Quando Gesù domanda: “Ma voi, chi dite che io sia?” (Mt 16,15; Mc 8,23; Lc 9,20), i discepoli possono rispondere in verità? Avevano seguito Gesù, vivevano con lui già da tempo, l’avevano sentito parlare e visto agire, l’avevano riconosciuto come l’Inviato di Dio. Pietro lo confessa a nome di tutti: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Possono però già sapere quello che confessano? Il seguito del racconto pare negarlo… La difficoltà di comprensione da parte dell’uomo si trova ben descritta nel lungo discorso eucaristico di Gv 6… tutta la difficoltà per l’uomo deriva proprio dal fatto che, invece di accogliere la grazia, ne vuole una a sua misura. I Padri radicano la dinamica dell’intelligenza delle Scritture proprio nella tensione che spinge sempre a progredire incessantemente per diventare solidali della carità di Dio per il mondo, segno della sua santità.
Contributo di Elia Citterio, in AA.VV., “Ma voi chi dite che io sia? Sguardi sul mistero di Cristo” (a cura di N. Valentini), Milano 2009, Paoline editoriale libri, pp. 106-133.
“Benedetto il Signore Dio, il Dio di Israele
egli solo compie meraviglie
benedetto per sempre il suo Nome di gloria
tutta la terra sia piena della sua gloria” (Sal 72, 18-19)[1]
così termina il secondo libro dei salmi. Quella benedizione non celebra semplicemente Dio, ma celebra l’amore di Dio per il suo popolo, l’amore che costituisce la gloria di Dio per l’uomo, eredità per il popolo, perché tutti i popoli ne possano godere. La Presenza divina non può che risplendere in una vita umana che la lasci trasparire. E quando, come in Gesù, l’umanità non può che testimoniare che Dio è il suo vero e unico io, la trasparenza è totale. Per questo, la benedizione che da lui sale al Padre e discende a noi è piena, compiuta, per tutta l’umanità. In quella benedizione l’uomo di tutti i tempi e di tutte le latitudini scopre la sua dignità e la sua gloria, la sua vita, quella che non ha mai fine, che il mondo non può soffocare né corrompere. Riflettere in cosa consista è argomento sempre attuale. Un poema natalizio di s. Efrem canta: “Sia benedetto Colui che ha consegnato la nostra anima, che l’ha adornata e se ne è fatta la fidanzata! Sia benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!”. [2]
La scoperta di Gesù.
Quando Gesù domanda: “Ma voi, chi dite che io sia?” (Mt 16,15; Mc 8,23; Lc 9,20), i discepoli possono rispondere in verità? Avevano seguito Gesù, vivevano con lui già da tempo, l’avevano sentito parlare e visto agire, l’avevano riconosciuto come l’Inviato di Dio. Pietro lo confessa a nome di tutti: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16).
Possono però già sapere quello che confessano? Il seguito del racconto pare negarlo. Ma la domanda di Gesù si ricollega idealmente a un’altra domanda, formulata all’inizio del suo ministero pubblico quando era appena stato riconosciuto come l’Agnello di Dio dal Battista presso il fiume Giordano. Vedendo Andrea e l’altro discepolo, non nominato ma riconoscibile in Giovanni, l’autore del vangelo, che lo seguivano, Gesù chiede: “Che cosa cercate?” (Gv 1,38). E i discepoli, a loro volta, gli chiedono: “Rabbì, dove dimori?”. Ecco, da qui occorre partire: cosa cerca l’uomo andando dietro a Gesù? La stessa domanda di Gesù sembra supporre che non ogni sequela di Gesù sia buona. L’uomo cerca la vita, quella di cui Gesù dirà: “io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).
Nel prologo del suo vangelo, Giovanni dichiara: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14). Ebbene, lui, l’apostolo Giovanni, ha incominciato a essere afferrato da quella gloria proprio in quel giorno, alle quattro del pomeriggio. Ma quando quella gloria si è manifestata? Nel racconto evangelico di Giovanni proprio sulla croce. Non era certo possibile immaginarlo, ma il dono di Dio così si realizza. La cosa ha a che fare con la rivelazione del Volto di Dio in Gesù e con i sogni dei cuori degli uomini: la vita passa di là. Non va dimenticato che il verbo greco tradotto con dimorare (“Rabbì, dove dimori?”) è lo stesso verbo che Gesù userà con insistenza nel discorso dell’ultima Cena a proposito della vite e dei tralci quando dirà: “rimanete nel mio amore” (cfr Gv 15). É come se Gesù rispondesse ancora alla domanda dei suoi discepoli e dicesse: siete venuti da me, avete visto dove io dimoro (= nell’amore del Padre) e così voi, ora, rimanete nel mio stesso amore. É a tale esperienza che Giovanni allude quando annota: “andarono dunque e videro dove egli dimorava”. Il racconto ha il sapore di un’intera vita; ha la potenza, non di un ricordo, ma di una radice, di un principio, di una fonte che continua a sgorgare e che ha segnato tutta la sua vita e quella di tutti i discepoli come lui.
Quando Gesù, alla fine del vangelo di Matteo proclama: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18) si riferisce ad un duplice potere: anzitutto, dalla parte di Dio, al potere di rivelare il vero Volto di Dio, espresso dalle parole di Giovanni che risuonano allora in tutto il loro realismo: “Dio nessuno l`ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18). In secondo luogo, dalla parte dell’uomo, si riferisce al potere di compiere i desideri dell’uomo, di soddisfare la sua fame di conoscenza e di relazione in pienezza e verità.
Recitando il Padre Nostro non ci accorgiamo che quello che diciamo per primo in realtà è il punto verso cui aneliamo. E per noi l’espressione diventa veritiera e significativa dopo aver compiuto il percorso che indica la preghiera dal fondo al principio: liberi dal male e dalla tentazione, perché abbiamo un cuore risplendente del perdono perfetto ai nostri fratelli, per la misericordia ricevuta e per essere un unico corpo con il Signore Gesù che è diventato nostro cibo, sapienza e gusto, capaci di compiere il volere di Dio vivendo il mistero della fraternità nella potenza dello Spirito, facendo risplendere in tutta la sua gloria la santità di Dio, che si rivela come Padre di noi tutti, come Padre del Figlio suo Gesù Cristo[3]. Ed è appunto in lui che possiamo compiere tutto il percorso per avere la vita, la vita vera.
Per questo, ogni richiesta che innalziamo a Dio, in ultima analisi, non si risolve che in questa: dacci il tuo Figlio diletto; dacci di accogliere, di conoscere, di compatire, di vedere, di stare e di soffrire con, di godere, di amare questo Figlio diletto che per primo amò noi[4]. Fino a poter dire, con Paolo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Poter dire: ‘Cristo vive in me’, significa vivere il compimento della promessa di Gesù: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23), espressione che nella tradizione ha condensato il senso e lo scopo della ‘vita virtuosa’: vivere della stessa vita di Dio, in Cristo, assunti in quell’amore di Dio che costituisce il dono divino della vita, facendo il bene come compimento di un’umanità dove la presenza di Dio risplende. Significa riferirsi a un uomo che realizza la sua vocazione perché gode, sul versante divino, di quella pienezza alla quale agogna e, sul versante umano, di quella umanità senza divisioni di cui ha nostalgia. Qui possiamo comprendere i sogni dell’uomo perché in Dio hanno le loro radici. Perché – e la cosa sorprende non poco – se il cuore dell’uomo, nelle sue fibre più intime, è fatto ad immagine di Dio, allora vuol dire che ha anche nostalgia dei comportamenti secondo Dio, che proprio Gesù rivela con il suo agire e il suo parlare. Ma ciò non avviene in modo scontato.
Gloria e abbassamento: la dinamica propria della vita.
L’espressione di un’omelia di Gregorio Palamas per la festa del Natale di Gesù illustra bene il senso della dinamica propria della vita che da Dio proviene: “Vedendo che le creature dotate di ragione erano danneggiate dal desiderio d’essere maggiori, fa loro dono di se stesso, di cui nulla è maggiore, né pari, né prossimo, ed invita alla partecipazione coloro che lo desiderano… Elimina incredibilmente l’occasione delle cadute fin dal principio: essa era la superiorità e l’inferiorità contemplate negli enti e l’invidia, l’inganno e le contese, manifeste e nascoste, che ne derivavano … La stessa Parola, Dio da Dio, avendo svuotato se stessa in modo ineffabile … divenuta umile e povera come noi, ha innalzato ciò che stava in basso; anzi, riunite entrambe le cose in una sola, per aver mescolato alla divinità l’umanità, ha mostrato in tal modo a tutti la via che porta verso l’alto, l’umiltà, proponendo oggi se stessa come esempio agli uomini e agli angeli santi”.[5]
La difficoltà di comprensione da parte dell’uomo si trova ben descritta nel lungo discorso eucaristico di Gv 6. Gesù si presenta come il pane disceso dal cielo, ma gli ascoltatori, che pure avevano goduto del miracolo della moltiplicazione dei pani, sono incapaci di riconoscere nel concreto la via di Dio che a loro si sta rivelando. Se la verità di Dio risplende in Gesù, perché i cuori non riescono a vedere? Perché, pur desiderando la vita, non l’accolgono? Forse la risposta va cercata proprio in quel movimento di discesa che caratterizza l’agire di Dio. Il discendere dal cielo non indica semplicemente la provenienza di Gesù; indica piuttosto il movimento dell’abbassarsi di Dio per comunicare il suo amore e far vivere. Gli uomini non amano abbassarsi, benché vogliano la vita e desiderino l’amore. Pensano sempre in termini di grandezza, ma mondana, dove il potente prevale sul debole, il grande la spunta sul piccolo e l’affermazione di sé è una questione di innalzamento. Gesù invece, quando parla di innalzamento, allude sempre al suo essere innalzato sulla croce, cioè al suo abbassamento, perché è lì che risplende l’amore di Dio per l’uomo.
La rivelazione di Dio, che costituisce il grande annuncio della nostra fede, la buona novella, si riassume tutta in questo: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32). Letteralmente: “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo” (ὁ Θεὸς ἐν Χριστῷ ἐχαρίσατο ὑμῖν). Ora, tutta la difficoltà per l’uomo deriva proprio dal fatto che, invece di accogliere la grazia, ne vuole una a sua misura. Ma non esiste altra grazia se non quella, da parte di Dio, del suo far grazia di sé a noi, in benevolenza e misericordia, nel Cristo. Qui è racchiusa tutta l’abbondanza di vita che una rivelazione siffatta promette. La frase di Paolo in effetti continua: “se anche voi perdonerete”, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo, il mondo risplenderà ancora della Sua presenza. Per indicare che, se il segreto di Dio è racchiuso in quella rivelazione, pure il nostro cuore trova in quel segreto le radici dei suoi sogni per sé e per il mondo.
La volontà del Padre è vedere l’uomo investito dal suo Spirito, consegnato alla sua misteriosa operazione, quella di compiere il mistero della riconciliazione che ci è data in Cristo. Aprire il cuore alla fede significa approdare alla percezione di quella grazia, una grazia che apre alla bellezza di un amore gustato e condiviso, in umile e gioioso accondiscendere al mistero dell’abbassamento, che fa risplendere in questo mondo l’amore di Dio. La fede è proprio a servizio dello splendore di quell’amore che discende dall’alto e di cui il pane eucaristico è simbolo perfetto.
Tornando ora al passo della confessione di Pietro, non possiamo non meravigliarci del fatto che non appena Pietro lo confessa come il Cristo, Gesù rivela la sua prossima passione di sofferenza e morte. Perché? Gli esegeti spiegano facilmente la cosa, data la distanza tra le attese messianiche allora comunemente condivise e la rivelazione singolare di Gesù. Ma non è così agevole comprendere perché l’uomo faccia così fatica ad accettare la rivelazione del suo Dio. La confessione del Dio vivente è insieme l’attività più problematica e più rivelativa del cuore dell’uomo.
La rivelazione della necessità della passione di Gesù, insieme al destino dei discepoli invitati a portare la loro croce, avviene dopo la proclamazione della beatitudine a Pietro: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Mt 16,17), eco dell’altra: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (Mt 11,25-26). Gesù, presentandosi come il Messia che dovrà molto soffrire, indica ai discepoli la direzione nella quale sarà possibile vivere la beatitudine ricevuta. Pietro é proclamato beato perché piccolo, cioè nella disposizione di accogliere e non di suggerire; è chiamato satana perché si fa grande: vuole suggerire, vuole stare davanti, vuole condurre. E Gesù lo rimprovera: “Va’ dietro a me”, eco dell’invito di Dio all’uomo in tutte le Scritture a seguirlo, ad ascoltarlo (Dio dice a Mosè: “Vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere”, Es 33,23).
Se Gesù spiega ai discepoli che lui dovrà molto soffrire, non intende con questo illustrare qualche ragione misteriosa, ma più semplicemente e più direttamente intende implicarli nella rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo, intende collocarli nella verità di un’esperienza di amore che viene dall’alto. Per Gesù, che parla secondo la lingua delle Scritture, si tratta di reinterpretare tutte le Scritture in modo globale, si tratta di realizzarle nella loro tensione di rivelazione dell’amore salvatore di Dio per l’uomo in ragione di quel sigillo ultimativo che lui costituisce quanto all’azione di Dio nel mondo. Sarà sulla croce che l’amore di Dio per l’uomo risplenderà in tutto il suo splendore, tanta è la solidarietà con Dio e con l’uomo che Gesù vive e di cui tutti possiamo ricevere la grazia nello Spirito che ci ottiene proprio con la sua morte. Non per nulla, il racconto continua con la scena della trasfigurazione con l’apparizione accanto a Gesù di Mosè e Elia, cioè della Legge e dei Profeti, di cui lui costituisce il compimento. È da dentro questo compimento che parla ai discepoli e dice loro che se vogliono gustare la stessa esperienza di amore solidale con Dio e con l’uomo dovranno rinnegare se stessi e prendere la croce. Da parte nostra, la resistenza ad accogliere la portata rivelativa di quel è necessario, detto da Gesù e aperto ad essere condiviso dai suoi discepoli, indica tutta la distanza tra il sogno di un amore e la concretezza nel viverlo.
Il rinnegamento di se stessi è la rinuncia ad avere qualcosa da difendere (da notare che il verbo è il medesimo che userà l’evangelista quando riferirà del tradimento di Pietro il quale rinnega Gesù perché vuole difendere se stesso). Ma la difesa porta sempre sulla nostra vita che temiamo venga oppressa o soppressa dagli altri; porta sempre a un io che si arrocca nei suoi confini per paura, a un io che non si fida della grandezza che gli è offerta da Dio. Il portare la croce, con il vissuto emotivo di disprezzo e di vergogna che l’immagine comporta, indica la direzione che assume il rinnegamento, vale a dire: non ci si fa grandi schiacciando gli altri o rendendo gli altri piccoli, ma tenendoli sempre così grandi e degni di onore che posso essere calpestato per non venir meno a quel rispetto. Forse, per la nostra sensibilità, l’immagine più adeguata di quanto vogliono dire le parole di Gesù, è quella del Maestro che si cinge con l’asciugamano e si china a lavare i piedi ai discepoli nell’ultima cena, segno di un’umanità tutta dono per, di un mistero di solidarietà in umanità dai confini divini (anche là Pietro rifiuta e acconsente solo con la promessa di non essere escluso dalla gioia del suo Maestro). In effetti, solo così si scopre la grandezza secondo Dio, che è la grandezza dell’amore, condivisione dell’esperienza dell’amore di Gesù per noi.
Se è vero che nel profondo del cuore diciamo: “tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne” (Sal 63), è però ancora più vero che, nel concreto delle situazioni e nel nostro intimo, preferiamo i nostri pensieri ai pensieri di Dio. Lo esperimenta anche il profeta Geremia in tutta drammaticità: “Mi hai sedotto Signore, e io mi sono lasciato sedurre”, ma davanti alla fatica di star fedeli alla parola del Signore si dice in cuor suo “Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome”. A differenza però del profeta Geremia il quale continua dicendo: “Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,7.9) noi fin troppo bene riusciamo a contenere quel fuoco, lo mortifichiamo, lo spegniamo e non riusciamo a volte nemmeno più a sentirne la nostalgia. Ed è per questo che non riusciamo a liberarci dal bisogno di difenderci, impedendoci però di gustare la vita e impedendolo a tutti.
L’intelligenza delle Scritture.
La lettura delle Scritture ha proprio lo scopo di non lasciar spegnere quel fuoco. I Padri radicano la dinamica dell’intelligenza delle Scritture proprio nella tensione che spinge sempre a progredire incessantemente per diventare solidali della carità di Dio per il mondo, segno della sua santità.
È caratteristico che nella tradizione la disposizione di spirito richiesta per comprendere le Scritture sia definita in rapporto alla carità. Posso esemplificare con le parole di Gregorio Magno: “nella sacra Scrittura uno trova quello che egli diventa” (I, VII, 16); “nelle parole di Dio attingiamo l’amore di Dio e del prossimo” (I, VII, 16). Secondo questa linea di sviluppo avviene che “nell’oracolo divino troverai tanto maggior profitto quanto maggiore è il progresso che tu avrai realizzato nei suoi confronti” (I, VII, 8). Perché “col dono dello Spirito, attraverso la parola di Dio, noi riceviamo la vita liberandoci dalle opere che procurano la morte” (I, VII, 11).[6] La carità è intesa come dono della vita, manifestazione della santità di Dio nel mondo. In questa carità, accolta e condivisa, l’uomo conosce l’estensione della sua vocazione all’umanità; umanità, che vede risplendere nel Figlio di Dio fatto uomo, di cui tutte le Scritture parlano perché in lui si rivela il segreto di amore di Dio per i suoi figli.
Gregorio riprende e amplifica la posizione tradizionale della lettura patristica delle Scritture, indicando come la tensione all’intelligenza comporti il raccordo delle Scritture alla carità. Nelle Scritture si tratta di scrutare la carità di Dio per l’uomo e contemporaneamente di coglierla come il senso ultimativo del mondo e dell’uomo. La corrispondenza che ne emerge è la seguente:
- tutte le Scritture parlano della carità di Dio;
- tutte le Scritture comportano l’assimilazione della potenza della carità perché la vita di Dio si comunichi all’uomo.
È su questa corrispondenza che la Scrittura si forma e si struttura fin dall’AT. Le Scritture narrano la predilezione di Dio per il suo popolo (carità come elezione) e contemporaneamente la risposta del popolo alla predilezione di Dio (carità come santità), in funzione di intercessione perché tutti diano gloria a Dio, riconoscendo cioè la verità del suo amore per gli uomini. Questa corrispondenza attraversa anche il NT e la chiesa diventa lo spazio di rivelazione della carità di Dio per il mondo.
Carità e vita nuova.
La lettera agli Ebrei così interpreta la preghiera che Gesù innalza al Padre per essere liberato dalla prova: “Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà” (Eb 5,7). Gesù però non fu sottratto alla morte, ma nella morte ottiene la vita. Una cosa simile ricorda Pietro nella sua prima lettera: “E chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene? E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,13-15). Così, nella terribile esperienza del profeta Geremia, insidiato da ogni parte e abbandonato da tutti, la sua preghiera è esaudita nel senso che i suoi nemici non ottengono la sua anima, cioè non lo piegano ai loro voleri e non lo distolgono dal perseguire la verità della parola di Dio.
Se spesso i testi del Nuovo Testamento richiamano al principio della fedeltà nella persecuzione, ricordano però che la testimonianza si alimenta nella prospettiva di una confidenza goduta: “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia” (Mt 10,29). Come a dire: il Padre vostro è sempre con voi; voi siete cari al Padre vostro. Se il male che ci viene dagli altri uccide la nostra anima nel senso che ci distoglie dalla comunione con Dio e soffoca il suo amore, come potrà il mondo ancora risplendere della presenza di Dio? Come la salvezza di Dio potrà ancora lambire i cuori?
Nel passo appena citato di Matteo, qualche versetto dopo, viene stabilita una sorta di corrispondenza tra la testimonianza dei discepoli davanti agli uomini e quella di Gesù davanti al Padre. Tradotto letteralmente, il testo suona: ‘Chi confesserà in me davanti agli uomini, anch’io confesserò in lui davanti al Padre mio’. Il che significa: non si può confessare il Signore Gesù se non a partire da un’intimità di vita con lui, per cui riconoscerlo significa godere dell’intimità che ci offre. E la cosa avviene davanti agli uomini nel senso che quell’intimità si svela nell’amore verso gli uomini, alla comunione coi quali tende il desiderio di Dio, proprio quando gli uomini, rifiutando di rispondere a quel desiderio, contestano e opprimono coloro che vivono secondo quel desiderio che è diventato il loro segreto. Il riconoscere di Gesù davanti al Padre significa mostrare al cuore la verità dell’amore salvatore di Dio per gli uomini che prevale in ogni circostanza, anche la più drammatica o la più affliggente.
Dalla liturgia possiamo imparare a coniugare il mistero di Dio con quello dell’uomo. Voglio rifarmi a due aspetti particolari che prendo dalla solennità di tutti i santi e dalla solenne liturgia del venerdì santo. Nella solennità dei santi è caratteristico che l’antifona alla comunione, riprendendo la serie delle otto beatitudini proclamate nel vangelo, le riduca a tre: puri di cuore, operatori di pace, perseguitati a causa della giustizia. La purità di cuore capace di vedere Dio è quella che scaturisce dall’esperienza della compassione, della misericordia, così tipica della santità di un cuore che rimanda a tutti quello che lui stesso riceve, cioè il perdono rigenerante del suo Signore, che viene così conosciuto come il Salvatore, come l’Amore che ti sottrae all’abisso. La purità però, intrisa di gioia, è solo quella che si traduce in un agire che porta pace a tutti, che rende capaci i cuori di pace, che si fa dono di pace, capace di far grazia di sé come il Figlio di Dio che fa dono di sé perché l’amore di Dio risplenda. E la pace donata è a prova di persecuzione, perché niente è più caro al cuore di Colui che gli ha restituito la dignità di uomo e di figlio di Dio. L’amore a prova di persecuzione procede dal fatto di sentire la mia dignità sullo stesso piano della dignità di tutti. Dire che di questi è il regno di Dio significa proclamare che il cuore dell’uomo non può saziarsi che della verità di quell’amore che giunge sanante e potente, sebbene noi, nel tempo presente, si sia sempre nell’occasione di perderlo di vista, di impedirci di goderlo, di impedire agli altri di farne esperienza. Eppure, così proclama tutta la liturgia, quella verità è la verità del mondo come dei cuori. È la verità di felicità per il cuore dell’uomo, che intravede nelle beatitudini evangeliche le coordinate precise per non fallirla. La proclamazione dei santi, come viene descritta nel libro dell’Apocalisse, non si riferisce ad un futuro dopo la storia, ma esprime la verità della nostra storia, verità che non passerà e riempirà tutto del suo splendore. Quello splendore costituisce già il senso della nostra storia, anche se spesso i nostri occhi sono così velati da non accorgersene più.
La liturgia del venerdì santo celebra la memoria della passione e della morte del Signore ed insieme la memoria della confessione sulla croce del buon ladrone crocifisso con Gesù. La preghiera della chiesa nelle intercessioni è costruita attorno a due richieste strettamente connesse: l’unità e la santità. Si prega perché tutta la chiesa e tutta la famiglia umana formi un’unica famiglia, perché il frutto della redenzione, quello di “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52), si compia e si costituisca un unico popolo di figli di Dio. Lo splendore della santità non è che il movimento di tensione all’unità. Come preghiamo nel canone eucaristico: “dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito”. E questo è frutto di quello Spirito che Gesù, morendo sulla croce, rimise al Padre perché fosse effuso su di noi e ci muovesse nella stessa direzione nella quale ha mosso il Figlio di Dio e tutti vivessimo nello stesso amore del Padre.
Possiamo allora comprendere come la vita che ci derivi e ci tenga uniti al Cristo sia nuova. Anzitutto, perché non appartiene a questo mondo benché sia donata al mondo. Pavel Florenskij l’annota lucidamente: “Essere non di questo mondo non significa non essere nel mondo, non essere qui, ma significa avere un proprio essere interiore libero dalle cose di questo mondo, e dunque avere in sé il segno della vittoria sul mondo e vincerlo [cf. Gv 16,33; Ap 2,21; 5,5]. La trascendenza al mondo dell’essere e l’immanenza al mondo dell’azione: questo significa essere santi o essere non di questo mondo”.[7] Mondo, del resto, è tutto ciò che si oppone all’amore del Padre e mortifica l’uomo. Ma Gesù ha vinto il mondo perché il demonio non ha trovato in lui nulla che gli appartenesse.[8] La vita sua, quindi, che sgorgava totalmente dal Padre, la ridà a noi con il suo Spirito perché anche la nostra vita, non custodendo più pegni del demonio, possa manifestare l’amore di Dio al mondo. Di questo è intessuta la speranza di vita per il mondo di cui i discepoli di Gesù portano testimonianza.
Poi, perché procede per sovrabbondanza a partire dalla libertà, sovrana[9] in Gesù, liberata in noi. Libertà liberata a doppio titolo:
- a) dalla gloria degli uomini, perché ci toglie ogni motivo di separazione con Dio.[10] Cercare la gloria gli uni dagli altri significa dipendere, servirsi di; significa custodire in se stessi qualche pegno del demonio, significa concepirsi ancora del mondo;
- b) dall’odio e dalla tristezza, perché ci toglie ogni motivo di separazione con il prossimo. La purità dei cuori, ai quali è promessa la visione di Dio, è proprio quella che non fa più valere alcun motivo di odio e tristezza nei confronti del prossimo[11].
Poi, ancora, perché è pasquale, frutto dell’esodo pasquale di Gesù, sigillato con la sua risurrezione e l’effusione del suo Spirito. È la vita del Risorto, quella che era stata adombrata dalla promessa: “noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui … Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14, 23.21). Gesù promette comunanza di vita, non solo nel senso che Dio abita il cuore dell’uomo, ma nel senso che l’uomo è reso capace di agire nell’amore e secondo l’amore di Dio. L’uomo fa uno spirito solo con il suo Signore (cfr. 1 Cor 6,17), vale a dire attinge le stesse ragioni di vita e partecipa dello stesso dinamismo di vita.
La vita nuova si raccorda perciò al comandamento nuovo (cf. Gv 13,34) compreso in questi tre aspetti:
- a) nella radice che l’origina. L’amore di Gesù deriva dalla sua intimità di vita, di volere e di sentimenti con il Padre. Quell’amore di cui ci fa comando deriva dalla partecipazione nostra a quella stessa intimità.
- b) nella potenza che lo sottende, la potenza cioè dello Spirito Santo che è effuso da Gesù sulla croce. Quell’amore non è che l’accoglimento dell’azione dello Spirito Santo nei nostri cuori, esito di tutto l’impegno ad agire bene, che ad altro non conduce se non a poter essere degni dei misteri di Dio. Perché l’opera specifica dello Spirito Santo è la costruzione della fraternità, come stupendamente dice la terza preghiera del canone eucaristico: “E a noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito”. É il superamento dell’affermazione di sé incondizionata.
- c) nella dinamica che l’anima e che lo muove verso un unico punto di convergenza, contemporaneamente termine e scopo della storia stessa: che l’amore di Dio sia celebrato nel suo splendore affinché sia confessato, in tutta verità, da tutti, nella stessa dignità. Effettivamente, chi cerca la propria gloria potrà mai condividere i sentimenti di Dio? Potrà mai avere come unico scopo del suo agire la gloria di Dio, cioè la salvezza degli uomini?
La libertà dello spirito è fondamentalmente per la comunione. É una libertà che fa uscire dalla chiusura in cui si aliena l’individuo che si concepisce separato dagli altri per approdare agli spazi sconfinati a cui accede la persona che si concepisce in comunione con gli altri. Se Gesù, sulla croce, ha tolto il muro di separazione sia con Dio che tra gli uomini (cf. Ef 2,14-16) e ha permesso all’opera di Dio di consumarsi, allora è in lui che l’uomo può tornare a sperare di avere davvero la vita, quella contro la quale ogni forma di mortificazione dell’uomo si infrange. L’ostilità inevitabile che imperversa nel tempo e nella storia, come si è infranta su di lui, si infrangerà anche sui discepoli che vivono in lui. Lo Spirito che lui ci ha effuso non permetterà che veniamo distolti dall’unione con Cristo, non tollererà che si possa vivere separati e divisi dai fratelli, non consentirà alla nostra libertà di esprimersi fuori dell’amore e della libertà guadagnati in Cristo.
La posta in gioco della testimonianza cristiana qui si fa evidente, per le ragioni che sono da ricercare in una serie di grazie concomitanti che segnalano appunto il dono della vita nuova in Cristo:
– per la libertà di cui ci è fatto dono, che ci mette in grado di uscire da ogni dipendenza mondana, liberi da una esposizione sentimentale costrittiva di fronte agli eventi e alle reazioni altrui;
– per la benevolenza di fondo verso la vita e gli uomini, che ci libera dalle catene del destino e della storia personale e, ciò che più conta, dalla condanna in cui ci costringono le nostre ferite;
– per la fiducia, che rende imprendibili davanti al male: il male non perde il suo carico di afflizione, di dolore, di oppressione, ma non vincola più, non ci tiene in suo potere.
Concludo con una citazione di Massimo Confessore che così riassume la natura della vita nuova inattaccabile da ogni veleno di morte: “Gli amici di Cristo amano tutti sinceramente, ma non sono amati da tutti; gli amici del mondo invece né amano tutti né sono amati da tutti. E gli amici di Cristo perseverano sino alla fine nel loro amore; quelli del mondo invece finché non si urtino l’un l’altro per le cose del mondo”. E ancora: “Buono per natura è solo Dio; buono per volontà è solo chi è imitatore di Dio: è suo scopo infatti unire a Colui che è buono per natura i cattivi, affinché divengano buoni. Perciò quando è ingiuriato da essi, li benedice; perseguitato, sopporta; oltraggiato, prega; messo a morte, intercede per essi: tutto fa per non perdere lo scopo della carità, che è il nostro Dio stesso”[12].
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[1] Versione del Salterio di Bose, Monastero di Bose 2008, Qiqajon, p. 177.
[2] Cf. EPHREM DE NISIBE, Hymnes sur la Nativité, Paris 2001, Cerf (SC 459): inno III,7, p. 66.
[3] Si veda, ad esempio, l’interpretazione del Padre Nostro da parte di Massimo Confessore in ELIA CITTERIO, La vita spirituale, i suoi segreti, Bologna 2005, EDB, p. 227-235.
[4] Secondo la parafrasi di s. Francesco di Assisi al Padre Nostro: “Il nostro pane quotidiano, il tuo diletto Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, dà a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell’amore che egli ebbe per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì”, Fonti Francescane, 271.
[5] GREGORIO PALAMAS, Che cos’è l’ortodossia. Capitoli, Scritti ascetici, Lettere, Omelie, a cura di Ettore Perrella, Milano 2006, Bompiani: Omelia LVIII, 4, p. 1570-1571.
[6] Le citazioni si riferiscono al primo e al secondo libro delle omelie di S. Gregorio Magno al profeta Ezechiele. Si veda S. GREGORIO MAGNO, Omelie su Ezechiele/1, Libro primo, Roma 1992, Città nuova (Opere di Gregorio Magno, III/1); Omelie su Ezechiele/2, Libro secondo, Roma 1993, Città nuova (Opere di Gregorio Magno, III/2).
[7] Pavel FLORENSKIJ, Il concetto di Chiesa nella Sacra Scrittura, Cinisello Balsamo (MI) 2008, San Paolo, p. 198.
[8] Cf. Gv 14,30, non traducendo il passo “contro di me non può nulla”, ma più letteralmente: “in me non ha nulla”.
[9] “Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio” (Gv 10,18).
[10] “Io non ricevo gloria dagli uomini. Ma io vi conosco e so che non avete in voi l’amore di Dio. Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi ricevete; se un altro venisse nel proprio nome, lo ricevereste. E come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?” (Gv 5,41-44).
[11] Cfr. i Capitoli sulla carità di Massimo Confessore, Cent. IV, 16.17.18.19.24. Ireneo l’aveva proclamato stupendamente: “La gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo è la visione di Dio” (Adv. Haer. IV,20,7). L’uomo vivente non indica semplicemente l’uomo che vive la sua vita biologica, ma l’uomo che vive secondo le potenzialità di cui è stato dotato nella sua capacità di accogliere la vita di Dio, come rivela il prologo del vangelo di Giovanni: “A quanti però l’ hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13).
[12] MASSIMO CONFESSORE, Capitoli sulla carità, Roma 1963, Studium , p.239, 235: IV, 98 e 90.