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SAE – CONVEGNO DI PRIMAVERA

La luce di Cristo nella spiritualità ortodossa

Verso l’Assemblea ecumenica di Sibiu

Rimini, 24-25 marzo 2007

Pubblicato in “Parola e tempo”, 6/2007, pp. 163-171.


Nel suo diario, pubblicato in russo alla fine del 2005, a oltre vent’anni dalla morte, p. Aleksandr Šmeman[1] si chiedeva: “Che cosa vorrei, ultimamente, spiegarmi? La coesistenza, che non finisce mai di stupirmi, tra la profondissima evidenza della realtà senza cui io non potrei vivere neppure un giorno, e il crescente disgusto per tutti questi interminabili discorsi e discussioni sulla religione, per queste convinzioni a buon mercato, per i sentimentalismi religiosi e una «pratica» che si riduce in fondo a meschini, miseri interessi…” [2].

Il che equivale a domandarsi: di quale parola abbiamo bisogno? Sempre p. Šmeman scrive ancora: “Per questo sono autentiche e necessarie solo le parole che non ci parlano della realtà («discorso»), ma che sono esse stesse realtà: che ne sono simbolo, presenza, epifania, sacramento. La Parola di Dio. La preghiera. L’arte. Un tempo anche la teologia era fra queste parole: non semplicemente delle parole su Dio, ma parole divine, “epifania” [3].

Ritorno alla domanda, riducendo un po’ il tiro: quale parola per i nostri discorsi? Le parole che usiamo discutendo di teologia sono ancora parole ‘teologiche’? La difesa della verità di cui andiamo fieri è ancora una difesa ‘veritiera’? A quali condizioni una parola pronunciata è una parola per la verità, una parola che genera speranza?

All’interno di queste domande vorrei presentare il mio suggerimento di riflessione, proprio partendo dalla tradizione romena, di cui analizzo due testimonianze assolutamente paradigmatiche.

La tradizione esicasta romena.

Chi ha visitato la Romania non può non aver sostato, rapito in stupore e contemplazione, davanti alle pitture sulle pareti esterne delle chiese moldave. In particolare, non può non essersi riempito gli occhi delle rappresentazioni del Giudizio universale, che solitamente occupa l’intera facciata occidentale. Forse, la rappresentazione più famosa è quella della chiesa di san Giorgio del monastero di Voroneţ, dipinta nel 1547, sebbene risulti diversa da quelle, come a Moldoviţa, Probota, Humor, collocate nell’esonartece. A Voroneţ, la parete è cieca, lasciando così tutto lo spazio possibile per una rappresentazione che si può ammirare in tutta la sua grandiosità. Vorrei appuntare la mia attenzione solo su di un particolare: sulla rappresentazione delle nazioni. Tutte le nazioni della terra si riuniscono allo stesso modo. Tutti gli esseri umani si dividono un lungo registro, al centro del quale figura il Trono dell’Etimasia, contornato dalle sagome nimbate dei progenitori prostrati, Adamo ed Eva. Sagome nimbate perché il Giudizio e l’escatologia hanno un significato prima di tutto soteriologico, spazzando via la storia. A sinistra del Trono le nazioni: Ebrei, Turchi, Tatari, Armeni,Latini, Arabi, raggruppati per etnia, con profusione di dettagli nelle fisionomie e nei costumi specifici; a destra i fedeli, raggruppati e caratterizzati a loro volta da vestiti e attributi tipici, suddivisi in profeti, gerarchi, martiri, asceti. Tutti attendono, guidati da Mosè e da s. Paolo, la rivelazione della loro sorte. Se il pittore li ha separati nell’organizzazione spaziale dell’immagine, ciò non attiene alla Parola del Giudizio propriamente detta; questa non dev’essere pronunziata attraverso o nell’immagine. Gli infedeli sono rappresentati altrettanto degnamente dei vescovi. La dannazione è sospinta fuori dal mondo della visibilità e della rivelazione. Ciò che l’immagine indica come distinte sono solo le vie che ciascuno segue fino ai piedi del Trono. Il grande abisso che separa il ricco Epulone, la cui anima assetata resta prigioniera nell’oceano di fiamme, dal povero Lazzaro, addormentato al suono dell’arpa di Davide e accolto da un angelo, non separa ancora le nazioni, non divide la creazione, perché sta al Giudice rendere Giustizia nel gran Giorno della fine. Un unico spazio contiene al tempo stesso il disegno escatologico, che rimane nascosto e la realtà storica rivelata.

Gli storici dell’arte hanno spesso interpretato la rappresentazione delle nazioni in senso ‘realistico’, come una specie di vendetta divina cui i Moldavi votavano i loro nemici, come se il ruolo conferito a quelle pitture esterne consistesse nel portare al cuore del popolo il messaggio di una specie di guerra santa contro i pagani e contro tutti gli eretici. Non si dimentichi che la rappresentazione delle nazioni non compare solo nelle scene del Giudizio ma anche in quelle della Pentecoste. Non solo, ma che in certe icone russe, ad esempio, nella parte riservata alle nazioni, si trova anche la presenza del popolo a cui appartiene il pittore, cioè Russi ortodossi, a riprova del fatto che la rappresentazione delle nazioni ha il valore di una rappresentazione del cammino verso il Giudice di tutti i popoli, che si trova per conseguenza prima del Giudizio[4]. Se ci si riferisce poi alla rappresentazione del Giudizio nell’esonartece, dove la scena sovrasta la porta di ingresso della chiesa, allora il significato soteriologico è ancora più immediato: si tratta della visione di un Giudizio che orienti lo sguardo del fedele alla rivelazione della salvezza che si può gustare partecipando alla liturgia celeste, alla quale tutti sono invitati, entrando appunto nella chiesa.

La visione che sta dietro a queste rappresentazioni non ha nulla a che vedere, nel suo spirito, con il potere secolare e deriva da un ambiente intellettuale e spirituale molto elevato. Lo stesso, che più o meno negli stessi anni, elabora un testo che può essere chiamato una vera testimonianza esicasta in ambito principesco. Alludo al famoso Libro di insegnamento del principe romeno Neagoe Basarab per suo figlio Teodosio, che gli storici della letteratura hanno sempre avuto fatica a collocare per la stretta simbiosi tra una determinata visione spirituale e una ricca testimonianza di impegni di corte e di vita politica del tempo[5].

Mi rifaccio a questo testo perché quando io penso all’esicasmo romeno, penso soprattutto ad un atteggiamento dell’anima che lo contraddistingue. Un aneddoto mi sembra particolarmente espressivo. È riportato dal fratello di p. Galaction, il famoso stareţ di Sihăstria, p. Cleopa, recentemente scomparso:

«Un giorno padre Galaction pose questa domanda a un eremi­ta che aveva incontrato per caso nella foresta: “Ditemi, pa­dre: quando verrà la fine del mondo?” E quel sant’uomo, so­spirando, rispose: “Lo vuoi sapere, padre Galaction? Quan­do non ci sarà più sentiero tra 1’uomo e il suo vicino!”» [6].

Quando gli uomi­ni pretenderanno di vivere dietro steccati egoistici, chiuderan­no i cuori 1’uno nei confronti dell’altro, si scorderanno l’amore, il servizio reciproco, in una parola la “comunione”, la vita si svuo­terà di senso, il mondo sarà giunto alla sua fine. La mirabile espressione dell’anonimo sihastru interpreta a fondo il tratto forse più saliente di un modo di intendere la vita, 1’im­pegno religioso, la cultura, che da sempre ha caratterizzato la spiritualità del popolo romeno lungo la sua storia. Un rapporto molto stretto e naturale lega fra loro monaci e fedeli, tutti respirano lo stesso clima spirituale. La Moldavia, dove si conserva ancora la struttura tradizionale del villaggio di cui il monastero rappresenta come l’appendice naturale e nello stesso tempo il centro vitale unificante, tale simbiosi ha sempre prodotto notevoli frutti culturali e spirituali. Ancora oggi questo fatto costituisce una delle caratteristiche più vistose ed originali della società romena, distinguendosi da questo punto di vista anche dagli altri paesi ortodossi.

Ebbene, la fonte di queste caratteristiche ho pensata di ravvisarla in ciò che quel famoso testo di Neagoe Basarab ha chiamato dulceaţa lui Dumnezeu: «rădăcina bunătăţilor iasti dulceaţa lui Dumnezeu»[7]. Il passo completo suona: «Chi si farà compagno delle virtù divine, questi avrà vita ed esistenza imperitura, poiché la radice della bontà è la dolce intimità con Dio». Dulceaţa dumnezeiască comporta una dimensione, un timbro, che tocca la natura stessa delle terre romene, la spiritualità, la stessa celebrazione liturgica ed il canto, gli uomini. Denota una visione, rivela un’esperienza interiore specifica, quella che è maturata nel clima della tradizione esicasta che ha permeato profondamente lo spazio spirituale dell’oriente, in particolare romeno. Un uomo spirituale riuscito, oserei dire, nella tradizione romena diventa blînd (mite, mansueto, dolce), si riveste di blîndeţe, culmine dell’ascesi e segno di un cuore puro e pieno di amore. Questo tratto è sopravvissuto a tutte le ferite della storia, forse proprio in ragione di una risposta, a livello spirituale, a tali ferite, ieri come oggi.

Se una parola non pesca in quella ‘dulceaţa dumnezeiască’, non rimanda a quella esperienza, non è allusiva di quella realtà, non trascina al desiderio di quella realtà, è ancora una parola ‘teologica’, una parola ‘veritiera’, una parola ‘vera’? E senza questa ‘verità’, i cuori possono intendersi, il mistero di Dio può apparire nella sua bellezza, la chiesa è ancora sacramento di salvezza?

Oppure, in altri termini, la nostra parola è ancora fonte di speranza per il fratello, per l’umanità, per la nostra stessa umanità? Per questo credo che una parola che non derivi di là non possa comunicare nulla di vero perché non si accosta con benevolenza alla realtà, non scorge l’opera di Dio negli uomini e non attende da Lui la salvezza. Invece di mostrare, come nella rappresentazione del Giudizio universale, l’attesa della rivelazione del giudizio nascosto di Dio, verso il quale tutti si rivolgono, precorriamo quel giudizio e usurpiamo la gloria di Dio. Vale sempre il detto del libro del Deuteronomio: “Le cose occulte appartengono al Signore nostro Dio, ma le cose rivelate sono per noi e per i nostri figli, sempre, perché pratichiamo tutte le parole di questa legge” (Dt 29,28).

Allo stesso tipo di riferimento è riconducibile l’enorme impatto che ha avuto nella tradizione orientale, nei tempi moderni, il rinnovamento cosiddetto filocalico. Se si può prendere come simbolo di quel rinnovamento la Filocalia, non ci si può però riferire ad essa come ad un libro sul quale istruirsi ed imparare a pregare. Prima che essere un libro, la Filocalia è stata l’esperienza quotidiana di una comunità di fratelli, con tutta l’efficacia che una realtà vivente comporta. In tal senso la Filocalia, per Paisij[8] (1722-1794) e per i suoi discepoli, non rappresenta soltanto il “deposito” della sapienza di una tradizione, ma il riverbero di un’esperienza sotto gli occhi di tutti, almeno per due generazioni. È questa “vitalità spirituale”, che raccorda la pratica monastica e la vita fraterna sulla centralità della rivelazione cristiana, che consiste in quel “far grazia di Sé a noi in Cristo” (Ef 4,32) da parte di Dio, ad aver prodotto tanti frutti. Tutto l’insegnamento era basato sulle Scritture e sui Padri, letti con amorevole sollecitudine e acribia, ma solo allo scopo di imparare a stare sottomessi l’uno all’altro e crescere nell’intelligenza spirituale del mistero di Dio. E se la pratica della preghiera di Gesù veniva privilegiata, lo era perché quella pratica si raccorda direttamente alla radicalità del mistero della rivelazione cristiana, porta cioè a sperimentare il far grazia di Sé da parte di Dio, in Cristo, al cuore peccatore, sottomesso a tutti. Questa mi sembra, tra l’altro, secondo l’esperienza paisiana, la grazia del monachesimo nella chiesa: ‘fare grazia’ a tutti della rivelazione di questo mistero.

E qui ravviso proprio quella caratteristica a cui sopra accennavo, tipica della tradizione romena e, direi, dell’esperienza romena della tradizione comune: l’uomo spirituale riuscito diventa blînd, si riveste di blîndeţe, culmine dell’ascesi e segno di un cuore puro e pieno di amore, dove tutti vanno a cercare quella dulceaţa dumnezeiască, radice di ogni bontà e fonte di speranza per il faticoso vivere quotidiano. È questo il tessuto connettivo spirituale che lega monachesimo e fedeli, così tipico della Romania e che così “normalmente” ha potuto recepire la fecondità dell’opera paisiana e che può giocare un ruolo di fermento ancora oggi in seno alle chiese ed alle comunità. Se però viene a mancare la consistenza teologico-spirituale, il radicamento nella Tradizione, oppure si indulge ad una visione “ideologica” o “nazionalistica” di quella stessa tradizione, allora quel tipo di tessuto connettivo tende ad assumere un valore di autodifesa, di chiusura difensiva, perché impoverito ormai della sua fecondità. Ad esempio, pur nella stima per lo spirito con cui sono state formulate, trovo deboli le posizioni espresse da p. Stăniloae nel suo Reflexii despre spiritualitatea poporului român, Scrisul Românesc, Craiova 1992. Non si tratta di riservare al popolo romeno l’esclusiva di una misura, di un’armonia spirituale che farebbe difetto ai greci come agli slavi, all’est come all’ovest. Nel mondo spirituale niente è esclusivo di nessuno perché tutto è grazia comune; particolare è solo il timbro dell’esperienza di uno rispetto a un altro, di un popolo rispetto ad un altro, di una tradizione rispetto ad un’altra, in simbiosi reciproca perché il mistero è il medesimo per tutti.

 

Suggerimento di un criterio di discernimento.

Nel dibattito culturale in Romania dopo la rivoluzione del 1989, sono emerse figure interessanti di intellettuali[9] che, sì, risultano filoeuropei, ma consapevoli della ricchezza della tradizione spirituale ortodossa. Uno di questi, Horia Roman Patapievici, ha illustrato un principio ermeneutico interessante. Costruisce una critica serrata alla modernità dalla prospettiva della domanda: cosa si perde quando si guadagna qualcosa? («ce se pierde atunci când ceva se câştigă?»)[10]. Se la modernità ha acquisito, come valori, la ragione, il capitalismo e lo stato liberale, ha però perduto l’Invisibile, la tradizione cristiana, alla fin fine il Signore Vivente e Invisibile che si fa visibile nell’esistenza del mondo, sua creazione. Ritrovo lo stesso principio in campo educativo di fronte ai ragazzi ribelli: «a che cosa obbediscono quando disobbediscono?». E si può applicare in campo ecumenico: «a cosa acconsento quando dissento?». La domanda costringe a riconoscere da dove proviene la mia discussione, a quale atteggiamento interiore fa riferimento, come si nutre il mio pensiero. Se la verità è vita, come dice Gesù di se stesso nel Vangelo (cfr Gv 14,6), così la percezione della verità è vitale, dà vita. Quando però questo non avvviene, nè in me nè negli altri, allora vuol dire che i pensieri sono vuoti, sono vani. Da qualche parte c’è ostruzione alla rivelazione di Dio, non c’è più struggimento per Dio, come direbbe p. Šmeman e non potendo più cogliere Dio in verità, lo si difende contro i fratelli nell’illusione di perseguire una ragione santa. La formulazione di questo principio («a cosa acconsento quando dissento») mi si è formulata ultimamente leggendo un articolo apparso in origine in Synaxis: Orthodox Christian Theology in the 20th Century, Vol. 2, pp 39-56, dal titolo “Una comparazione tra il misticismo di Francesco d’Assisi e quello di San Serafino di Sarov”. Sulla base di quanto meno dubbie argomentazioni storiche e teologiche, si dice che l’esperienza di s. Francesco non possa ritenersi opera dello Spirito e conclude: “Il fatto triste è che il raggiungimento di una vera relazione spirituale con Cristo non fu mai possibile a Francesco, perché essendo al di fuori della Chiesa di Cristo, era impossibile per lui ricevere la Grazia divina, o uno qualsiasi dei doni dello Spirito Santo. I suoi doni provenivano da un altro spirito” [11]. Non è tanto la vacuità dell’argomentazione, quanto il movimento di anima che qui interessa. Non è poi tanto strano arrivare a certe conclusioni, se si danno certe premesse. In gioco è proprio la natura del nostro assenso, la verità del ‘cosa’ e del ‘come’ acconsentiamo. Le argomentazioni sono caduche; convincono oggi e domani non tengono più; spesso si riferiscono a dei modi di pensare e non alla vita di cui sono allusive. Ma ciò di cui dovrebbero parlare le nostre argomentazioni, quello è importante. E parlano del Dio Vivente? Parlano della sete del Dio Vivente? Dell’opera di Dio in atto nella storia, non solo tramite noi, ma anche tramite i fratelli perché a tutti risplenda  lo splendore dell’amore del Signore?

Di questo la teologia è parola. Di tale parola i credenti sono debitori gli uni verso gli altri e tutti insieme verso il mondo. S. Paolo definisce questo compito il ministero della chiesa: “Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. E’ stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione.  Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2Cor 5,18-20).

L’essere testimoni di quel mistero è di per sé così impegnativo e coinvolgente che non c’è bisogno di puntare ad altri obiettivi, che non siano l’attuazione concreta di quel vivere semplicemente il ‘compimento’ del regno di Dio nel fatto stesso di accogliere e camminare insieme, di suscitare e stabilire comunione, ovunque, con chiunque, amici e nemici, senza preclusione alcuna. Si tratta di una responsabilità di respiro ‘cattolico’, che risponde cioè a quella nota di ‘cattolicità’  tipica della Chiesa, come è professata nel Simbolo di fede. La  ‘cattolicità’ (secondo l’accezione greca del termine, καθ᾿ ὅλον, ‘secondo l’insieme’, tanto in estensione di spazio e tempo quanto in profondità ed interezza) è sempre da scoprire, da assumere, da vivere, da testimoniare da parte di tutti e di tutte le Chiese. Dio ha fatto grazia di Sé in Cristo (cfr. Ef 4,32), non a te o a me, ma a te come a me, a voi come a noi, a te perché possa farla scoprire a me, a tutti, vicendevolmente. L’esercizio dell’intelligenza comporta sempre un esercizio di ‘cattolicità’ e viceversa. Il dimenticarsene, permette alle nostre paure o presunzioni di avere il sopravvento. E questo non lede solamente l’intelligenza della fede, ma anche la fraternità ecclesiale e umana e mina la credibilità dell’annuncio del vangelo. Noi spesso dimentichiamo la frase di Gesù quando manda i discepoli ad annunciare il vangelo a tutte le genti (cfr. Mt 28,19). L’annuncio del vangelo non è in funzione semplicemente di un compito ricevuto, come se noi abbiamo ricevuto un qualche cosa e questo qualche cosa noi lo dobbiamo dare agli altri. Credo sia un modo piatto di interpretare la volontà del Signore e anche la storia dell’esperienza cristiana. Quello che dà consistenza a questo compito di evangelizzazione è quello di ritenere che il vangelo appartiene già alle genti; quando io l’annuncio non faccio che rivelare qualche cosa che in realtà appartiene già a chi io lo annuncio. Spessissimo noi interpretiamo la tradizione come la difesa della verità, come ‘prendere un pacco e consegnarlo’. La trasmissione della fede non è affatto questo. Nessuno che trasmette un pacco che riceve potrà arrivare, in qualche modo, a riempire il desiderio dei cuori.

Se il Vangelo è l’eredità delle genti, vuol dire che la ‘cattolicità’ comprende anche il tempo. Anche il futuro fa parte della Tradizione. La nostra responsabilità ‘apostolica’ si estende anche al futuro. Non è forse così terribilmente e tragicamente facile ingombrare la bellezza e la verità evangeliche con l’impedire al futuro di ereditarle per la nostra miopia? Se io sono così miope che per il mio schema mentale impedisco ad un altro, che ha un’altra storia, un’altra cultura, un altro orientamento, di poter accedere al vangelo, a tutto il vangelo, sono un cattivo testimone. Evangelizzare richiede sempre un vero esercizio di intelligenza; si tratta di imparare a mettere le cose al posto giusto, secondo un’armonia globale perché “la salvezza di Dio abbraccia l’universo”. E siccome quest’armonia globale comprende anche il futuro, non c’è motivo di avere paura man mano che sorgono nuovi problemi. In effetti, più ci lasciamo prendere dalla paura e dal timore di fronte ai vari problemi che ci assillano nella nostra vita personale, comunitaria, ecclesiale, meno sapremo fornire speranza all’umanità, nostra e di tutti. Più avremo paura meno saremo testimoni gioiosi di quella speranza, che è dovuta all’umanità! Perché la speranza non viene da noi, ma dal fatto di riferirci a quel mistero di riconciliazione in atto nella storia, che è diventato il centro propulsore del nostro essere e del nostro agire.

Così, un’ascesi del pensare è altrettanto necessaria quanto un’ascesi del volere, ma in funzione evangelizzante. Il lavoro che attende le Chiese è quello di riflettere sul destino della verità in un mondo sempre più pluralista e di rendere amabile ciò che il vero implica, in vista di una fraternità rinnovata segnata dalla grazia della Rivelazione. Ma anche quello di imparare a volere. Più che cercare di ‘volere bene a qualcuno’, dove bene è il complemento oggetto del volere, si dovrebbe imparare a ‘volere bene qualcuno’, dove bene è un avverbio che esprime il modo adeguato di volere che qualcuno o qualcosa siano. Un’ascesi che tenda a generare un nuovo modo di volere in cui l’accento non sia posto tanto sull’affermazione di sé quanto sulla disponibilità a servire ciò che è voluto, ad accompagnarlo al suo destino, servitori e testimoni di un mistero che ci supera e ci racchiude. È la sapienza di una visione, capace di farsi lievito di evangelizzazione per offrire nuova speranza al mondo.

p. Elia Citterio

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[1] Padre Aleksandr Šmeman nasce nel 1921 a Revel’ (l’attuale Tallinn), in una famiglia russa con ascendenti tedeschi, che poco dopo emigra in Francia. A Parigi studia all’Istituto di teologia s. Sergio e nel 1943 sposa Ul’jana Osorgina, appartenente a una famiglia russa tradizionale e molto religiosa. Ordinato sacerdote nel 1946, si trasferisce a New York nel 1951 per insegnare al Seminario teologico san Vladimir, seguendo padre Georgij Florovskij che vi si era recato due anni prima. La sua vita sarà completamente dedicata all’insegnamento e al ministero sacerdotale. Muore il 13 dicembre 1983. In italiano è apparsa La Grande Quaresima. Ascesi e liturgia nella Chiesa ortodossa, Genova 1986, Marietti. L’edizione completa dei suoi Diari è l’edizione di Mosca: Dnevniki, 1973-1983, Moskva 2005, Russkij put, pp. 720. Ma una versione inglese abbreviata era già apparsa per conto dell’editrice St Vladimir Press : Journals of Father Alexander Schmemann, 1973-1983 , a cura della moglie Juliana Schmemann, New York 2000.

[2] Citazione da Aleksandr Šmeman, Diari 1973-1983, in LA NUOVA EUROPA 2006/3, p. 15-16. Nell’edizione del testo russo:  p. 9, lunedì, 19 gennaio 1973.

[3] LA NUOVA EUROPA 2006,/3, p. 22. Nell’edizione del testo russo: p. 22, venerdì, 6 aprile 1973.

[4] Di un’icona del genere, conservata al Museo Nazionale di Stoccolma, parla A. Grabar, La représentation des peuples dans les images du Jugement dernier en Europe orientale, in Byzantion, L, Bruxelles 1980, p. 186-197. Citazione da A. Vasiliu, L’architettura dipinta. Gli affreschi moldavi nel XV e XVI secolo, Milano 1998, Jaca book (Corpus bizantino), p. 250, n. 151. Debbo molte mie osservazioni alle intuizioni di questo testo straordinario.

[5] In romeno vedi Învăţăturile lui Neagoe Basarab către fiul său Theodosie. Texte ales şi stabilit de Florica Moisil şi Dan Zamfirescu, traducerea originalului slavon G. Mihăilă, repere istorico-literare alcătuite în redacţie de Andrei Rusu, Minerva, Bucureşti 1984. In italiano vedi Come vivere e praticare l’esichia. Libro di insegnamento del principe romeno Neagoe Basarab per suo figlio Teodosio. Traduzione, studio introduttivo e note a cura di Adriana Mitescu, Roma 1993, Bulzoni (biblioteca di cultura, 480).

[6] Vedi I. Bălan, Pateric românesc, Institutul biblic, Bucarest 1980, p. 621.

[7] Nell’edizione romena citata, p. 125. In quella italiana, p. 69. Il passo è tratto dal cap. V, “Discorso sul timore e l’amore di Dio”, conservato solo nella stesura romena.

[8] Su di lui si vedano i testi da me curati: Paisij Veličkovskij, Autobiografia di uno starets, Abbazia di Praglia 1988, Scritti monastici (tradotta in francese nella collana «Spiritualité orientale», n. 54, Abbaye de Bellefontaine 1991), ripubblicato presso le ed. Qiqajon, Magnano (BI) 1998; (in romeno: Cuviosul Paise de la Neamt, Autobiografia unui “stareţ”, urmată de Viaţa “stareţului” Paisie scrisa de monahul Mitrofan , a cura di Ioan I. Ică jr., Diesis, Sibiu 1996. Nella seconda edizione, rivista e aggiornata, il titolo suona: Autobiografia şi Vieţile unui stareţ, urmate de Aşezăminte şi alte texte, Sibiu 2002); La scuola filocalica di Paisij Veličkovskij e la Filocalia di Nicodemo Aghiorita. Un confronto,  in  T. Spidlik, K. Ware e Aa.Vv., Amore del bello. Studi sulla Filocalia, Qiqajon, Magnano (BI) 1991, pp. 179-207; La dottrina spirituale dello starets Paisij. Radiografia di una comunità in N. Kauchtschischwili, A.-AI. N. Tachiaos  e  Aa.Vv., Paisij, lo starec. Atti del III Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa “Paisij Veličkovskij e il suo movimento spirituale”, Bose, 20-23 settembre 1995, a cura di A. Mainardi, Qiqajon , Magnano (BI) 1997, p. 97-114.

[9] Si veda Elia Citterio, Natalino Valentini e Iustin Marchiş: La testimonianza e il presente. Chiesa ortodossa romena, «Il Regno» 18/2005, 629-645.

[10] Assai interessante il suo saggio: Omul recent. O critică a modernităţii din perspectiva întrebării „ce se pierde atunci când ceva se câştigă?”, Humanitas, Bucarest 2005 (2001).

[11] L’autore è il defunto George Macris, che al tempo di questo scritto era prete nella Chiesa Ortodossa Russa all’Estero di Portland, Oregon. Synaxis è pubblicato dal New-Ostrog Monastery in Canada. L’articolo l’ho letto dalla pagina Internet http://orthodoxinfo.com/praxis/francis_sarov.htm  a cura dell’Orthodox Christian Information Center.