazia?’.

L’espressione è ripetuta tre volte nel testo e costituisce la discriminante tra il discepolo di Cristo e il pagano. Ma la discriminante di che cosa? Questo è il punto. Ed è l’interrogativo di fondo di tutto il brano: quale grazia risplende nel vostro agire? Qui ‘grazia’ non ha nulla a che vedere con il concetto di premio, di conquista, di merito. Grazia rivela un tipo di esperienza, quella che caratterizza chi ha trovato il tesoro nascosto nel campo, ha venduto tutto e si è affrettato ad acquistare il campo per avere il tesoro. Quella di chi, incontrando l’Inviato di Dio, riconoscendo in lui la prossimità di Dio per l’uomo, ne è rimasto folgorato, come dirà Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo…” (1Gv 1,1-3). È l’esperienza, in Gesù Salvatore, della benevolenza di Dio per l’uomo, della gratuità del perdono ricevuto, della dignità ritrovata per l’amore che ci ha rifatti dal di dentro. Esperienza che ha segnato così alla radice il nostro cuore da non poter più vivere se non nella dinamica di essa.

Ma così vivendo non si fa che condividere la stessa vita del Figlio di Dio, rivelatore del Padre ricco in misericordia. È da dentro quell’esperienza che scaturisce l’energia di un amore che non si lascia limitare o soffocare da niente e da nessuno. E quando quell’amore risplende non si può non domandare: “quale grazia rivela? Di quale grazia è l’espressione?”.

Fede/sapienza. S. Paolo parla spesso di una sapienza che non è di questo mondo. Se mettiamo insieme i testi di Col 1 e 1Cor 1-2 comprendiamo subito che l’arduo problema del discernimento nell’agire è in funzione di una sapienza, non di una moralità. È un problema di intelligenza spirituale, non di un certo livello di perfezione.

Proprio perché questo legame si è attutito, noi abbiamo fatto scadere il livello dell’esperienza cristiana delle nostre comunità. Oggi quasi più nessuno avverte che se noi non agiamo da veri testimoni di Cristo, noi rinunciamo alla sapienza di Cristo ed è proprio perché non si è più esercitati a fare questo, e nemmeno ce ne preoccupiamo più, che facciamo tante cose, ci impegniamo in tante iniziative, senza tendere a che il nostro agire sia ancorato alla rivelazione del mistero di Dio. Non siamo più capaci di esercitare un buon discernimento e non siamo per niente affascinati dalla sapienza della visione cristiana. La questione del discernimento va posta all’interno del desiderio di riappropriarci di una sapienza evangelica. E l’atteggiamento più deleterio per la vita spirituale è l’essere non sensibili, non trapassabili, non permeabili alla sapienza di Dio, al mistero di Dio. Quello che i Padri antichi chiamavano, ἀναισθησία, incapacità di percepire.

E non dico questo riferendomi alla testa, ma alle disposizioni del nostro cuore. Occorre imparare a giudicare da qui la gravità del nostro stato interiore. Non si tratta solo di restare insensibili al mistero di Dio ma anche al fatto che alla lunga, restando insensibili a quel mistero, ci si ritroverà incapaci di amare, di aprirsi alle ragioni e allo scopo del vivere. Come davanti al principio della φιλαυτία, della ricerca dello star bene, Dio è l’avversario, non l’alleato, così davanti al principio della ἀναισθησία, della insensibilità, Dio è cosa di poco conto e la vita, nostra e altrui, risulterà di poco conto.

Ogni omissione o resistenza a coltivare tale percettività (pensiamo alla necessità di ascoltare la Parola di Dio, di seguire una disciplina interiore, di custodire un certo ritmo di preghiera, di seguire un cammino spirituale, ecc.) si traduce in volontà di impedimento all’incontro con Dio; in altre parole, all’incapacità del pentimento. Non sono i peccati che dobbiamo temere, ma gli atteggiamenti che mortificano l’anelito di un incontro vivo col Signore.

Un passo di Gregorio Palamas rivela bene la posta in gioco: “Ma io ritengo che anche la nostra santa fede, superiore a tutte le sensazioni ed a tutte le intellezioni, non sia che un altro modo di vedere del nostro cuore, in quanto essa supera tutte le capacità intellettive della nostra anima: e qui chiamo fede non la santa confessione, ma  il fondarsi con fede immodificabile in essa e nelle promesse di Dio”[7]. Nella tradizione ebraica è detto che la forza del Messia non è quella di annunciare solamente, ma di far vedere.

Un particolare esercizio di visione nella fede è particolarmente necessario nella tentazione. Se il demonio è l’istigatore di ogni peccato, ciò significa che lui stesso è in preda ai peccati che invita a commettere. Tra gli altri vizi, possederà allora anche la pigrizia, che è un vizio capitale. Vale anche per il demonio la legge del minimo sforzo: se un uomo può essere vinto con forza uno, non è necessario usare forza cinque. Ma più l’uomo ha amore per Dio, ha desiderio di Lui, più è capace di resistere e il demonio si vede costretto ad aumentare la sua pressione. Dal nostro punto di vista, però, non serve a nulla cercare di valutare la potenza dell’assalto (suonerebbe come giustificazione del cedimento, perché vale la legge del minimo sforzo), ma semplicemente dobbiamo vegliare sulla forza del nostro desiderio di Dio: questo è l’indice della nostra debolezza o della nostra forza. Non dovremmo badare ad altro. Istruttivo l’insegnamento di un anziano a un fratello che si lamentava della violenza delle tentazioni: “Un fratello domandò all’abate Pambo: -Perché i demoni mi impediscono di agire bene verso il mio prossimo?-. L’anziano gli disse: -Non parlare così, se no tratti Dio da menzognero. Dì piuttosto: Io non voglio assolutamente usare misericordia. Perché Dio ti ha preceduto dicendo: ‘Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del nemico’ (Lc 10,19)[8].

Missione/testimonianza. Secondo la narrazione evangelica la missione comporta anche la testimonianza: chi è inviato in missione dovrà anche essere testimone. Le due domande sono concatenate: missione per che cosa? testimoni di che cosa? Se la presenza del Signore è assicurata nel mondo, lo si deve al fatto che precisamente qui, nel mondo, continua la sua opera, così come nel mondo continua la rivelazione dell’amore del Padre, tanto a livello interiore che ecclesiale, nell’attesa che anche al mondo sia dato ciò che è dato ai discepoli. Il vangelo di Matteo si chiude con l’invito/promessa di Gesù: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 18-20). Il tempo della missione mira a rendere evidenti per i cuori gli effetti del saper riconoscere che a Gesù è stato dato ogni potere. Vale prima di tutto per i discepoli che per coloro ai quali i discepoli sono inviati. Perché il nostro cuore rivendica così sovente i suoi diritti, giustifica così sovente le sue ire, resta schiacciato dalla vergogna per le sue colpe ed ha così paura di consegnarsi alla promessa di Gesù? Lunga è la strada per arrivare a concedere al Signore ogni potere! Non per nulla la liturgia collega l’invio dello Spirito Santo alla possibilità per l’uomo di compiere la volontà di Dio. Intende con ciò mostrarci che quella volontà è essenzialmente una volontà di bene per l’uomo, ridà al nostro cuore la percezione della verità del fuoco dell’amore di Dio che ci raggiunge in Gesù. E se questa è la percezione, allora il cuore non potrà che vivere nell’onda di quell’amore e nel desiderio di estenderlo a tutti, fino ai confini della terra. In questo punto preciso prende senso la responsabilità della testimonianza, che non sarà più vissuta come impegno o dovere ma come sovrabbondanza: lo Spirito riempirà di Gesù i nostri cuori fino a che tutta la sua verità risplenda e conquisti me come tutti. La testimonianza è in funzione di uno splendore, non di un impegno!

Tutto il senso della frequentazione assidua delle Scritture mira essenzialmente a renderci sensibili, raggiungibili dalla potenza dell’amore di Dio. La missione, di cui ci investe la parola del Signore, o rimanda a quella potenza e allora assurge a un autentico servizio divino all’umanità, oppure si riduce a una serie di insegnamenti, certamente buoni, ma che non toccano le radici dei cuori. Il vangelo non è l’esposizione di un dover essere che può servire da modello di riferimento.

La posta in gioco della testimonianza cristiana appare dalle ragioni interiori della dinamica che la caratterizza, ragioni che sono da ricercare in una serie di grazie concomitanti che l’accompagnano:

– la libertà di cui ci è fatto dono, che ci mette in grado di uscire da ogni dipendenza, liberati da una esposizione sentimentale costrittiva di fronte a ciò che capita e alle reazioni degli altri;

– la benevolenza di fondo verso la vita e gli uomini, che ci libera dalle catene del destino e della storia personale e, ciò che più conta, dalla condanna in cui ci costringono le nostre ferite;

– la fiducia che rende imprendibili davanti al male: il male non perde il suo carico di afflizione, di dolore, di oppressione, ma non vincola più.

D’altronde è dalla gratuità del dono di Dio – che costituisce il luogo della nuova coscienza di sé – che scaturisce l’urgenza della missione, l’impegno cioè della testimonianza in nome di Dio in mezzo ai propri fratelli. Per il credente in Cristo tutta l’ostilità del tempo e della storia, tanto personale quanto sociale, è compresa nella cifra della persecuzione che permette la testimonianza: “questo vi darà occasione di render testimonianza” (Lc 21,13). Persecuzione non è solo un’azione ostile che viene dall’esterno, ma è tutto ciò che si contrappone a quella certezza di incontro, a quel dinamismo di vita nuova, che trasfigura il nostro vivere e il nostro operare.

  1. Alcune domande di autocoscienza:

            +  la VC ha forse bisogno di qualche forma di ‘tutela’ ecclesiale o sociale per riprendere tutto il suo vigore?

            + come è avvertita dalla gente la specificità della vocazione della VC?

            + esiste una sensibilità specifica della VC nell’agire pastorale?

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[1] Si veda  Charles Taylor, Il disagio della modernità, Bari 19942.

[2] Istruttiva in questa direzione è la visione positiva, luminosa, che intesse le riflessioni di Mons. C. Dagens, Libera e presente. La Chiesa nella società secolarizzata, EDB, Bologna 2009.

[3] Passo che la nuova versione CEI traduce: “tutto ciò, infatti, che non viene dalla coscienza è peccato”.

[4] S. GREGORIO DI NISSA, La preghiera del Signore. Omelie sul Padre nostro, Roma 1983, Paoline (Letture cristiane delle origini, 12/testi), p.79. La variante citata da Gregorio di Nissa appare effettivamente in alcuni rari codici medievali dei secoli XI e XII.

[5] È lo pseudo-Macario a commentare così l’espressione ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’: “affinché i fratelli vivano insieme in grande concordia, nell’amore e nella pace, al modo degli angeli in cielo; là non vi è orgoglio né invidia, ma amore e sincerità vicendevole….Qualsiasi cosa facciano, devono rimanere nella carità vicendevole e nella gioia”, cfr. PSEUDO-MACARIO, Spirito e fuoco. Omelie spirituali (collezione II), Bose 1995, Qiqajon, Omelia 3, p. 75.

[6] La nuova versione CEI traduce: “Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta?” (Lc 6, 32). Si veda il mio: La vita spirituale, i suoi segreti, EDB, Bologna 2007, p. 147-150.

[7] GREGORIO PALAMAS, Atto e luce divina. Scritti filosofici e teologici. Testo greco a fronte. Introduzione, traduzione, note e apparati di Ettore Perrella, Milano 2003, Bompiani (Il pensiero occidentale): Triade II, 3, 40, pp. 691-693.

[8] Cfr. Les apophtegmes des Pères. Collection systématique, chapitres X-XVI, Introduction, texte critique, traduction et notes par Jean-Claude Guy, Paris 2003, Cerf (SC 474), ch. X, Le discernement, n. 95, pp. 74-76.