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Un discorso diretto alle radici e al fondamento dell’esperienza cristiana e della fraternità. Un percorso volto a riscoprire la sapienza che viene dall’alto più che un nuovo entusiasmo per un ideale. Un cuore affascinato da questa sapienza ha preso sul serio il discorso sulla santità. 

Conferenza tenuta a Castelli di Monfumo (TV) presso i Figli della carità (Canossiani) il 30 agosto 2005 da E. Citterio

Testi di riferimento.

Due testi possono far da cornice a quanto verrò dicendo. Ambedue definiscono i credenti in Cristo in rapporto al mistero eucaristico.

Anzitutto, una bellissima espressione di Cirillo di Alessandria a commento del versetto 3 del salmo 86: Di te si dicono cose stupende, città di Dio:

“La Chiesa è una città santa, i cui abitatori ritengo siano coloro che raggiungono la santità per mezzo del pane vivo” [1].

E il passo di Eb 6,4-5:

Quelli infatti che sono stati una volta illuminati, che hanno gustato il dono celeste, sono diventati partecipi dello Spirito Santo e hanno gustato la buona parola di Dio e le meraviglie del mondo futuro…”.

.. tou.j a[pax fwtisqe,ntaj(

geusame,nouj te th/j dwrea/j th/j evpourani,ou

kai. meto,couj genhqe,ntaj pneu,matoj a`gi,ou  

kai. kalo.n geusame,nouj qeou/ r`h/ma

duna,meij te me,llontoj aivw/noj

Secondo l’autore della lettera agli Ebrei i credenti in Cristo sono definiti dunque come :

– gli illuminati (battesimo)

– quelli che hanno gustato il dono celeste (eucaristia)

– sono diventati partecipi dello Spirito Santo

– hanno gustato la buona [bella] parola di Dio e le meraviglie [energie – potenze] del mondo futuro.

Il mistero dell’eucaristia, dal punto di vista della chiesa che la celebra, si colloca al centro della sua azione e della sua tensione, della sua origine come del suo destino. E la ragione risiede nel fatto che con la celebrazione dell’eucaristia, vero punto di convergenza di tutto l’agire della chiesa, viene aperta l’intelligenza delle Scritture e si fa esperienza della presenza del Vivente nella chiesa, intelligenza e esperienza che rimandano al mistero della fraternità. E parlo del ‘mistero dell’eucaristia’ come del ‘mistero della fraternità’ intendendo mistero, non nel senso di un qualcosa di non comprensibile per la mente umana, ma nel senso di una realtà a cui siamo invitati a prendere parte, realtà di cui siamo fatti partecipi.

Qual è la virtù specifica dell’eucaristia, si chiede Agostino?

“La virtù propria di questo nutrimento è quella di produrre l’unità, affinché, ridotti a essere il corpo di Cristo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo”[2].

Premessa.

Parto da una premessa. Trovo che oggi l’esperienza cristiana delle nostre comunità di credenti sia troppo appiattita su un ‘fare’ o sulla preoccupazione di una certa omologazione sociale, del ‘successo’ del fare. Si è come perso il fascino di una visione, di cui occorre ridare l’accesso ai cuori. Penso consista in questo il vero compito di evangelizzazione.

La grande questione è quella delle radici, del fondamento, da non confondersi con quella degli ideali. L’ideale è più una questione di investimento psichico, il fondamento riguarda le energie del cuore. L’ideale ha bisogno di entusiasmo, il fondamento di intelligenza spirituale. E mi sembra che oggi manchi più l’intelligenza spirituale che l’entusiasmo. In altre parole, porre la questione delle radici significa introdurre il discorso sulla santità possibile, sull’amabilità e la possibilità di vivere senza vergogna e senza illusione, in comunione con Dio, nella grazia di una ritrovata fraternità, secondo la rivelazione e la responsabilità che scaturiscono dal Vangelo e di cui l’eucaristia è il fulcro.

Non sembri strano parlare della santità in rapporto alle radici, al fondamento e non in rapporto agli ideali. Le radici hanno a che fare direttamente con la sapienza che affascina il cuore  e la questione urgente è quella di imparare a riappropriarci di una sapienza che viene dall’alto, capace di trasmetterci la rivelazione del volto di Dio e di custodire i nostri cuori. Il mistero dell’eucaristia spalanca la visione sulla sapienza di Dio che ha rivelato il suo segreto agli uomini e li ha resi suoi ‘intimi’. Tanto da far dire a Marco Asceta:

“Quando si ascolta la Scrittura dire di ‘rendere a ciascuno secondo le sue opere’ (Sal 61,13), non si riferisce alle opere meritevoli della geenna o del paradiso, ma delle opere che si riferiscono alla mancanza di fede o alla fede in Lui. Cristo renderà a ciascuno non come esecutore di un contratto che riguarda gli atti, ma come Dio creatore e redentore delle nostre persone”[3].

Vale a dire: saremo giudicati in rapporto alla fiducia che avremo dato all’amore del Signore che ci ha voluti suoi intimi. Il senso della pratica cristiana, alla fin fine, sta tutta qui. E questo è il motivo per cui non c’è opera che ci condanni né che ci assolva. Se comprendessimo la portata di questa verità, saremmo assai più umili e gioiosi[4]. Come a dire: l’azione buona non è l’ultimo obiettivo. Il fare il bene è in vista del conoscere nel senso di quel conoscere esperienziale, di quel conoscere Colui che si ama, di quel conoscere in intimità, in comunione, dal di dentro. Solo qui si ha il superamento di ogni intellettualismo o di ogni spiritualismo. Qui sta la forza del comandamento divino che non è semplicemente una istruzione etica, bensì una partecipazione ad una intimità di vita. Per questo la tradizione, a proposito delle Scritture, non insiste tanto su una comprensione da avere, ma su una potenza da assimilare.

Nella vostra regola, al n. 12, si parla della croce come segno dell’amore di Dio e di Gesù crocifisso, facendo valere il detto: inspice et fac secundum exemplar. Si tratta forse di ‘imitare’ il Signore crocifisso, come se noi potessimo guardare ad un modello da riprodurre? Mi sono richiamato a 1Cor 1,23-24 “noi predichiamo Cristo crocifisso, potenza di Dio e sapienza di Dio”. Senza cogliere quella ‘sapienza’, senza ‘vedere’ lo splendore di quella sapienza, come sarà possibile per il nostro cuore farsi attrarre dalla potenza di Dio che vuole vedere il mondo riconciliato? Perché di questo in effetti si tratta: non di conquistare la grazia, ma di attirarla.

1) L’eucaristia e la questione del tempo.

La celebrazione dell’eucaristia, dicevo, ha a che fare essenzialmente con l’apertura delle Scritture e con l’esperienza del Vivente in mezzo a noi. Due nessi risultano fondamentali: eucaristia e risurrezione, risurrezione e creazione.

 a) Eucaristia e risurrezione.

Molti racconti delle apparizioni del Risorto sono inseriti in un contesto ‘eucaristico’, a sottolineare la solidarietà di esperienza dei discepoli che vedono il Risorto e dei discepoli, cioè noi stessi, che ne percepiscono la presenza viva quando celebrano l’eucaristia. Nel racconto dell’apparizione del risorto ai discepoli di Emmaus è scritto: “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l’un l’altro: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24,31-32)

[Luca 24:30-32  30  kai. evge,neto evn tw/| katakliqh/nai auvto.n metV auvtw/n labw.n to.n a;rton euvlo,ghsen kai. kla,saj evpedi,dou auvtoi/j\  31  auvtw/n de. dihnoi,cqhsan oi` ovfqalmoi. kai. evpe,gnwsan auvto,n\ kai. auvto.j a;fantoj evge,neto avpV auvtw/nÅ  32  kai. ei=pan pro.j avllh,louj( Ouvci. h` kardi,a h`mw/n kaiome,nh h=n Îevn h`mi/nÐ w`j evla,lei h`mi/n evn th/| o`dw/|( w`j dih,noigen h`mi/n ta.j grafa,jÈ].

Evidentemente, la successione dei verbi: ‘prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro’, hanno tutto il sapore di termini tecnici per indicare la celebrazione eucaristica. Il risorto si rivela nella celebrazione eucaristica: è questo il contenuto dell’esperienza della chiesa! E come è valso per i discepoli allora, vale per noi oggi. Come i discepoli hanno potuto vedere il Signore risorto solo dietro l’iniziativa sua di rivelarsi a loro, così nella celebrazione eucaristica sarà solo abbinando ai gesti le sue parole, i ricordi di tutto quello che aveva detto e fatto (sarà la funzione specifica dello Spirito Santo: ‘farà memoria di me’), compare alla vista del nostro cuore e la gioia lo invade. L’episodio dell’apparizione a Tommaso è istruttivo a tal riguardo. Evidentemente, noi non siamo più beati degli apostoli, che oltre ad aver creduto hanno visto. Eppure, Gesù proclama beati quelli che credono senza vedere. La fonte della beatitudine sta nel credere, non nel vedere. Perché il credere apre alla vita come conclude l’evangelista: “perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”. E’ esattamente questa la portata del credere: avere la vita, la stessa vita di e da Colui che appare il Vivente, quella vita che lo Spirito attiva in noi e ci abilita a vivere come corpo unico, Lui capo e noi membra. C’era bisogno che qualcuno ‘vedesse’ perché non si può credere che sulla testimonianza, testimonianza che però per noi ora deriva dal fatto di celebrare insieme la presenza del Vivente nella liturgia eucaristica, perenne conferma dei racconti della risurrezione. Come Tommaso, non possiamo che protestare la nostra incredulità fin tanto che, prostrati, riconosciamo il Signore nella celebrazione eucaristica e nel sacramento della fraternità.

Al ‘vedere’ il Risorto da parte dei discepoli corrisponde, nella celebrazione eucaristica, il ‘credere’ alla sua presenza. Sia il ‘vedere’ che il ‘credere’ sfociano nella gioia, che si dilata nel tempo ormai aperto all’Eterno. La forza della testimonianza si radica qui.

Si racconta che una volta un rabbino in sogno salì al cielo. E quando fu in paradiso gli fu permesso di accedere al tempio dove trascorrevano la loro vita i grandi saggi del Talmud, i Tannaim. Egli s’accorse che essi erano seduti semplicemente attorno a un tavolo e immersi nello studio della Torà. Deluso, il rabbino espresse il suo stupore. “E’ tutto qui, il paradiso?”. Ma, d’improvviso, udì una voce: “Ti sbagli: i Tannaim non sono nel paradiso, è il paradiso che è nei Tannaim”[5].

Quando si celebra l’Eucaristia è come udire il Signore che invita: “Venite a mangiare” (cfr. Gv 21); è rivivere l’esperienza dei discepoli di Emmaus (cfr. Lc 24):“Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?”. Credo sia questo il riconoscimento più rivelatore dell’evento vissuto dai due discepoli di Emmaus, evento che continuamente si ripete e si ripresenta anche per noi nella celebrazione eucaristica. Se non ci arde il cuore all’ascolto della Parola, come riconoscere il Signore presente, fare comunione con Lui, vivere del suo Spirito che ci rende un corpo solo ed un’anima sola? E proprio perché la parola e il segno sacramentale si riferiscono all’apertura del cuore, i due discepoli annotano: ‘non ci ardeva forse il cuore…?’. È in questo ‘ardore’ che si cela il presentimento della ‘presenza’ del Maestro, proprio come lui aveva promesso alla sua chiesa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20), parola conclusiva, sigillo del vangelo di Matteo.

Del resto, tutto il brano va percorso nel movimento che caratterizza il cuore e gli occhi dei discepoli. Se ne vanno da Gerusalemme con il cuore triste e gli occhi sono incapaci di riconoscere il Signore che a loro si accompagna lungo il cammino. Il pellegrino li apostrofa come ‘stolti’ e ‘tardi di cuore’, e proprio per questo hanno gli occhi ‘chiusi’, ‘non vedenti’, impediti a vedere. Poi ‘spiega’ loro le Scritture (v. 27), fatto che nella percezione dei discepoli diventa un ‘aprire’ le Scritture al loro cuore (v. 32: “quando ci spiegava le Scritture”; si tratta dello stesso verbo usato poco prima  per dire che i loro occhi si aprirono. Si dovrebbe rendere, come le traduzioni antiche hanno reso [latino: “et aperiret nobis Scripturas”] con : quando ci apriva le Scritture), con gli occhi ormai ‘schiusi’ (v.  31). Se il cuore arde e gli occhi, di conseguenza, diventano vedenti, si ritorna in cammino, con la gioia e una specie di fretta che il cuore mette ai piedi per il desiderio di condividere ciò che si è visto (“partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme”, v. 33).

La difficoltà deriva per noi da quel che il Pellegrino dice ai discepoli: “Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze …?”. Quel ‘non bisognava che’ esprime tutta la resistenza del nostro cuore ad accogliere l’opera di Dio. Benché il desiderio di Lui sia il desiderio più profondo che portiamo, tuttavia viviamo quel desiderio a livello degli altri desideri lasciandoci impedire dalle nostre attese e dai nostri bisogni a vedere il Suo Volto in verità. Tutte le volte che nella Scrittura o nei Ss. Padri si trova l’espressione ‘è necessario’, ‘si deve’, ‘bisogna’, non si fa allusione ad una specie di norma superiore che sovrasta dall’alto la storia, ma allude più semplicemente al fatto che quel che si sta dicendo non proviene dall’uomo, l’uomo non avrebbe disposto le cose così, l’uomo non può sentire con la ‘pancia’ quelle cose, istintivamente non gli appartengono perché provengono solo da Dio. Solo dopo aver accolto questa provenienza da Dio – e la lettura meditata delle Scritture adempie proprio a questo scopo: abituarci all’agire di Dio e ai pensieri di Dio – i nostri occhi possono vedere. Proprio come nella preghiera del profeta Eliseo per il suo servo: “Signore, apri i suoi occhi; egli veda. Il Signore aprì gli occhi del servo, che vide. Ecco, il monte era pieno di cavalli e di carri di fuoco intorno a Eliseo” (2Re 6,17). L’ardore del cuore è il presentimento di quel che si vedrà, la percezione che il desiderio del nostro cuore sarà compiuto, pur senza sapere come e quando. Una volta che gli occhi si sono schiusi ed hanno visto, il cuore mette fretta ai piedi in due direzioni: una, verso la chiesa, nel senso di vedere confermata e condivisa la propria visione; l’altra, verso il mondo, perché nessuno possa restare privo di quella visione, tanto racconta la verità di Dio e la verità del cuore dell’uomo. In questa comunione condivisa, testimoniata, cercata, donata, accolta, il cuore può riposarsi perché gode lo stesso riposo di Dio: si faccia una sola famiglia, nel regno di Dio. Tutto il mistero della vita è racchiuso in questo movimento.

Si comprende allora perché per i Padri il vero ostacolo alla crescita spirituale sia la ‘insensibilità’, la ‘non permeabilità’ al mistero di Dio. Non sono i nostri peccati ad allontanarci da Dio, ma l’insensibilità che ne consegue, la quale causa lo spegnimento di quel ‘fuoco’ dentro che solo potrebbe farci aprire gli occhi e vedere davvero il Signore e stare nella gioia e collaborare a che questa gioia si compia in tutti e per tutti.

È chiaro che la risurrezione non è una grandezza di questo mondo (i discepoli non riconoscono il loro Maestro risorto se non quando il Maestro stesso prende l’iniziativa di farsi riconoscere), ma si situa al centro del mistero del tempo sia come mistero delle origini che come mistero del destino finale. L’esperienza del Risorto dischiude la grande questione del tempo, al quale è collegata l’esperienza della gioia per l’uomo. Qui si ricollega la possibilità della conversione, perennemente accessibile al cuore dell’uomo. Il problema può essere presentato così: come tenere aperto il nostro tempo alla venuta del Regno? Come poter ‘vedere’ lo splendore della Presenza in un tempo che fluisce e tutto corrompe? Quale accesso a quel ‘tempo di salvezza’ in cui situare la nostra storia personale e gli eventi?[6]

Celebrare l’eucaristia significa prima di tutto aprire il tempo, il tempo della salvezza. Tutto ciò che la tradizione ebraica ha detto del Sabato, può essere riferito, non tanto alla domenica, ma all’eucaristia, che della domenica è la chiave di volta.

Nel documento sulla domenica, il papa Giovanni Paolo II invitava: “Apriamo a Cristo il nostro tempo”. Il Cristo è Colui che conosce il segreto del tempo e Colui che ci consegna il suo giorno.

La domenica di Pasqua si prolunga lungo tutta la settimana che la segue per formare un unico, grande giorno celebrativo. Viene ripreso lungo tutta la settimana il salmo risuonato nella Messa del giorno della Domenica di Pasqua, il salmo 117, vero inno pasquale:

“Celebrate il Signore, perché è buono;

perché eterna è la sua misericordia…

La pietra scartata dai costruttori

è divenuta testata d’angolo;

ecco l’opera del Signore:

una meraviglia ai nostri occhi.

Questo è il giorno fatto dal Signore:

rallegriamoci ed esultiamo in esso

Sei tu il mio Dio e ti rendo grazie,

sei il mio Dio e ti esalto.

Celebrate il Signore, perché è buono:

perché eterna è la sua misericordia” (Sal 117)

La proclamazione: “eterna è la sua misericordia”, nell’affermazione insistentemente ripresa che “questo è il giorno fatto dal Signore” conduce ad una nuova percezione del tempo della nostra storia. Dire che ‘eterna è la sua misericordia’ non vuol significare soltanto che Dio sarà eternamente fedele alla sua misericordia, che la sua misericordia durerà per sempre, ma soprattutto che, essendo la sua misericordia dall’eternità, si trova alle origini del nostro mondo, ne racchiude il senso e il mistero fino alla fine, finché il mondo sussisterà. Così, dire che ‘questo è il giorno del Signore’ non vuol significare soltanto che l’oggi della risurrezione non poteva che essere creato da Dio, ma soprattutto che quel giorno sovrasta e ingloba tutti i giorni dell’uomo, che tutti i nostri giorni procedono e fioriscono in quell’unico giorno eterno che non verrà mai meno. Quando, nel libro dell’Esodo, al cap. 12, con l’istituzione della festa della Pasqua, si dice: “Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno”, si allude allo stesso mistero. Non semplicemente l’inizio temporale dell’anno, ma l’inizio fontale del senso di ogni tempo, dove ogni tempo trova collocazione e compimento e riposo.

Celebrare l’eucaristia e volere che la nostra vita testimoni quanto celebriamo significa radicarla nella potenza della risurrezione, significa aprirla alla promessa della vita, della vita abbondante, che solo possiamo gustare con l’essere associati e solidali a quel Signore Gesù, morto e risorto per noi; significa riconoscere di trovarci dentro quella misericordia che da sempre ci precede e ci attira. Allora non c’è più condanna che tenga, perché ogni condanna inchioda la nostra storia ad un tempo senza Dio, ad un tempo senza senso, vuoto e oppressivo. Ma con la vicenda del Signore, morto e risorto, noi proclamiamo, in attesa che ognuno ne faccia l’esperienza veritiera e feconda, che non esiste tempo ‘significativo’ al di fuori di quell’oggi di Dio.

b) Eucaristia e creazione.

L’apertura del tempo comporta una dilatazione che permette la risalita fino alle origini, all’inizio della creazione e la distensione fino alla parusia, al compimento della creazione.

Nel libro dell’Apocalisse si trova un versetto assai misterioso, almeno in certe traduzioni antiche. Si tratta di Ap 13,8, che la versione CEI rende: “…fin dalla fondazione del mondo nel libro della vita dell’Agnello immolato”. Il testo greco suona:  evn tw/| bibli,w| th/j zwh/j tou/ avrni,ou tou/ evsfagme,nou avpo. katabolh/j ko,smouÅ La Volgata rende: “in libro vitae agni qui occisus est ab origine mundi”. La King James version: “in the book of life of the Lamb slain from the foundation of the world”.

È l’immagine dell’icona della Trinità di Rublev: sulla mensa, nel calice, l’agnello immolato, tema del colloquio eterno tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che sovrasta la creazione del mondo.

Se si unisce quel versetto al versetto di Pro 8, 27.31-32: “quando fissava i cieli, io ero là…ed ero la sua delizia ogni giorno, dilettandomi davanti a lui in ogni istante; dilettandomi sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”, la comprensione della nostra storia acquista una profondità insospettata. Su tutto sovrasta, non semplicemente il Verbo di Dio, ma la figura dell’Agnello Immolato, potenza e sapienza di Dio, testimone glorioso dello splendore dell’amore di Dio per l’uomo.

Nel primo racconto della creazione, nel libro della Genesi, la luce è creata il primo giorno, mentre il sole,la luna e le stelle, fonte della luce che vediamo con gli occhi fisici, sono creati solo il quarto giorno. La cosa ha fatto riflettere gli antichi rabbini, i quali hanno pensato che la luce del primo giorno era la luce della santità di Dio che permetteva di scorgere il mondo con uno sguardo solo. Ma quella luce fu nascosta. Il Messia renderà di nuovo capaci di quello sguardo.

E dopo aver creato tutte le cose, il testo dice: “Il settimo giorno Dio terminò la sua opera”. Ma non era più logico attendersi che avesse terminato la sua opera nel sesto giorno? Gli antichi rabbini hanno concluso evidentemente che vi fu un atto di creazione anche il settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (Cfr Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita nel mondo futuro, vita eterna.

Quando nel salmo si proclama: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce” (sal 23,1-2) si allude proprio alle acque di ‘menuchoth’.

Ma il Signore Gesù non dice ai suoi discepoli: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” ? (Mt 11,28-31). Ristorerò = vi farò riposare; sarò la vostra felicità, pace, riposo. E quella umiltà/mitezza che lo definisce costituisce la cifra della luce della santità di Dio che si riversa sul mondo e che abilita a quello sguardo capace di cogliere il mondo nel suo insieme. E dentro quella mitezza/umiltà è costruita la fraternità, che è l’opera eminente dello Spirito come proclama il canone eucaristico terzo: “E a noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito”.

2) L’eucaristia e il mistero della fraternità.

Considerare l’eucaristia in rapporto al mistero della fraternità significa essenzialmente interrogarsi sulla natura dell’amore. La conseguenza dell’eucaristia è proprio essere uno in Cristo.

Quando Gesù ricorda ai discepoli il comandamento dell’amore dice: “come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi… questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”. Che significato ha quel ‘come’ ? Dice almeno tre cose:

1) allude alla radice dall’alto. E’ Dio che ha dato a noi il suo Figlio, Lui ci ha amati per primo. L’amore scaturisce dal Padre, rivela il suo desiderio di comunione con gli uomini, di cui Gesù è il Testimone ed il Compimento per eccellenza; 

2) si riferisce ad una specifica dinamica, all’orientamento preciso di un movimento che caratterizza l’azione di Dio Padre e del suo Figlio nei confronti degli uomini: il Figlio è stato inviato, ha patito ed è morto e risorto per riunire i figli di Dio dispersi; 

3) rivela una potenza, quella dello Spirito, che indica non solo la forza dell’amore ma anche la condizione in cui si dà l’amore, cioè nello Spirito.

Di questo stesso amore deve essere l’amore dei discepoli. Anzi, se non è così, non sarà possibile amare per davvero. Ciò vuol dire che l’amore deriva in primo luogo dall’esperienza dell’incontro con il Signore, dall’accogliersi perdonato e guarito e non dipende dalle qualità umane; si alimenta con il rimanere in lui, con il tessere continuamente le sue parole con i nostri pensieri, con l’affondare i nostri desideri nella sua promessa di vita per noi. In secondo luogo, l’amore fa vivere dello stesso desiderio di Dio, come lo esprime bene Massimo Confessore: “Scopo della provvidenza divina è unire mediante la retta fede e la carità spirituale quelli che sono stati variamente divisi dal male, se appunto per questo ha patito il Salvatore, per ricondurre all’unità i dispersi figli di Dio (Gv 11,52). Chi dunque non tollera i fastidi né sopporta le avversità né resiste alle afflizioni, cammina fuori della divina carità e dello scopo della provvidenza”; “… chi è pusillanime nelle avversità che gli capitano e per questo diventa cattivo verso quelli che lo rattristano e si separa dall’amore per essi, come non si allontana dallo scopo della provvidenza divina?” (Centurie sulla carità, IV, n. 17 e 18). In terzo luogo, fa vivere dello e nello stesso Spirito di Gesù. Non si può vivere l’amore se non nel mistero di quell’intimità che unisce Padre e Figlio, Figlio e discepoli, discepoli e umanità, intimità che costituisce il vero dono della preghiera. In tal senso non è possibile radicare l’amore nel cuore senza l’esperienza della preghiera. E non per nulla, l’unica richiesta nella preghiera, quella sempre esaudita, è la richiesta dello Spirito Santo (cfr. Lc 11,13), il quale, facendoci vivere in intimità con il Signore Gesù e immettendoci nel movimento del desiderio del Padre che vuole la comunione con gli uomini, costruisce la fraternità, ci rende capaci di vivere come un corpo solo. 

È caratteristico il legame dell’amore con la vita. È intuitivo: l’amore rende la vita degna di essere vissuta perché l’amore dà vita, porta vita. Ma perché questo sia effettivo e duraturo, deve valere anche l’aggiunta: l’amore fa dare la propria vita, come è stato per Gesù. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la propria vita per i propri amici”. Il che non comporta solo il morire per l’altro, ma il mettere a disposizione la propria vita per l’altro di modo che la propria vita diventi per l’altro alimento, calore, rifugio, riposo, senza alcun limite. Mi sembra risieda proprio in questo particolare aspetto la promessa di Dio all’uomo: “se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui”. Come a dire: il venire di Dio ed il suo dimorare nel cuore dell’uomo che osserva la parola di Gesù comporta il renderlo partecipe della sua stessa vita, comporta il metterlo a parte dei suoi segreti e della sua sapienza di vita. E questo Gesù chiama: “perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. La gioia è il frutto più autentico non semplicemente dell’amore, ma dell’amore che si è trasformato in vita piena. I passaggi sarebbero così compresi: Dio dà il suo Figlio per amore dell’uomo, ma Dio ama tutto ciò che si trova nel Figlio e  coloro che si trovano nel Figlio, cioè coloro che sono guidati dal suo stesso Spirito, diventano dimora di Dio, splendore della sua presenza tra noi. Ciò costituisce la gioia di Dio e dell’uomo. A dire il vero l’amore e la gioia sono gli ultimi due passaggi di una serie di quattro, come lucidamente nota Isacco Siro: “A misura della tua umiltà, ti sarà data la capacità di sopportare le tue difficoltà; a misura della tua capacità di sopportare, si alleggerisce il peso della tua anima ed essa è consolata nelle sue afflizioni; a misura della sua consolazione, si accresce il tuo amore per Dio; e a misura del tuo amore, si accresce la tua gioia nello Spirito”. Se davvero questa è la nostra fede, come non darne annunzio a tutto il mondo: “con voce di giubilo date il grande annunzio, fatelo giungere ai confini del mondo: il Signore ha liberato il suo popolo”.

In effetti, avvicinandoci alla mensa eucaristica per ricevere il Corpo del Signore, ci si può chiedere con s. Francesco di Assisi: “Chi riceve il corpo di Cristo?”. “[…] lo Spirito del Signore, che abita nei suoi fedeli, egli stesso riceve il santissimo corpo e sangue del Signore; tutti coloro che non partecipano del medesimo Spirito e presumono accogliere il Signore, mangiano e bevono la loro condanna”(1Cor 11,29)[7].           

Ma se è lo Spirito del Signore che riceve il Corpo del Signore, allora si comprende come non ci si possa accostare all’eucaristia con un cuore diviso dai fratelli perché l’opera eminente dello Spirito è appunto la fraternità.       

Nel suo commento alla preghiera del Padre nostro, proprio alla prima invocazione ‘Padre nostro, che sei nei cieli’, Teodoro di Mopsuestia si domanda chi siano i figli di Dio e lascia rispondere il Signore stesso:

“…è la grazia dello Spirito Santo che avete ricevuta tramite me, grazia che vi è valsa l’adozione a figli. Voi avete la libertà di chiamare Dio Padre…Allora è bene che, prima di ogni altra cosa, sappiate avere comportamenti degni di quella nobiltà, poiché figli di Dio sono quelli che lo Spirito dirige …Devono vivere per mezzo dello Spirito, conformarsi allo Spirito ed avere una coscienza all’altezza della nobiltà di essere coloro che lo Spirito governa, astenersi da ogni azione di peccato ed avere comportamenti degni della vita celeste… Ecco perché non voglio che voi diciate ‘Padre mio’, ma ‘Padre nostro’; il Padre è comune a tutti dal momento che comune è la grazia, da cui abbiamo ottenuto l’adozione filiale. Non è solo al Padre che dovete presentare ciò che è conveniente, ma che anche gli uni verso gli altri abbiate quella concordia che dovete custodire a vicenda, dato che siete fratelli e sotto la mano di uno stesso padre” [8].

I figli di Dio sono dunque quelli che lo Spirito dirige, quelli che lo Spirito di Dio guida e governa, quelli che fanno valere la loro radice dall’alto nella propria condotta. Inevitabile la conseguenza, tremenda, sebbene alla fine consolante, che così stabilisce Cipriano:

“Mentre afferma che è suo padre il Dio che è nei cieli, dichiari anche, come prima affermazione della sua nuova rinascita, che ha rinunciato al padre terreno e corporeo, che conosce un solo padre e che ha iniziato a considerare tale colui che è nei cieli, come è scritto: «Quelli che dicono al padre e alla madre: non ti conosco, e non riconoscono i propri figli, costoro hanno custodito i tuoi insegnamenti e hanno conservato il tuo comandamento»” [9].

Cipriano parla dei nuovi battezzati come bambini piccoli che imparano a parlare, le cui prime parole sono le parole della preghiera del Padre nostro. Allude ai riti dell’apertio e della renunciatio, allorquando, la vigilia del battesimo, al candidato venivano toccati orecchi e bocca perché diventassero capaci di ascoltare e parlare dei misteri di Dio, dopo di che seguiva il rito della rinuncia a satana. Per questo, il ‘padre terreno e corporeo’, che io tradurrei ‘padre terreno secondo la carne’ (terreno et carnali patre) , non allude al padre fisico, ma al diavolo a cui si è rinunciato. Riconoscere il Padre celeste significa allora rinunciare a qualsiasi altra paternità; significa riconoscere che le proprie radici sono unicamente dall’alto[10]. Ciò comporta il fatto di riconoscere che i desideri di verità e di bene dei cuori trovano compimento solo dall’alto. L’affermazione è avvalorata, drammaticamente, dalla citazione del passo di Dt 33,9: “a lui che dice del padre e della madre: Io non li ho visti; che non riconosce i suoi fratelli e ignora i suoi figli. Essi osservarono la tua parola e custodiscono la tua alleanza”, passo che si rifà all’episodio del vitello d’oro quando i figli di Levi, dietro ordine di Mosè, colpirono di spada i loro fratelli (cfr. Es 32,25-29).

Ora, noi che siamo figli di Dio, noi che siamo coloro che lo Spirito del Signore guida, ci possiamo domandare: qual è l’opera precipua dello Spirito Santo? La risposta non è che una: la fraternità realizzata. Tutta la liturgia lo proclama solennemente. Basta leggere i canoni eucaristici, al momento della preghiera di epiclesi: “Ti preghiamo umilmente: per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo”; “e a noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito”[11]. Lo stesso mistero dell’eucaristia indirizza là. Qual è la virtù specifica dell’eucaristia, si chiede Agostino?

“La virtù propria di questo nutrimento è quella di produrre l’unità, affinché, ridotti a essere il corpo di Cristo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo” [12].

In effetti, l’amen che rispondiamo alle parole ‘Corpo di Cristo’ proferite dal sacerdote al momento della comunione significa: sì, riconosco di far parte di quel corpo e accetto di vivere in modo da non ferire mai l’unità di quel corpo. È il mistero della comunione con Dio e tra gli uomini diventato lo scopo supremo dell’agire del cuore, il frutto agognato. Tra l’altro, è per questo che il sacramento del servizio espresso dalla lavanda dei piedi nell’ultima cena non è in funzione di una solidarietà o di una generosità umana, ma in funzione dello splendore del mistero di Cristo, profumo della conoscenza del Cristo. Qui riceve tutta la sua potenza il comandamento dell’amore al prossimo.

Quando, ancora nel Padre nostro, invochiamo “venga il tuo regno”, annota Gregorio di Nissa:

“Lo stesso pensiero ci è spiegato forse più chiaramente da Luca il quale, auspicando che venga il Regno, invoca l’alleanza dello Spirito Santo. Invece di ‘Venga il tuo regno’, dice infatti in un passo del suo Vangelo: «Venga il tuo spirito su di noi e ci purifichi»”[13].

Ci purifichi, vale a dire abiliti il nostro cuore a vivere in tutta la sua estensione, profondità ed intensità la fraternità. Se il nome di Dio rivelato da Gesù è ‘Padre’, ‘Papà’, allora l’azione dello Spirito è la fraternità, che diventa sacramento della paternità di Dio. Quando, nell’invocazione successiva, domandiamo “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra” chiediamo di poter vivere in modo da celebrare il Signore in grande concordia, nell’amore e nella pace, al modo degli angeli in cielo perché là non vi è orgoglio né invidia, ma amore e sincerità vicendevole[14]. Se cielo è la dimora adorante di Dio, terra è tutto ciò che è segnato dal peccato, dalla divisione. I nostri cuori sono ancora terra e noi preghiamo che questa terra finalmente diventi tutto cielo, dove godere della comunione con Dio e con i fratelli in pienezza. Perché il cielo è la dimora di Dio, là dove Dio è adorato e glorificato. Il cielo è il nostro cuore, che diventa dimora di Dio; e segno della sua presenza in noi è appunto la fraternità. Quando s. Paolo (cfr. Col 1,9-12) dice che le opere devono portare il frutto della conoscenza del Signore allude a questo ‘mistero della fraternità’ come rivelazione di Dio perché la conoscenza del Signore è la condivisione del suo segreto, del suo desiderio di comunione con gli uomini.

Tutta l’opera spirituale, l’opera che procede dallo Spirito, è indirizzata a questo.

E anche tutta l’attività del discernimento nel cammino spirituale si risolve in ultima analisi, non a fare il bene, ma ad accogliere la grazia. Ma di quale grazia mai si tratta? Si tratta del suo ‘far grazia di Sé’ a noi, in benevolenza e misericordia, come proclama la lettera agli Efesini: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32); “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo” (ὁ Θεὸς ἐν Χριστῷ ἐχαρίσατο ὑμῖν). Qui è racchiusa tutta l’abbondanza di vita che una rivelazione siffatta promette. La frase di Paolo in effetti continua: “se anche voi perdonerete”, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo, per indicare che, se il segreto di Dio è racchiuso in quella rivelazione, pure il nostro cuore trova in quel segreto le radici dei suoi sogni per sé e per il mondo.

L’unica perfezione desiderabile allora per il cuore, l’unico ideale di santità possibile, è appunto quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di Sé da parte di Dio agli uomini, in Cristo, per la potenza del suo Spirito. Come dice stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera tradizione:

“ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”[15].

La volontà del Padre è vedere l’uomo investito dal suo Spirito, consegnato alla sua misteriosa operazione, quella cioè di compiere quel mistero di riconciliazione rivelato a noi in Cristo. E la santità dell’uomo non si risolve che nella decisione di compiere quel compito, nella risposta a quell’appello che viene dal desiderio di Dio di essere in comunione con gli uomini.          

Se la risposta non è agevole, non è perché il compito è sovrumano, ma più semplicemente perché l’uomo non si rende conto della posta in gioco. Più in particolare, perché non vuole ammettere che la promessa di Dio parla più veracemente al suo cuore dei suoi stessi desideri, che pure dipendono da quella promessa.

Almeno due sono le resistenze che il nostro cuore avanza rispetto al sogno di Dio di vedere gli uomini finalmente riconciliati:

a) Siamo refrattari al riconoscimento del peso specifico del peccato.

La liturgia della sesta domenica del tempo ordinario, ciclo B, abbina il brano della guarigione del lebbroso, raccontato in Mc 1,40-45, al capitolo 13 del Levitico, dove si danno le istruzioni relative alla lebbra: “Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: Immondo! Immondo! Sarà immondo finché avrà la piaga; è immondo, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento” (Lv 13,45-46) e al salmo 31 di cui si ripete il ritornello: “Beato l’uomo a cui è rimessa la colpa e perdonato il peccato … la grazia circonda chi confida nel Signore”. L’equiparazione è evidente: lebbra=peccato. Spesso a noi non sembra che il peccato sia così ‘orribile’, ma questo è il suo destino. La colletta fa pregare: “Risanaci, o Padre, dal peccato che ci divide e dalle discriminazioni che ci avviliscono…”. Dividere e avvilire sono le due caratteristiche della malattia della lebbra. Chi ne era affetto era allontanato dal consorzio degli uomini perché ‘immondo’, capace cioè di contagiare col suo male. Un tale destino non poteva che essere visto come castigo di Dio.

E quando il Signore Gesù si presenta, nella sua passione, come uomo dei dolori, sono le parole del profeta a risuonare, accorate ma tremende: “non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia …” (Is 53,2-3). Sono le parole confacenti a un lebbroso. Il Signore si è addossato i nostri mali fino a portarne tutto l’orrore, come un lebbroso. Noi stentiamo ad averne una chiara percezione. Forse, anche per questo, la compassione di certi santi verso i lebbrosi è stata prepotente. Pensiamo al bacio del lebbroso da parte di s. Francesco d’Assisi, evento che testimonia la rivelazione del volto di Dio al cuore di Francesco.

I peccati nostri hanno lo stesso destino: insidiano la fraternità, irrigidiscono i rapporti, contaminano a tal punto il cuore da renderlo inaccessibile al cuore degli altri, separano ed opprimono, impediscono al Volto di Dio di risplendere. Per questo il peccato è ‘orribile’: rende la vita paurosa e temibile.

La guarigione del lebbroso da parte di Gesù allude alla purificazione del cuore che torna così a far splendere i rapporti di fraternità, di comunione e ridà accesso al mistero di Dio. Gesù guarisce il lebbroso subito dopo la discesa dal monte delle beatitudini, dove con forza aveva proclamato il suo Regno. E le beatitudini sono la rivelazione della fraternità in Dio, quando veniamo guidati dallo Spirito Santo. Guarire dalla lebbra vuol dire ricevere la rivelazione che è giunto a noi il regno di Dio, vuol dire che possiamo tornare a non avere paura di Dio e del prossimo, vuol dire ritornare a vivere in umiltà e mitezza, toccati da Dio.

 b) Non sopportiamo la coscienza del debito.

La parabola del servo spietato ce lo illustra molto bene (cfr. Mt 18,23-35). Il primo servo della parabola, quello che deve al padrone diecimila talenti, allude a ciascuno di noi in rapporto a Dio. Diecimila talenti sono una cifra spropositata, a sottolineare l’insolvibilità del debito, l’assoluta impossibilità della restituzione. Davanti a Dio ognuno si trova in questa condizione, sebbene non sia così evidente la cosa per la nostra coscienza, spesso in preda allo spirito di autogiustificazione, soprattutto perché non riesce a trarre le conseguenze necessarie. È così forte la paura di Dio che, pur avendo coscienza del peccato commesso, si confida più nella propria giustizia che nel perdono umilmente chiesto e ricevuto e quindi non si è disposti a perdonare al proprio fratello dal quale si esige la giustizia a tutti i costi. Non ci si rende conto che l’operazione è impossibile e che risponde solo alle proprie paure nascoste e quindi alla grettezza del proprio cuore.

Il secondo servo, quello che deve al suo compagno cento denari (nel confronto tra i diecimila talenti e i cento denari, si è calcolato che la differenza è di uno a seicentomila!), indica ciascuno di noi in rapporto agli altri. In gioco non è la disistima della giustizia, ma la grettezza di cuore, la giustizia perpetrata in nome di sentimenti ignobili. Di più ancora, in gioco non è semplicemente una questione tra compagni, ma la stessa dignità della conoscenza, dell’esperienza di Dio. Il primo servo è cattivo nei confronti del compagno perché non solo non ricorda quello che lui per primo ha ricevuto, ma soprattutto perché ferisce i sentimenti del padrone e agisce infischiandosene di lui, rinnegando i legami che ha con lui.

Ecco perché il sottofondo di comprensione della parabola è la fede. E se gli apostoli, davanti al comando di perdonare sempre (“Se un tuo fratello pecca, rimproveralo; ma se si pente, perdonagli. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: Mi pento, tu gli perdonerai”), vista l’impossibilità per il cuore umano di metterlo in pratica, non possono che appellarsi a un’altra dimensione del vivere, quello della fede, è perché solo dalla fede può procedere il perdono: “Gli apostoli dissero al Signore: ‘Aumenta la nostra fede!’” (Lc 17, 5-6).

È alla portata dell’uomo perdonare una prima, una seconda, forse anche una terza volta, ma perdonare indefinitamente, sempre, non appartiene al cuore dell’uomo. Eppure il cuore dell’uomo sa e sente che non può riacquistare l’innocenza perduta se non nella riconciliazione, nel perdono offerto e ricevuto, costantemente. Qui si radica l’esperienza di Dio per ogni cuore: ognuno sente che non potrà avere accesso all’Amato se questi non aprirà Lui le porte del Suo cuore; sente che non riuscirà credibile nella sua risposta d’amore, se prima non avrà gustato l’amore del Signore, se proprio Lui non gli avrà riversato in grembo quella tenerezza che non guarda a meriti o a diritti. Se non fosse così ci sentiremmo eternamente condannati alla solitudine. L’unica cosa che ci viene richiesta è la schiettezza, il riconoscimento del nostro peccato, la non giustificazione davanti ai nostri peccati, tutti atteggiamenti che rivelano quanto il nostro cuore non ha più paura di Dio.

Non ci si illuda: il compito del perdonare, del vivere da riconciliati, se da una parte esige la coscienza viva del nostro essere peccatori, dall’altra comporta l’esperienza della confidenza con Dio e quindi si tratta di un compito dall’estensione divina. Ed è per questo che nel perdonare si gioca la sincerità dell’aver incontrato Dio e dell’esserci percepiti solidali con i nostri fratelli. La difficoltà risiede proprio nel fatto che non è così semplice ritenerci peccatori, assillati come siamo dalla paura di venire respinti e che non è così facile non aver più paura di Dio.

C’è però dell’altro. Il discorso sulla fede non finisce qui. Gesù continua: se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe” (Lc 17,6). Il perdono è questione di fede, non di generosità. Il perdono parla di Dio, non di noi. L’esempio del granellino di senapa non vuol suggerire che basta avere una fede tanto piccola quanto un granellino, ma che la fede racchiude la stessa potenza di crescita di un seme, pur minuto. Come un granellino, seminato nella terra, poi cresce e diventa una pianta, così la fede, messa nella terra del nostro cuore, ha tanta potenza da trasfigurare tutto il nostro cuore.

La fede non è che la coscienza dell’alleanza con Dio che ci viene rivelata proprio nel perdono del nostro peccato e nella capacità a vivere in comunione con Lui; il miracolo che si impone al nostro cuore è proprio quello di vivere il perdono al fratello come un segno di quella vita divina di cui siamo diventati partecipi. Ricordiamo la parabola di Luca 13,18-19: “Diceva dunque: ‘A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo rassomiglierò? È simile a un granellino di senapa, che un uomo ha preso e gettato nell’orto; poi è cresciuto e diventato un arbusto, e gli uccelli del cielo si sono posati tra i suoi rami”. Nell’interpretazione dei Padri, gli uccelli che vengono a posarsi tra i suoi rami sono tutti i nostri pensieri che sono attratti e trovano riposo in quella Parola che è stata seminata nel nostro cuore e che alla fine ha inglobato tutto di noi contagiandoci con quell’energia divina, insopprimibile, che racchiudeva. Se volessimo ‘dominare’ i singoli pensieri, uno ad uno, uno dopo l’altro (cioè vincere i peccati, vincere il male che ci assedia) sarebbe fatica vana, inconcludente e finiremmo per chiuderci in un’amara lamentosità.

Il discorso può avanzare ancora di un passo: “Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,10). È incredibile l’estensione del compito richiesto al discepolo del Signore! Eppure, al servo, cioè al discepolo, è richiesta alla fin fine solo una cosa, la schiettezza, la sincerità di cuore e nient’altro. Quanto è facile cadere nella rivendicazione dei nostri diritti, di quel che è giusto, di quel che ci viene, di quello che ci si deve! Atteggiamento più sbagliato non potremmo assumere! La vita non si allea con chi avanza titoli di pretesa. Il Signore nemmeno, per quanto aspetti alle porte del nostro cuore in attesa che impariamo semplicemente a chiedere e non a esigere, semplicemente a dare e non a pretendere, semplicemente a fare e non ad aspettarci che ci venga fatto. Questo sarà possibile quando ci accorgeremo che non vale la pena cercare qualcosa, ma solo Qualcuno, anzi, che Lui ci ha già trovati, è venuto a servirci. Non avremo mai titoli a sufficienza per farci ammirare, ma ci ritroveremo belli solo nella grazia di Lui che ci ama. Essere servi, nell’esperienza evangelica, significa non aver più bisogno di dimostrare nulla, di esibire nulla, di imporci in nulla perché abbiamo trovato quello che il nostro cuore cerca, cioè l’intimità con Colui che ci ha amato e ci muove da dentro ad amare a nostra volta.

Il vero ‘servo’ è proprio Gesù, che nella confidenza più totale con il Padre, serve tutti per conquistare tutti a quella stessa confidenza. La forza del suo amore deriva dalla forza di quella intimità. La stessa cosa vale per noi, suoi discepoli, suoi servi. ‘Inutili’ non perché non facciamo nulla, ma perché, per quanto facciamo, non possiamo meritarci la stima e l’amore del padrone e perché non aggiungiamo nulla alla ricchezza del padrone. Inutili equivale a ‘poveri’, ‘semplici’, ‘semplicemente’ servi e nulla di più, ma il nostro titolo di gloria e di onore sta proprio qui: non voler essere e avere altro che quello che l’amore del Signore ha voluto per noi.

La rettitudine del servizio sta esattamente in questo accogliersi nei confronti del padrone senza perdersi nei confronti con gli altri servi. Quando il profeta proclama: “Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede” (Ab 2,4) vuol dire proprio questo: chi non avanza pretese confida davvero in Dio, non inciamperà nella vita perché non sarà in contesa con gli uomini; l’intimità con Lui lo custodirà nella libertà di un cuore che ormai non ha più bisogno di dimostrare ed esibire nulla perché ha trovato ristoro e diventerà a sua volta fonte di vita per tutti.

Risuona tremenda, e consolante al tempo stesso, l’affermazione di Paolo ai Romani : “tutto quello, infatti, che non viene dalla fede è peccato” (Rom 14,23), affermazione che potrebbe qui essere ripresa a suggello degli stessi insegnamenti di Gesù. Quello che non deriva dalla confidenza in Dio viene dalla paura e se viene dalla paura è la rivendicazione che avanza, rivendicazione che stoppa il cammino della comunione con se stessi, con gli altri, con Dio, con le cose.

“Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio, che rivela al mondo il mistero del tuo amore e la vera dignità dell’uomo; colmaci del tuo Spirito, perché lo annunziamo ai fratelli con la fede e con le opere”

(colletta, domenica XV tempo ordinario, anno B)

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[1] Sull’adorazione in spirito e verità, lib. 3.

[2] S. AGOSTINO, Discorsi, II/1 (51-85), Roma 1982, Città nuova (Opere di sant’Agostino, edizione latino-italiana, parte III: Discorsi, vol. XXX/1), Disc. 57, 7, pp. 171-173. Cfr. anche Discorso 272.

[3] MARC LE MOINE, Traités, I, par Georges-Matthieu de Durand, Paris 1999, cerf (SC 445), La justification par les oeuvres, n. 21. Nella versione italiana del primo volume della Filocalia, ed. Gribaudi, corrisponde al n. 22 (Marco l’Asceta, A proposito di quelli che credono di essere giustificati per le opere, p. 190).

[4] Vale forse la pena di ricordare un passo di un libro di un arguto scrittore inglese, C. S. LEWIS, Il cristianesimo così com’è, Milano 1997, Adelphi, p. 237: “Alla fine, o smetterete di tentare di essere buoni, oppure diventerete una di quelle persone che, come si suol dire, ‘vivono per gli altri’: ma sempre scontente, brontolando, chiedendosi sempre perché gli altri non ne tengano maggior conto, considerandosi sempre dei martiri. E una volta diventati così, sarete per chiunque debba vivere con voi un tormento molto peggiore che se foste rimasti francamente egoisti. La via cristiana è diversa: più difficile, e più facile”.

[5] Cfr. Abraham Joshua HESCHEL, Il sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, Milano 1972, Rusconi, p. 112.

[6] Rispetto al tempo, Dio e l’uomo si muovono su coordinate diverse, si muovono sfasati. Ad esempio: Dio costruisce il futuro, sul futuro; mentre l’uomo è ancorato al passato. Per Dio vale la promessa, realtà che custodisce il futuro, mentre per l’uomo vale l’assicurazione, che segnala la paura del futuro e la ferita del passato. Per Dio vale il principio di alleanza, che precede il passato dell’uomo e lo ingloba, mentre per l’uomo vale il principio del sospetto, la paura del proprio passato con la diffidenza verso il futuro.

[7] Ammonizione I, FF 143.

[8] Les homélies catéchétiques de Théodore de Mopsueste. Reproduction phototypique du ms. Mingana syr. 561. Traduction, introduction, index par Raymond Tonneau et Robert Devreesse, Città del Vaticano 1949, Biblioteca apostolica vaticana (Studi e testi, 145),  hom. XI, pp. 297-299.

[9] CIPRIANO, Trattati. Introduzione, traduzione e note a cura di Antonella Cerretani, Roma 2004, Città nuova (Testi patristici 175), La preghiera del Signore, 9, p. 152.

[10] Si veda l’edizione critica del testo di Cipriano: Saint Cyprien, L’oraison dominicale. Texte, traduction, introduction et notes par Michel Réveillaud, Paris 1964, Presses Universitaires de France, pp. 88 e 173.

[11] Canone eucaristico II e III.

[12] S. AGOSTINO, Discorsi, II/1 (51-85), Roma 1982, Città nuova (Opere di sant’Agostino, edizione latino-italiana, parte III: Discorsi, vol. XXX/1), Disc. 57, 7, pp. 171-173.

[13] S. GREGORIO DI NISSA, La preghiera del Signore. Omelie sul Padre nostro, Roma 1983, Paoline (Letture cristiane delle origini, 12/testi), p.79. La variante citata da Gregorio di Nissa appare effettivamente in alcuni rari codici medievali dei secoli XI e XII.

[14] È lo pseudo-Macario a commentare così l’espressione ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’: “affinché i fratelli vivano insieme in grande concordia, nell’amore e nella pace, al modo degli angeli in cielo; là non vi è orgoglio né invidia, ma amore e sincerità vicendevole….Qualsiasi cosa facciano, devono rimanere nella carità vicendevole e nella gioia”, cfr. PSEUDO-MACARIO, Spirito e fuoco. Omelie spirituali (collezione II), Bose 1995, Qiqajon, Omelia 3, p. 75.

[15] Regola bollata, X, in  FF 104.