Articolo di p. Elia Citterio, pubblicato sulla rivista “Consacrazione e servizio”, 11/2008, pp. 64-68.
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All’antica pratica di consacrare un determinato tempo alla penitenza e alla preghiera con un ritiro e un’intensificazione degli esercizi ascetici, s. Ignazio di Loyola (1491-1556), con i suoi Esercizi spirituali, aveva dato una struttura, un fondamento teologico e psicologico e soprattutto una finalità specifica: ordinare la vita in tutti i suoi aspetti secondo la volontà di Dio ricercata e riconosciuta attraverso l’esperienza spirituale personale. La sua potente intuizione riguardava un’esperienza forte, in vista soprattutto del discernimento di una scelta di vita, da compiersi una volta nella vita. L’efficacia e la fecondità del suo metodo si tradusse però presto, fin dal 1557, nel desiderio di ripetere quell’esperienza, almeno una settimana all’anno, tanto che s. Carlo Borromeo (1538-1584) impose gli esercizi spirituali annuali per i seminaristi e i sacerdoti. La pratica si diffuse rapidamente e universalmente, tanto che oggi, in tutta la chiesa cattolica, è abituale nel mondo religioso e sempre più comune anche tra i laici.
Una delle definizioni più comprensive della realtà degli Esercizi spirituali nella pratica ecclesiale attuale può essere quella che la FIES annovera nel preambolo del suo statuto: “Una forte esperienza di Dio, suscitata dall’ascolto della sua Parola, compresa e accolta nel proprio vissuto personale, sotto l’azione dello Spirito Santo, la quale, in un clima di silenzio, di preghiera e con la mediazione di una guida spirituale, dona capacità di discernimento in ordine alla purificazione del cuore, alla conversione della vita, alla sequela di Cristo, per il compimento della propria missione nella Chiesa e nel mondo”.
Come riflettere sul valore di questo tempo di grazia? Suggerisco di farlo a partire da alcune connessioni riprese dalla definizione sopra riportata.
La prima: ascolto e silenzio. Dice il salmo: “Ascolterò che cosa dirà in me il Signore Dio” (LXX, Sal 84,8). Da interpretare:
ascolterò darò retta, tratterrò in cuore, metterò in pratica
che cosa dirà parola rivolta al cuore e non solo alla mente
in me non semplicemente a me, ma in me: una parola ascoltata dentro,
da alleato, in intimità
il Signore Dio il Salvatore, il mio Salvatore.
Rabbi Israel di Kosnitz diceva che con ragione i saggi fanno notare come la Torà nel primo salmo sia dapprima chiamata Torà del Signore, poi la sua Torà. Poiché, se l’uomo impara la Torà per amore di essa, allora la Torà gli viene donata e diventa sua ed egli può rivestire i suoi pensieri della sua santità. Ecco, mi sembra questa la dinamica tipica degli Esercizi spirituali.
Allora, perché il silenzio? Gli esercizi spirituali, per parlare in linguaggio sportivo, sono come il ritiro di una squadra per gli allenamenti. Gli allenamenti prima di una gara importante non vertono tanto sugli esercizi che sviluppano una prestanza atletica, ma sull’apprendimento delle tattiche di gioco, sulla definizione di una tattica precisa. Per i nostri esercizi, ecco una buona regola tattica: provare a non pensare mai; parlare sempre, a Dio naturalmente. Trasformare ogni pensiero in tema di conversazione con Dio. Non preoccuparsi di conversare con Dio su qualche tema particolare; l’importante è aprire semplicemente i pensieri a Lui. Si scopriranno un mucchio di cose, se si avrà pazienza. Il movimento risponde alla domanda: cosa siamo disposti a lasciar accadere in questo tempo? Occorre evitare di indirizzare l’attenzione del cuore all’analisi di qualche problema o di qualche situazione interiore, pensando già a una possibile formulazione di qualche buon proposito. Occorre invece lasciarsi sorprendere: l’ascolto della Parola induce proprio a un incontro imprevisto, fecondo di liete conseguenze.
La tradizione ebraica chassidica ha un’interessante definizione dell’uomo pio. Diceva rabbi Bunam di Przyscha che, stando alle fonti medievali, hasid, l’uomo pio, è colui che fa più di quello che la legge richiede. Ora, la legge è questa: non ingannare il tuo prossimo. L’uomo pio va oltre la legge; egli non inganna neppure se stesso.
Fin tanto che non siamo capaci di aprire i nostri pensieri a Dio, come non ingannarci? Come scopriremo quello che è nascosto nel nostro cuore, se non facciamo emergere i pensieri e i desideri che vi stanno celati e non li apriamo a Dio in modo da guardarli senza paura e senza esserne tiranneggiati? L’esperienza di una preghiera prolungata permette una schiusura del genere.
Ora, il silenzio che caratterizza le giornate degli esercizi serve appunto a favorire tale schiusura. Ci permette uno spazio di incontro e di conversazione con Dio nel nostro cuore e ci rende attenti al cuore degli altri. Siamo abituati, non tanto a parlare, ma ad ammonticchiare le parole senza lasciare spazi di risonanza per l’incontro. Se si osserva bene, la chiacchiera, esteriore o interiore, è tesa a evitare l’ascolto e spesso rivela un principio di disperazione, che altro non è se non l’altra faccia della dispersione di sé, dell’evasione da se stessi. Ma allora, nel silenzio, nell’ascolto silenzioso, non ci sarà una goccia di speranza?
Così, l’augurio e la preghiera che rivolgiamo a Dio gli uni per gli altri e che possono costituire come l’aria musicale di sottofondo per il tempo degli esercizi possono essere espressi con le parole degli indiani Hopi che, incontrandosi, si dicono: sta’ attento che la tua testa resti aperta verso l’alto. L’esperienza degli Esercizi è tesa a scollegare i circuiti mentali soliti e ad aprire altri circuiti, per imparare a rapportarci al mistero che ci circonda, ci intesse, ci sovrasta. Il progresso spirituale è da vedere in termini di crescita in percettività spirituale.
La seconda: riposo e rigenerazione. Leggiamo nel vangelo di Marco: “Ed egli disse loro: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”. Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare” (Mc 6,31).
Forse il primo segnale di un vero riposo è dato dal fatto del venir meno di quel senso di importanza che una male intesa responsabilità rispetto alle incombenze e ai doveri quotidiani nasconde. Ci confondiamo spesso con le cose che facciamo, al punto da perdere la percezione della posta in gioco del fare. È vero che ci giochiamo l’eternità con il fare, ma il fare che apre all’eternità ha a che fare con la possibilità di vivere un incontro. Come per il comandamento: non è l’esecuzione materiale del comandamento che dà vita, ma la sua osservanza nell’ispirazione che comporta, cioè quella di acconsentire alla segreta intenzione di Dio di accompagnarsi all’uomo, di condividere la vita con l’uomo. Quando le cose occupano tutto lo spazio, il cuore non riesce più a percepire da dove viene la vita e stempera la dimensione della relazione: non la coltiva più e quindi non si coltiva più, con la conseguenza di appiattirsi e banalizzarsi, di ingolfarsi. Se si stacca dalle cose, il cuore torna a percepirsi da dentro una relazione, ritorna al mistero di quell’intimità che costituisce l’humus di crescita dei desideri e dell’energia.
In particolare, voglio sottolineare che il tempo degli Esercizi è teso a rinnovare le energie del cuore. Non nel senso di ritrovare gli ideali di un tempo, ma nel senso di tornare ai fondamenti del vivere, alle radici del cuore. L’ideale è più una questione di investimento psichico, il fondamento riguarda invece le energie del cuore. L’ideale ha bisogno di entusiasmo, il fondamento di intelligenza spirituale. Accennare alla questione delle radici significa, in altre parole, dare spazio al discorso sulla santità possibile, vale a dire sull’amabilità e la possibilità di vivere in comunione con Dio, nella grazia di una ritrovata fraternità allargata a tutti, secondo la rivelazione e la responsabilità che scaturiscono dal Vangelo, dentro una visione teologica di chiesa come comunione. Se non diventano vere per noi stessi le parole di Paolo: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e famigliari di Dio” (Ef. 2,19), se Dio per noi risulta straniero, riusciremo mai a far sentire a casa sua un fratello nel nostro cuore? Quando si riceve un’afflizione, un’ingiustizia, vera o presunta, come accogliere in pace il fratello se non mi sono mai sentito accolto dalla dolcezza del perdono di Dio per me? A partire da questa esperienza personale con Dio, tipica del tempo degli Esercizi, possiamo sperare di sanare i nostri rapporti con il prossimo e con il mondo.
Così, il riposare per ritrovare energie nuove comporta l’acquisizione di un orizzonte più pacificato.
La terza: preghiera ed esperienza. Se il tempo degli Esercizi riguarda la nostra vita spirituale, ciò significa che induce a coglierne la dinamica precisa. E una sana vita spirituale allude fondamentalmente a tre cose:
1 – alla rivelazione del mistero di Dio: l’attenzione non è posta in riferimento a noi, ma a ciò che ci viene da Dio prima di tutto. È la tensione dell’ascolto e della preghiera.
2 – Se ciò che viene da Dio è la rivelazione del suo desiderio di stare in compagnia degli uomini, a noi è richiesta – e a percepire questo è tesa la preghiera e l’esperienza degli Esercizi! – la collaborazione al sogno di Dio di stare in comunione con gli uomini. Non è in ballo la propria perfezione individuale, ma l’accoglienza della verità del sogno di Dio per il nostro cuore, in Gesù.
3 – Così l’uomo scopre la sua vocazione all’umanità, a quell’umanità che il Cristo ha fatto risplendere con il suo chinarsi a lavare i piedi dei discepoli per manifestare la grandezza dell’amore di Dio di cui siamo chiamati a condividere lo splendore. Se ogni eventuale proposito non scaturisse da qui, il nostro agire non ci abiliterebbe alla bellezza della visione cristiana e non ci farebbe gustare la conoscenza del Signore. Tanto più che, nell’esperienza cristiana, la testimonianza che ci è richiesta come discepoli del Signore, è in funzione di uno splendore, non di un impegno.