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(Pubblicato su “Testimoni”, n. 17, del 15 ottobre 2008, come inserto ‘Speciale sinodo’)

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Siamo nell’anno paolino e il 5 ottobre è iniziato il sinodo dei vescovi dedicato alla Parola di Dio. Lo “speciale” che segue si pone in questo contesto e vorrebbe mettere a fuoco, sia pure in modo estremamente sintetico, che cosa significa un “lettura credente” della Bibbia e, più precisamente ancora, come entrare in una lettura di questo tipo, come viverla. Ci sono infatti molti modi di accostare la Bibbia, qui a noi interessa metterne a fuoco l’“intelligenza spirituale”, un’intelligenza cioè che faccia incontrare la Parola per ciò che essa veramente è, cioè Parola “di Dio”.

L’autore – Elia Citterio, dei “Fratelli contemplativi di Gesù” – ha una lunga consuetudine con questi temi, sia a livello di studio che di esperienza e di accompagnamento spirituale. Entro l’autunno uscirà presso le nostre edizioni, le EDB, un suo libro – “Intelligenza spirituale delle scritture” – al quale rimandiamo per una conoscenza più approfondita di quanto qui viene sintetizzato.

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Questione capitale nella fede è l’intelligenza delle Scritture[1]. Non possiamo dimenticare che fino alla fine del secondo secolo d.C., la Bibbia come la conosciamo oggi, composta di due parti, l’Antico e il Nuovo Testamento, non esisteva ancora. La Bibbia delle prime generazioni cristiane era l’Antico Testamento – generalmente secondo la versione greca della LXX – cui si aggiungevano la tradizione scritta su Gesù e le lettere apostoliche, ma il tutto non era ancora riunito nella forma attuale e non aveva ancora ricevuto valore canonico. Sta di fatto però che gli apostoli e i discepoli leggevano l’Antico Testamento a partire dalla vicenda di Gesù, e il luogo più appropriato per la sua intelligenza era dato dalla liturgia, dove il suo mistero era confessato e celebrato. Così, mentre si costituisce la Bibbia, si costituisce la chiesa e l’una non può essere accolta senza l’altra, secondo la tradizione della fede di Israele[2].

Al guado dello Iabbok Giacobbe lotta con l’angelo per ottenere la benedizione (cfr. Gen 32,25-30). La preghiera è lotta per la benedizione e la benedizione consiste nella possibilità di vedere Dio, come suggerisce il nuovo nome dato a Giacobbe: Israele. La lettura delle Scritture è una lotta con il testo perché rilasci la sua benedizione e la benedizione non può che essere la stessa data a Giacobbe: vedere Dio! Non, evidentemente, nel senso di bearsi della sua visione, che sarà comunque sempre sfuggente e inafferrabile, ma nel senso di lasciarsi attrarre alla sua visione perché tutta la nostra vita ne porti traccia, perché tutto il nostro agire di lui si lasci informare, di lui parli e a lui si volga. Così, se le Scritture sono la celebrazione della ricerca dell’uomo da parte di Dio, la preghiera è, da parte dell’uomo, la consapevolezza della verità di quella ricerca, verità che sana il cuore e lo rende trasparente alla fraternità con tutti.

Tre sono le parole-chiave per l’accesso alle Scritture: potenza, splendore, conversione. Davanti alle Scritture l’invocazione adatta suona: “Signore, concedimi di sentire la potenza che esse contengono”, una potenza di vita, di guarigione, di salvezza, di santità. L’insistenza non cade  sullo sforzo per comprenderle, ma sull’apertura di cuore per assimilarne la potenza.

L’intelligenza avviene  nella percezione di uno splendore che percorre tutte le Scritture come tutta la nostra vita. È lo splendore che parla della verità di Dio e del cuore dell’uomo, nel quale Dio e l’uomo si accolgono vicendevolmente e l’uomo si scopre familiare di Dio e in comunione con tutte le creature.

La condizione poi perché si accenda l’intelligenza è la conversione al Signore. La conversione è in funzione della conoscenza del Signore, non semplicemente perché si manifesti a me, ma, attraverso me, al mondo e così il mondo possa tornare a splendere della sua presenza.

Prima tappa.

Parola ed Eucaristia: la Parola mangiata.

È insegnamento costante della Tradizione: la parola è proclamata nella celebrazione liturgica come nel suo luogo privilegiato. Leggere il testo sacro e celebrare sono due momenti inseparabili. Come inseparabili furono, nell’esperienza di Israele, il fare memoria nella celebrazione e il consegnare alla scrittura l’evento di salvezza vissuto e ricordato. Né in Israele né nella Chiesa le Scritture sono all’origine. Il punto di partenza è sempre un avvenimento, una esperienza vissuta da uomini e nella quale Dio si comunica a loro, Dio parla loro.[3] Dio decide di incontrare e parlare a qualcuno, lo invita a agire, accadono degli eventi e si torna su questi eventi per cogliere ciò che Dio ha voluto rivelare, da cui traspare il senso stesso della storia che viene vissuta nella scoperta del Dio con noi che ci si è fatto vicino. La memoria celebrativa di quegli interventi, mentre consegna allo scritto la parola che li aveva annunciati, apre i cuori alla fede in quella parola perché dispieghi anche oggi le promesse che cela. Il testo scritto, proprio a partire dalla sua proclamazione nel mistero celebrato, sempre di nuovo accade nel tempo della quotidianità. Il suo luogo originario di intelligenza è così la liturgia, come d’altra parte è stata la liturgia il luogo generatore del costituirsi delle Scritture.

Parola e eucaristia costituiscono dunque il nesso fondamentale. Più precisamente: la celebrazione dei misteri di Cristo è il contesto proprio per cogliere tutte le risonanze della Parola scritta (cfr. DV 21). Con la celebrazione dell’eucaristia, vero punto di convergenza di tutto l’agire della chiesa, viene aperta l’intelligenza delle Scritture e si fa esperienza della presenza del Vivente nella chiesa.

Gesù, prima di tutto, è un lettore delle Scritture. Le Scritture sono il suo mondo, lo scenario che gli consente di delineare il suo itinerario, di trovare la sua collocazione negli eventi della sua vita e di dare a tutti la possibilità di identificarlo. E le Scritture, orizzonte indispensabile entro il quale poter annunciare il mistero del Cristo morto e risorto, sono le Scritture ebraiche. La fedeltà alle Scritture ebraiche, in Gesù come successivamente nei suoi seguaci, va però di pari passo con una accentuazione interpretativa radicale, poiché ormai le Scritture saranno lette in funzione della rivelazione di Gesù. Così, allorquando si costituisce la Bibbia cristiana composta di Antico e Nuovo Testamento, l’Antico Testamento cristiano non è la semplice ripresa della Torà di Israele, ma appare come una costruzione nuova, certamente dipendente dalla prima alleanza, ma ugualmente portatrice di una propria specificità.[4] L’aspetto più caratteristico di tale specificità è la sospensione dell’autorità dello scritto a favore dell’avvenimento di Gesù Cristo, che costituisce la pienezza della rivelazione e che è testimoniato dalla parola apostolica.

Dire da parte di Gesù: “il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15) non significa solo riferirsi al tempo che precede la sua venuta, con tutto quello che comporta quanto all’alleanza di Dio con il suo popolo, perché in lui, l’Inviato, il Messia, il Figlio prediletto, si compie il segreto di Dio – Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito (Gv 3,16) – segreto che copre l’intera storia della creazione e della redenzione. Significa riferirsi anche al futuro, al tempo che viviamo noi, al tempo che verrà dopo di noi, perché il futuro non può che essere rivelazione al nostro cuore di quello che è avvenuto in Gesù, ormai punto focale della storia intera. Tutti i momenti della nostra vita sono chiamati ad aprirsi su quell’ unicum perché ne possiamo afferrare il mistero ed esserne afferrati.

Il processo di formazione della Bibbia non segue affatto l’evoluzione storica. Una delle regole interpretative della tradizione ebraica si esprime con  il principio secondo cui “nella Torà non vi è un prima o un dopo”.[5] Dire che non c’è nella Torà un prima o un dopo significa pensare che la rivelazione della Torà è sempre un oggi. È proprio quanto la celebrazione eucaristica, sviluppatasi a partire dalla liturgia ebraica, fa vivere.

Nel primo racconto della creazione (cfr. Gen 1-2,3) la luce è creata il primo giorno, mentre il sole, la luna e le stelle, fonte della luce che vediamo con gli occhi fisici, sono creati solo il quarto giorno. La cosa ha fatto riflettere gli antichi rabbini, i quali hanno pensato che la luce del primo giorno fosse la luce della santità di Dio che permetteva di scorgere il mondo con uno sguardo solo. Ma quella luce fu nascosta. Il Messia renderà di nuovo capaci di quello sguardo. È il senso della spiegazione delle Scritture da parte del Risorto e che continuamente è proclamata nella liturgia. Corrisponde a quello che, nella tradizione ebraica, viene chiamata lettura verticale: “È nella sua totalità che la Torà ci interpella. Ci è richiesto di leggerla verticalmente”.[6]

La Parola proclamata vive dello stesso mistero del Pane assunto. Si presenta sotto specie umili, come il pane e il vino che diventano corpo e sangue del Signore. La presenza della Parola onnipotente nel libro che è la Bibbia è una presenza umiliata, come una ininterrotta discesa di Dio verso di noi. È anche attraverso la Bibbia che Dio si è messo nelle nostre mani, di noi, peccatori.

È un’immagine tradizionale nella chiesa: la parola di Dio è assimilata a un nutrimento. A differenza di quanto avviene nei cibi per il nostro corpo, non è lei che è cambiata in noi, ma noi in lei: si tratta di lasciarsi trasformare e non di trasformare.[7]

Seconda tappa.

I passaggi di una scoperta.

La conversione all’intelligenza delle Scritture nella chiesa comporta la scoperta di determinati passaggi. Quando Gesù ricorda qual è il più grande comandamento (cfr. Mt 22,37), cita il passo di Dt 6,4-5, che costituisce la confessione di fede del pio israelita: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”.

Anzitutto: ‘Ascolta!’ La parola di Dio è fondante, la mia esistenza riceve senso da quella Parola, da lì prende vigore il mio cuore. ‘Il Signore è il nostro Dio’: prima ancora che possa cogliermi nella mia individualità, devo riconoscermi dentro una pluralità, dentro una comunione, dentro una solidarietà. È il mistero dell’alleanza di Dio con noi che mi precede, dentro la quale mi posso riconoscere e accogliere. Quindi ‘Tu amerai’, cioè finalmente posso rispondere e godere tutta l’intimità di quella alleanza. Se non rispetto questi passaggi e mi pongo, troppo presuntuosamente e precipitosamente, di fronte alla Parola, la Parola non si apre alla rivelazione che porta. Occorre educarsi a seguire questi passaggi. Non è dato afferrarli istintivamente.

a) Ascolta, Israele. L’ascolto ha a che fare con la risposta a questa domanda: come possiamo vederci davvero peccatori? Cipriano ricorda, nel suo commento al Padre nostro,[8] che all’invocazione ‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’, la prima cosa che domandiamo non è la generosità per essere capaci di perdonare, ma piuttosto la coscienza di essere peccatori. Sentendoci peccatori, non avanziamo diritti e possiamo sperimentare in tutta la sua dolcezza il perdono di Dio; ci sentiamo solidali con tutti i nostri fratelli e, non avendo più alcun motivo di rivendicazione, non ci separiamo più da nessuno per nessun motivo. E così facendo restiamo nella carità di Dio per gli uomini.

Tutto dipende da quell’ Ascolta! che ci porta a riconoscere l’amore di Dio per noi proprio attraverso la consapevolezza di essere peccatori. Al di fuori di questa logica non si accede alla rivelazione di Dio. Ma senza ascoltare la parola di Dio, che guarisce e fa vivere, non si attiva quella logica e l’accesso alla rivelazione di Dio resta sbarrato.

L’unica innocenza possibile è quella che deriva dalla scoperta della possibilità del perdono, alla cui rivelazione tende tutta la storia intessuta da Dio con l’uomo e di cui le Scritture portano testimonianza. Per giunta, l’eliminazione di ogni pretesa di innocenza nei confronti di Dio purifica anche quella miriade di pretese che abbiamo l’uno verso l’altro e che intralciano il buon corso dei rapporti umani. Più l’uomo si scopre peccatore, meno accampa pretese verso il mondo e gli uomini. L’uomo si accoglie perdonato davanti a Dio, peccatore davanti agli altri, in tutta umiltà e fiducia, con sano realismo.

Nella dinamica dell’obbedienza della fede, l’ascolto della Parola equivale alla fin fine ad accogliere e generare in noi il Verbo, di cui risplendono tutte le parole della Scrittura, come ci fa pregare la colletta della quarta domenica di avvento: “O Dio, Padre buono, tu hai rivelato la gratuità e la potenza del tuo amore, scegliendo il grembo purissimo della Vergine Maria per rivestire di carne mortale il Verbo della vita: concedi anche a noi di accoglierlo e generarlo nello spirito con l’ascolto della tua parola nell’obbedienza della fede”. La traiettoria propria dell’ Ascolta! punta diritto sull’esortazione di Paolo, che riassume la dinamica interna di tutte le Scritture: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2 Cor 5,20).

b) Il Signore è il nostro Dio. In evidenza non c’è un io, ma un noi. Se è vero che Dio offre continuamente la sua alleanza, non posso avere la sfrontatezza di pretenderla per me. A che titolo potrei? Dio offre la sua alleanza alla chiesa, a un popolo, all’umanità, nella quale mi ritrovo e con la quale sono solidale. Prima c’è la chiesa, poi il fedele.

Si tratta di ritrovarsi insieme dentro quel mistero, di vivere in santa compagnia. Il mistero dell’ intimità  non si scopre da soli. Prima c’è un noi e soltanto dopo scopri chi sei, cominci a scoprire che sei ciò che intuisci di poter diventare. Noi siamo secondo la possibilità di un amore che ci scopre a noi stessi. Qui si innesta l’intelligenza delle Scritture: riceversi a partire da un noi.

c) Tu amerai. Poi finalmente c’è il tu, tu che puoi agire in responsabilità. La responsabilità si esercita dentro il movimento di rivelazione che è stato messo in moto dall’ascolto. Se a noi non è svelato nulla di Dio, vuol dire che il cuore non è aperto e la grazia non ci ha toccati.

Quando Origene, in una bellissima pagina del suo commento al libro dell’Esodo a proposito della manna,[9] dice che la parola di Dio può diventare per noi tutto ciò che desideriamo, si riferisce precisamente alla nostra responsabilità di lettori e oranti, perché tocca a noi cercare ciò che nelle Scritture può illuminarci nel momento presente e diventare nostra forza. Se le Scritture si aprono al nostro cuore e apriamo il nostro cuore alle Scritture, si aziona quel tipo di movimento che porta a una conoscenza potente, pur nell’estrema debolezza della nostra carne. Si tratta di accogliere la rivelazione di Dio nella sua santità, come dimensione etica  della verità. Il tu amerai si riferisce appunto alla possibilità di partecipare in questo mondo alla santità stessa di Dio.

Conversione della nostra intelligenza

Di qui scaturiscono certi atteggiamenti interiori, senza i quali il senso stesso della parola che ascoltiamo o leggiamo, nonostante lo sforzo mentale di comprenderla, resterà per noi chiuso, senza possibilità di interferire con le energie vitali che danno vigore al nostro uomo interiore. Ne elenco alcuni.

1) Aprirsi al mistero piuttosto che voler comprendere qualcosa del mistero

In senso religioso, il mistero della Parola non allude primariamente a ciò che non si può comprendere, bensì a ciò di cui si è invitati a diventare partecipi. Allude a un legame prima che a una comunicazione. La norma del comprendere è definita dalla tradizione in questa successione: leggere, praticare, comprendere; non invece come solitamente intendiamo: leggere, comprendere, praticare. Non si pratica quello che la testa capisce, ma quello che il cuore è disposto ad accogliere. È l’atteggiamento additato dalla tradizione ebraica quando legge Es 24,7: “Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: “Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!”. La successione dei verbi, sia in ebraico che nella versione greca della LXX, suonano: noi lo faremo e lo ascolteremo. Il valore del versetto sta nell’individuare la dinamica di comprensione delle Scritture: il mettere in pratica la parola pone nella condizione di comprenderla. Si conosce l’insegnamento per avergli obbedito e questo in vista della giustizia, cioè in vista di quella potenza di salvezza che la parola celava (cfr. Rm 6,16-18).

2) Custodire il senso di quanto è preziosa la parola di Dio.

Nel vangelo di Giovanni leggiamo : “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna  … In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa” (Gv 3,16; 5,19).

La prima affermazione la applichiamo solitamente al mistero dell’incarnazione. Ma anche il dono della Parola rivela l’amore del Padre per il mondo. E la parola è stata rivelata perché gli uomini abbiano la vita, proprio come Gesù ripete ai farisei, sebbene in un contesto di rimprovero: “Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna …” (Gv 5,39).

La seconda affermazione non esprime forse il mistero stesso della meditazione delle Scritture? Gesù fa quello che vede fare dal Padre, quello cioè che contempla nel Padre in ragione della sua intimità, non del suo ‘voler comprendere’. E per noi non vale la stessa cosa? Fare quello che vediamo fare da Dio, dal Cristo! E come vedere se non immergendoci nelle Scritture, in ragione della disponibilità del nostro cuore a sentire e a raccogliere il desiderio di Dio di  incontrare l’uomo e godere con lui della vita di cui lo vuole fare partecipe? Queste due espressioni del vangelo di Giovanni raccontano tutta la preziosità e l’infinitezza della parola di Dio!

3) Le Scritture si aprono solo a chi le legge con sacro rispetto

Parafrasando il Padre nostro, s. Francesco così commenta l’invocazione ‘dacci oggi il nostro pane quotidiano’: “Il nostro pane quotidiano, il tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, dà a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell’amore che egli ebbe per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì”.[10] E Gregorio Magno afferma: “Che cos’è, infatti, la sacra Scrittura se non una specie di lettera di Dio onnipotente alla sua creatura?… Sii ben disposto, ti prego, e medita ogni giorno le parole del tuo Creatore; impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio per desiderare più ardentemente i beni eterni, perché il vostro cuore arda di più grandi desideri per i gaudi del cielo”.[11]

È il rispetto dovuto all’amore, dovuto all’emozione del coinvolgimento in un amore che ci avvolge e ci supera, senza la percezione del quale le Scritture restano mute. Quello che DV chiama religioso ascolto e la tradizione lettura sacra.

Terza tappa.

L’intelligenza spirituale delle Scritture.

La bellissima colletta della quindicesima domenica, anno B, interpreta assai bene gli aneliti profondi dei cuori: “Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio, che rivela al mondo il mistero del tuo amore e la vera dignità dell’uomo; colmaci del tuo Spirito, perché lo annunziamo ai fratelli con la fede e con le opere”. È il desiderio che il volto del Signore si riveli nel suo splendore al nostro cuore e a quello di tutti, perché è questo amore la fonte della nostra dignità.

Alla radice del tema del primato della Parola, che è una delle eredità più preziose del concilio Vaticano II, sta l’approccio alla Scrittura come rivelazione di Dio.  Alla radice c’è infatti la verità di Gesù come Evangelo e senso di tutta la Scrittura. Il principio interpretativo di Cristo come chiave delle Scritture implica il presupposto dell’unità di tutte le Scritture, con il corollario che la Scrittura si debba interpretare con la Scrittura.

Se riconosciamo, con la tradizione, che Cristo è la chiave di accesso alle Scritture, lo dobbiamo riconoscere a doppio titolo, vale a dire: il Cristo introduce alla verità delle Scritture e contemporaneamente ci consegna alla santità che ne promana, come ben sottolinea Ugo di s. Vittore in questo suo commento: “Tutta la divina Scrittura è un unico libro, e quell’unico libro è il Cristo, poiché tutta la divina Scrittura parla di Cristo e tutta in Cristo si compie. Leggendo la Scrittura questo ricerchiamo: riconoscendo ciò che ha fatto, detto e insegnato, meritiamo di fare ciò che ha comandato e di raggiungere ciò che ha promesso. E così, crescendo nella cognizione della verità e per il merito della virtù, arriviamo fino ad essere conformati a lui, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo (Ef 4,13)”.[12]

A proposito delle Scritture, nei Padri ritorna continuamente l’analogia dell’incarnazione. Come c’è una kenosi, una discesa della Parola nella carne, così c’è una kenosi, un abbassamento della Parola in parole umane, in parole scritte. Si tratta del mistero della accondiscendenza di Dio, dell’atto misericordioso con cui Dio pone la sua dimora fra gli uomini. Questo atto è rivelato sia dal farsi scrittura che dal farsi carne della Parola di Dio. Se il Figlio si è fatto carne ed è divenuto simile in tutto agli uomini eccetto il peccato (Eb 4,15), la Parola di Dio è entrata nella scrittura senza divenire per questo menzogna o peccato, ma fatta salva la verità e la santità. Come si deve riconoscere il Cristo in Gesù di Nazaret (Mc 8,29), il Figlio di Dio nel crocifisso (Mc 15,39), il Santo in colui che è stato reso peccato (2 Cor 5,21), così si è chiamati a discernere la Parola di Dio nella Scrittura umana, l’unica Parola nella molteplicità dei libri, l’azione dello Spirito Santo nella storicità costitutiva del testo scritturistico.[13]

I sensi delle Scritture.

È la novità di Cristo a segnare il passaggio dalla lettera allo spirito, passaggio che richiede di tener presenti almeno tre aspetti.

  1. La sinfonia dei due Testamenti nell’unico Spirito. Occorre imparare a decifrare la complessa dinamica di sinfonia dei due testamenti. Il Nuovo Testamento, sebbene sia stato preparato da tutto il processo di interiorizzazione e spiritualizzazione che ha caratterizzato la formazione stessa dell’Antico Testamento,[14] non è il frutto di un processo evolutivo, ma viene dall’irrompere dell’evento unico e assoluto, che è il Figlio di Dio fatto uomo, nel quale tutte le promesse si compiono. Tuttavia, per quanto unico e assoluto, quell’evento è stato preparato e prefigurato nei secoli, così che non viene spezzata la continuità con l’Antico Testamento, tanto da far dire a un esegeta medievale che i due Testamenti sono le due labbra della sposa, che rivelano lo stesso segreto e danno lo stesso bacio.[15]
  2. La Scrittura contiene la Parola di Dio, ma la Parola eccede la Scrittura, non ne è esaurita. Il dirsi di Dio, che contemporaneamente diviene un darsi, con l’instaurare una presenza dialogica che incontra l’uomo: questo va costantemente, insistentemente, cercato nelle Scritture! La cosa non è né evidente né automatica: entra in gioco la reazione alla Presenza, che è l’unico modo per l’uomo che legge e ascolta la parola di Dio di incontrare il Dio vivente. Della reazione fa parte il desiderio di sollecitare la Scrittura perché si apra tramite l’infinito movimento di interpretazione.
  3. La parola di Dio deve essere considerata nella globalità del mistero che rivela, vale a dire essa concerne Cristo e la Chiesa. In realtà, tre sono gli aspetti che strutturano lo stesso mistero della rivelazione di Dio: Gesù, la Chiesa, l’uomo. Essi costituiscono un unico onnicomprensivo oggetto di contemplazione: il Figlio di Dio crocifisso e risorto considerato in se stesso, nella sua immagine viva, nella sua pienezza di Christus totus.

Quando l’esegesi contemporanea riconosce l’urgenza di onorare, oltre la storia della redazione e l’analisi del testo, il versante della recezione, vale a dire la costituzione del senso che avviene nell’atto di lettura, ritrova, come suo malgrado, una certa familiarità con l’approccio patristico delle Scritture. Agli occhi dei padri della chiesa, l’essenziale del lavoro esegetico non risiede nello studio delle condizioni di produzione del testo, ma nell’attenzione al costituirsi del senso per mezzo di una lettura orientata dalla fede pasquale e secondo il principio che ogni pagina della Scrittura è da porre in relazione con l’evento della salvezza compiuto in Cristo Gesù.

La distinzione tra lettera e spirito allude sempre alla possibilità di percepire e accogliere la parola di Dio nelle parole delle Scritture. La lettera del testo rimanda sempre al mistero dell’amore di Dio che dà salvezza, mistero che costituisce il contenuto specifico dell’intelligenza spirituale delle Scritture. Ma poiché il mistero dell’amore di Dio è vita per l’uomo, il senso spirituale sta nell’aprire quel mistero di vita al cuore e il cuore a quel mistero.

Quando la tradizione, nella specificazione dei vari aspetti del senso spirituale, lo denomina senso allegorico, senso tropologico o  morale, senso anagogico oppure  escatologico, si riferisce alla dinamica della fede nel Cristo, che è contemporaneamente una dinamica di intelligenza e di assimilazione, colta nei suoi diversi aspetti: il mistero della persona di Cristo (egli è la nuova alleanza, Lc 22,20), il mistero di vita nuova che da lui scaturisce e ci alimenta  (in Gesù l’uomo diventa nuova creatura, 2 Cor 5,17; Rm 6,4), il mistero di vita eterna che per mezzo del suo Spirito Gesù ci fa già pregustare aprendo la storia al Regno (nel regime nuovo dello Spirito, Rm 7,6).

Per quanto Gesù costituisca il compimento delle promesse e per quanto questo compimento non sia più suscettibile di ulteriori sviluppi, la storia attende ancora che quel compimento l’assorba fino in fondo, in modo che tutto possa risplendere di Dio e della sua salvezza. Così, se nel capo tutto è compiuto, non così nel corpo che è la chiesa. Ed è proprio nella tensione vigilante di appropriazione di quel compimento che la chiesa legge le Scritture cercandone un’intelligenza spirituale e vivendone la potenza di salvezza, con e nello Spirito di Gesù.

Quarta tappa.

Il dinamismo dell’intelligenza delle Scritture

Il problema dell’intelligenza delle Scritture è quello di imparare a cogliere, non tanto cosa Dio ci dice, ma essenzialmente qual è il movimento, qual è la dinamica che la sua parola mette in moto, coinvolgendo la nostra vita.

In effetti, ciò che ha attinenza al cuore è una dinamica più che un contenuto. Il contenuto si rivela solo nella dinamica che lo trasporta. Una parola di amore può essere colta solo nella dinamica di amore che l’ha prodotta, amore che suscita vita nella persona alla quale si rivolge, se essa si lascia toccare e coinvolgere nella stessa dinamica. Se la Scrittura si legge per avere la vita, allora è proprio quella dinamica di vita che la Scrittura scatena, dinamica che non è altro che l’amore di Dio che ci raggiunge, che ci ingloba e sazia il nostro desiderio.

È da dentro la percezione di quella dinamica che la Scrittura si apre e illumina il cuore che si è avvicinato al testo proprio per accoglierne il riverbero di rivelazione. Ci possiamo rifare al miracolo dell’emorroissa raccontato in Mc 5,24-34. Lì si vede chiaramente la differenza del toccare da parte della donna e da parte dei discepoli: la prima tocca nella fede, gli altri si schiacciano solo contro Gesù. Non solo, ma nel pensiero della donna è sufficiente toccare la frangia del mantello di Gesù, nemmeno Gesù stesso. La potenza di Gesù scaturisce anche da quel furtivo toccare semplicemente il suo mantello. Nell’ottica di quel racconto, se al posto di Gesù immaginiamo il corpo delle Scritture, quello che avviene all’emorroissa è ciò che può avvenire al possibile lettore. Frangia e mantello sono le parole del testo, mentre la potenza deriva da quello che i Padri chiamano il senso nascosto. La potenza che fuoriesce dal testo è come la potenza[16] che raggiunge l’emorroissa, come la luce che fuoriesce dal corpo di Gesù trasfigurato. [17]

La lettura dinamica delle Scritture

L’intelligenza si apre quando si lascia trasportare dal movimento che l’ha sorpresa. Vale per l’immagine come per il testo scritto; vale per l’icona come per la santa Scrittura. L’icona e le Scritture, in realtà, nella visione di fondo come nella considerazione dei dettagli, più che fornire risposte, danno ragione delle domande di fondo del cuore dell’uomo, le fanno emergere e rendono accessibile al cuore dell’uomo la plausibilità, la comprensione, il fascino e la realizzazione concreta del mistero della relazione di Dio con noi, dentro la nostra storia

Nell’accedere alla Parola, come nelle opere che intraprendiamo per metterla in pratica, va rispettata la dinamica soggiacente, che non è binaria ma ternaria. Non si tratta semplicemente di comprendere per mettere in pratica, come se il mettere in pratica fosse l’obiettivo finale. Si tratta di ascoltare per praticare e così arrivare a godere il frutto. Il contemplare non è in funzione del fare; piuttosto, è l’agire che è in funzione del vedere.

Quinta tappa.

La tensione all’intelligenza delle Scritture.

Cosa realmente cercano i lettori della Bibbia? Domanda che richiama specularmente l’altra: che tipo di ascoltatore esige la Bibbia? Leggiamo la Bibbia per cercare un senso al problema della vita, non per altro. E la Bibbia offre la risposta solo a domande radicali, a lettori che si pongono domande radicali, che considerano Dio reale come reali sono i problemi della vita.

Sussiste sempre uno scarto tra ciò che dice la Scrittura o il senso che viene scoperto e ciò che noi si vive e si pensa effettivamente; tra l’idea che ci facciamo di Dio e ciò che di Dio rivela la Scrittura. Spesso – e la costatazione non va in alcun modo minimizzata! – la Scrittura ci risulta inaccettabile e contestatrice del nostro universo quotidiano di senso.

La questione della tensione all’intelligenza delle Scritture può essere affrontata da due punti di vista: dal punto di vista della Bibbia e dal punto di vista del lettore.

a) La Bibbia. I libri della Bibbia non sono sempre stati letti nella stessa disposizione e nello stesso numero. La fissazione del canone dei libri della Bibbia è un processo durato secoli e fa riferimento alla coscienza di una mancanza: la cessazione della rivelazione (non ci sono più profeti e l’ispirazione è finita!) e il passaggio a un’epoca nuova che non comporta più la stessa normatività. La situazione nuova è all’origine dell’idea di un canone che conservi e definisca il perimetro degli scritti che attestano la rivelazione.

Il riconoscimento di un canone chiuso, definitivamente fissato e comunemente accettato, sia per gli ebrei che per i cristiani, si è protratto per secoli. A seconda che si tratti del canone ebraico o del canone cristiano l’orientamento di fondo della lettura muta. La struttura della Bibbia, in realtà, è concepita come una struttura aperta, e come tale va accolta per coglierne tutta la densità e la forza.  

b) Il lettore. Se consideriamo la tensione all’intelligenza delle Scritture come ricerca continua di senso da parte del lettore, sono vari gli aspetti che attirano l’attenzione.

1) Ispirazione e canone delle Scritture

L’ispirazione non riguarda solo l’autore del libro, ma accompagna il libro lungo tutte le tappe della sua realizzazione, dentro la comunità che ha presieduto alla sua concezione, alla sua scrittura materiale e alla sua trasmissione. L’assistenza dello Spirito Santo prolunga in qualche modo l’ispirazione coinvolgendovi la comunità che riceve il testo e, in essa, ciascuno dei lettori credenti. Così, il processo di ispirazione non si conclude nel libro, ma nella chiesa che lo legge, nel lettore che lo riceve dentro la chiesa e dalla chiesa. Estendere l’ispirazione fino a riferirla alla lettura nella chiesa,[18] significa segnalare il valore dello scritto nella sua natura di parola di Dio rivolta a me, perché parola di salvezza.

2) Il mistero è infinito

Se la parola è accessibile, il mistero è infinito. Di qui la tensione mai risolta per il lettore della Bibbia. A doppio titolo: rispetto al conoscere, perché il mistero è insondabile e lo sguardo dell’uomo è limitato; rispetto all’ essere, perché la condivisione dei segreti di Dio comporta la partecipazione alla sua santità, che è santità di amore. “Santificatevi dunque e siate santi, perché io sono santo” (Lv 11,44); “Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). In questo preciso punto si radica tutta la tensione all’intelligenza delle Scritture, tensione che spinge sempre a progredire incessantemente per diventare solidali della carità di Dio per il mondo, segno della sua santità, che è santità di amore.

3) La traiettoria della tensione all’intelligenza

Rispetto al soggetto che la vive, la tensione si risolve nel desiderio di Dio, un desiderio indefinitamente perseguito e che si pone come risposta al desiderio che Dio ha dell’uomo, secondo la norma tracciata dall’Apostolo: “Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’ io sono conosciuto” (1 Cor 13,12).  È questa la traiettoria della tensione all’intelligenza delle Scritture. Frequentare la parola, scandagliarla, nutrirsene, significa alimentare il desiderio segreto sia dell’uomo che di Dio; significa  permettere al cuore di trovare spazi per viverlo e per custodirlo.

4) Il libro cresce con chi legge

Nella tradizione,[19] la formula che più chiaramente allude a questa tensione infinita di intelligenza resta quella di Gregorio Magno: “gli oracoli divini crescono insieme con chi li legge”.[20] Le sue parole non vanno intese nel senso di una crescita oggettiva dei sensi delle Scritture. Indicano piuttosto il fatto che più il mio sguardo è assorto e profondo, più scopro sensi profondi. La dinamica soggiacente è assolutamente inconsueta: più la parola di Dio diventa mia perché l’accolgo e me ne nutro restandovi coinvolto, meno posso dichiararmene proprietario. Più la parola si apre e più di fronte a lei divento piccolo.

Gregorio riprende e amplifica la posizione tradizionale della lettura patristica delle Scritture, indicando come la tensione all’intelligenza comporti il raccordo delle Scritture alla carità. Nelle Scritture si tratta di scrutare la carità di Dio  per l’uomo e contemporaneamente di coglierla come il senso ultimativo del mondo e dell’uomo. La corrispondenza che ne emerge è la seguente: tutte le Scritture parlano della carità di Dio e comportano l’assimilazione della potenza della carità perché la vita di Dio si comunichi all’uomo.

È su questa corrispondenza che la Scrittura si forma e si struttura fin dall’AT. Le Scritture narrano la predilezione di Dio per il suo popolo (carità come elezione) e contemporaneamente la risposta del popolo alla predilezione di Dio (carità come santità), in funzione di intercessione perché tutti diano gloria a Dio, riconoscendo cioè la verità del suo amore per gli uomini. Questa corrispondenza attraversa anche il NT e la chiesa diventa lo spazio di rivelazione della carità di Dio per il mondo.

 

Suggerimenti pratici.

A modo di sintesi, tradurrei quanto sono venuto esponendo fin qui in una serie di suggerimenti pratici.

1) Leggere le Scritture in compagnia

Leggere le Scritture nella chiesa comporta il leggerle con la chiesa, vale a dire secondo la tradizione dei Padri e dei santi. Il suggerimento più generale e più semplice resta quello di accompagnarsi con la liturgia, che legge la Scrittura come un tutto, onorando l’unità del libro così come è ricevuto, senza considerare la genesi dei testi e la loro differenziazione dal punto di vista dei contesti storici che hanno presieduto alla loro redazione. Questo avviene in particolare nel ciclo festivo della liturgia, quando la scelta dei brani comprende l’Antico e il Nuovo Testamento, correlati dentro un’intelligenza particolare. Quando si vuole cogliere più in profondità la rivelazione di un dato brano biblico, ci si può riferire ad esso andando alla celebrazione liturgica che lo proclama. Le connessioni che là vengono evidenziate con l’insieme della Bibbia, con il mistero di Cristo e della chiesa, con la vita dei cuori, sono di un’estrema fecondità.

2) Attenzione ai rimandi mentali immediati

Ogni lettura non ci trova tabula rasa. Siamo sempre alle prese con una nostra pre-comprensione automatica, istintiva. Davanti alle Scritture la nostra pre-comprensione influenza notevolmente l’intelligenza del testo. La prima attenzione da avere allora è di rispettare la distanza: si tratta della parola di un altro! Non aver fretta di inglobare l’altro, lasciargli tutto lo spazio necessario perché si esprima, darsi il tempo necessario per accoglierlo.

È un’attenzione che riguarda i nostri rimandi mentali immediati, che spesso sono fuorvianti. Occorre rifiutarli, in modo da essere più rispettosi del testo e poter accedere alla verità che comporta. Spesso le nostre immagini di fondo, che sviluppano poi una certa serie di pensieri, sono assolutamente inadatte a cogliere la rivelazione di Dio. Basta pensare alle parabole evangeliche, che spesso banalizziamo o riduciamo a semplici insegnamenti morali. Quante domande inutili al testo se non scaturiscono dalla percezione della novità evangelica! In gioco e in primo piano, benché non appaia direttamente, è sempre il mistero di Dio e della sua azione e non un insegnamento.

3) Stare dentro le Scritture

La Scrittura si legge con la Scrittura. È il metodo di lettura più antico e più efficace. Il primo sforzo deve essere quello di tuffarsi dentro e lasciarsi trasportare dai rimandi continui che la Scrittura fa emergere. Non aver fretta di uscire. Di fronte a un passo, la domanda sottostante che guida il lettore accorto è sempre la stessa: a cosa fanno allusione queste parole? È un continuo rimando di un versetto a un altro, in infiniti modi, perché si sveli il mistero delle Scritture al cuore che lo cerca.

Si tratta di aspirare a una lettura globale delle Scritture, aprendo qualsiasi parola o versetto al mistero che dà ragione del senso in rapporto a una visione d’insieme. In una visione globale ogni particolare assume un rilievo speciale in rapporto al mistero che viene rivelato, in una tensione infinita di intelligenza mai compiuta.

4) L’apertura alle Scritture avviene in modo progressivo

Non si deve voler capire tutto e subito; non è assolutamente necessario e non importa nulla. Quello che importa è che si colga anche un solo trattino della Scrittura, ma in modo autentico, in accordo con l’insieme delle Scritture. Il fastidio di non poter comprendere è fuori posto; ciò che oggi risulta ostico, può essere motivo di salvezza domani.

Senza pazienza non salverete le vostre anime” (cfr. Lc 21,19). La pazienza non significa semplicemente durare nel tempo , ma più propriamente portare con generosità nel tempo. La pazienza con la quale l’anima entra nelle Scritture e si salva, è sempre una pazienza dolce, perché solo questa pazienza ci apre al mistero e dà un possesso tranquillo del nostro cuore, indipendentemente da quel­lo che il cuore si porta dentro. Ciò che conta è che noi riusciamo a percepire il suo desiderio di noi, il suo desiderio di farsi incontro a noi, il suo invito per noi.

5) Guardare alla densità e al movimento dei testi

Spesso leggiamo la Scrittura in modo piatto, come la descrizione di un paesaggio, di una natura morta. La Scrittura va guardata come un corpo vivo. Se lo Spirito di Dio è il vero autore delle Scritture, non c’è nulla in esse che sia privo di significato. Non solo, ma la comprensione delle espressioni e dei racconti, nei dettagli come nei contesti narrativi, dei termini come delle immagini con cui si intessono, procede dall’insieme delle Scritture, in rapporto al mistero dell’offerta di alleanza di Dio all’uomo. Tutti i testi vivono della dinamica drammatica di quell’offerta, che va intuita dentro una rete infinita di connessioni segrete che tiene insieme e fa viva la Scrittura. La scoperta di queste connessioni non attiva semplicemente una corrispondenza di idee, ma apre spazi in cui muoversi, ingloba in dinamiche precise di fede e di vita e produce intelligenza. Comprendere è anche comprendersi.

 

Conclusione.

L’aspetto misterioso della parola di Dio deriva dal fatto che essa cela la rivelazione del suo volto al nostro cuore e insieme  lo abilita a vivere in pienezza la sua vocazione all’umanità. Recita Dt 4,9: “Ma guardati e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste: non ti sfuggano dal cuore, per tutto il tempo della tua vita” (Dt 4,9). L’accento cade sulla sincerità del cuore, che si trova dentro una storia d’amore che lo precede e l’accompagna e a cui risponde, e non sulla sua generosità. Vedere le parole significa aver accolto la parola per metterla in pratica e avanzare in quella realizzazione di umanità che fa risplendere la prossimità di Dio. Ecco, questo mi sembra in sintesi il frutto dell’assimilazione della parola di Dio: far risplendere la prossimità di Dio.

La frequentazione delle Scritture ci dà la coscienza di partecipare a una storia che è più grande di noi, fatti segno di una grazia che, se è data a noi, non è solo per noi. La capacità di annuncio, che fa da perno alla missione, implica che il nostro porci nel mondo, prima che al mondo, esprima la gioia per qualcosa che ci è stato affidato. L’intercessione per tutti è la condizione di fondo che permette di finalizzare ogni impegno e fatica perché all’uomo appaia esperibile la prossimità di Dio. Induce noi a non mescolare mai interessi nostri all’opera di Dio e favorisce negli uomini la ricevibilità dell’annuncio e della testimonianza di cui portiamo la responsabilità. Risponde alla domanda: è forse possibile dare il vangelo ad una persona senza che questa ci diventi cara? (Cfr. 1 Ts 2,8).

Se la tradizione ha applicato al mistero dell’eucaristia l’esperienza del carbone ardente poggiato sulle labbra del profeta Isaia, noi possiamo riferirlo al contatto con la parola di Dio. Perché, accogliendo la parola del Signore, non ne veniamo bruciati? L’immagine si adatta bene all’azione di Dio come all’azione dell’amore. L’amore brucia. Brucia tutto ciò che lo ostacola, tutto ciò che lo indebolisce. Se non brucia, è perché si tratta di un amore pallido, più sognato che vissuto, più immaginato che reale. Se la parola accolta non brucia è perché non ci ha svelato nulla di nessuno, è perché non ci ha fatto incontrare nessuno, non ci ha coinvolti in nessun sogno. Ma se è così, quale potenza ravvisare nella nostra testimonianza in mezzo ai fratelli? La testimonianza è in funzione di uno splendore, non di un impegno!

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[1] Esemplare la posizione di ORIGENE, Philocalie, 1-20. Sur les Ecritures et la lettre à Africanus sur l’histoire de Suzanne, Paris 1983, Cerf (SC 302), paragrafi 16-18.

[2] Cfr. Willy RORDORF, «La Bible dans l’enseignement et la liturgie des premières communautés chrétiennes», in Le monde grec ancien et la Bible, Paris 1984, Beauchesne (Bible de tous les temps, vol. 1), p. 69-94. Vedi anche Louis BOUYER, Gnosis. La conoscenza di Dio nella Scrittura, Città del Vaticano 1991, Libreria editrice Vaticana (Sacra Scrittura, 2), p. 125-133.

[3] Cfr Jacques GUILLET, «La Bible à la naissance de l’Eglise», in Le monde grec ancien et la Bible, Paris 1984, Beauchesne (Bible de tous les temps, vol. 1), p. 55.

[4] Per tutte le questioni esegetiche e storiche, complesse e ancora aperte, connesse con la formazione della Bibbia cristiana, rimando alle ricerche che compongono il dossier “La réception des  Ecritures inspirées” dei  due numeri della rivista RECHERCHES DE SCIENCE RELIGIEUSE 92 (2004) 1 e 93 (2005) 4, con gli interventi di Bernard Sesboüé, Alain Le Boulluec, Pierre Gibert, Jean-Louis Chrétien, Yves-Marie Blanchard, Jean-Pierre Sonnet, Pierre Gisel e Christoph Theobald.

[5] Sifrè Nm 64; b. Pesachim 6b. Citazione tratta da Piero STEFANI, Introduzione all’ebraismo, Brescia 20042 (ed. riveduta e aggiornata,19951), Queriniana (Introduzioni e Trattati, IT/6), p. 103.

[6] E. WIESEL, Célébration talmudique. Portraits et légendes, Paris 1991, Seuil, p. 138. Il detto viene attribuito a Rabbi Ishmael ben Elisha.

[7] Cfr. S. AGOSTINO, Le confessioni, Roma 19753, Città Nuova (Opere di sant’Agostino, I), p. 201: 7, 10, 16.

[8] Vedi San CIPRIANO, Opere, a cura di Giovanni Toso, Torino 1980, UTET (Classici delle religioni, La religione cattolica), La preghiera del Signore, pp. 203-237, in particolare il cap. XXII, p. 226. Si può consultare anche l’edizione: CIPRIANO, Trattati. Introduzione, traduzione e note a cura di Antonella Cerretani, Roma 2004, Città nuova (Testi patristici, 175), La preghiera del Signore, pp. 145-177.

[9] “Anche per te, dunque, se accoglierai con fede e devozione la parola di Dio che viene annunciata nella Chiesa, questa stessa parola diventerà tutto ciò che tu desideri. A mo’ di esempio, se sei nella tribolazione, ti consola dicendo: Dio non disprezza un cuore contrito e umiliato; se ti allieti per la speranza futura, porta al colmo la tua gioia dicendo: Allietatevi nel Signore, o giusti, ed esultate; se sei adirato, ti ammansisce dicendo: Cessa dall’ira e abbandona lo sdegno; se sei oppresso dai dolori, ti risana dicendo: Il Signore risana tutte le tue malattie; se ti struggi nella povertà, ti consola dicendo: Il Signore solleva dalla terra il misero e innalza il povero dal letame. Così dunque la manna della parola di Dio prende nella tua bocca qualunque sapore tu voglia”, ORIGENE, Omelie sull’Esodo, a cura di Manlio Simonetti, Roma 2005, Città nuova (Opere di Origene, 2), p. 231: omelia VII,8.

[10] FF 271.

[11] GREGORIO MAGNO, Lettere (IV-VII), a cura di Vincenzo Recchia, Roma 1996, Città Nuova (Opere di Gregorio Magno, V/2), p. 229: V, 46.

[12] UGO DI S. VITTORE, De arca Noe Morali, II, 8, PL 176, 642CD.

[13] Si veda Enzo BIANCHI, «La lettura spirituale della Bibbia oggi», in AA.VV., L’esegesi cristiana oggi, Casale Monf.to (AL) 1992, Piemme, p. 215-277.

[14] Si pensi alle riletture successive della storia di Israele che hanno condotto i profeti e i testi sapienziali; si pensi alla formazione delle feste in Israele che da agricole sono diventate storiche e celebrative degli eventi della rivelazione; si pensi alla modulazione dei temi come quelli dell’alleanza, dell’esodo, del passaggio del Mar Rosso, continuamente ripresi in chiave sempre più interiore. Cfr. Henri DE LUBAC, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura,  parte prima, volume primo, Milano 1988, Jaca Book  (Opera omnia, 17), p. 337-343.

[15] Il detto è di Gilberto di Stanford, nel suo commento al Cantico dei Cantici. Cito da Henri DE LUBAC, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura,  parte prima, volume primo, Milano 1988, Jaca Book  (Opera omnia, 17), p. 383. Vale la pena di riportare una conclusione di p. Henri DE LUBAC, Storia e Spirito, Milano 1985, Jaca Book (Opera omnia, 16), p. 442: “In questo luogo sacro [nella coscienza messianica di Gesù] tutto si unifica, tutto assume il suo definitivo significato. In esso si opera con ogni evidenza il passaggio da un Testamento all’altro, l’alchimia che trasforma l’uno nell’altro. In esso si concentra tutta la dialettica dei due Testamenti: il Nuovo è interamente generato dall’Antico, e al tempo stesso l’Antico viene completamente interpretato dal Nuovo”.

[16] Quello che dice anche Luca per la gente che andava a Gesù: “Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti” (Lc 6,19) concerne ogni possibile lettore delle Scritture.

[17] Si veda il bellissimo commento sulla trasfigurazione di ORIGENE,  Philocalie, 1-20. Sur les Ecritures, par Margherite Harl, Paris 1983, Cerf (SC 302), p. 436-439: XV,19.

[18] Cfr. Dei Verbum, 12: “Però, dovendo la Sacra Scrittura essere letta e interpretata con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta…” (Sed, cum Sacra Scriptura eodem Spiritu quo scripta est etiam legenda et interpretanda sit…).

[19] Famosa l’espressione di Giovanni Scoto Eriugena: “Sacrae Scripturae interpretatio infinita est”, De divisione naturae II,20.

[20] S. GREGORIO MAGNO, Omelie su Ezechiele/1, Libro primo, Roma 1992, Città nuova (Opere di Gregorio Magno, III/1), p. 215: omelia VII, 8 (divina eloquia cum legente crescunt). Una acuta analisi di quella formula, del suo retroterra e della sua fortuna, è condotta da Pier Cesare BORI, L’interpretazione infinita. L’ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni, Bologna 1987, Mulino (Saggi, 326).