MISTERO DI CRISTO, MISTERO DELL’UOMO.
La “questione antropologica” e le radici della fede
(a cura di Vittorio Metalli e Natalino Valentini)
Contributo di p. ELIA CITTERIO:
Se uno è in Cristo è una creatura nuova (2 Cor 5,17).
La sequela di Cristo come compimento dei desideri dell’uomo.
“Al Signore Gesù Cristo ‘nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza’ (Col. 2,3) siano volti tutti i nostri desideri. Procuriamo in ogni modo di custodire le sue parole perché per mezzo del suo Spirito possiamo ricevere il dono della rivelazione del Padre. Sia questo l’anelito del nostro vivere in comune la ricerca di Dio”.
Così inizia la Piccola Regola di vita dei Fratelli Contemplativi di Gesù, per porre subito davanti agli occhi l’unica cosa che può attirare e riempire gli sguardi.
Parafrasando il Padre Nostro, s. Francesco così commenta l’invocazione ‘dacci oggi il nostro pane quotidiano’: “Il nostro pane quotidiano, il tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, dà a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell’amore che egli ebbe per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì”[1].
È tutto il senso del cammino spirituale: crescere nella conoscenza del Signore Gesù Cristo, crescere nella percezione dell’amore che per noi ebbe e patì, crescere nella coscienza di quello che comporta ed esige questo amore, crescere nella solidarietà con questo amore verso tutti gli uomini. Ogni richiesta che innalziamo a Dio, in ultima analisi, non si risolve che in questa: dacci il tuo Figlio diletto; dacci di comprendere, di accogliere, di conoscere, di compatire, di vedere, di stare e di soffrire con, di godere, di amare questo Figlio diletto che per primo amò noi. Fino a poter dire, con Paolo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). E’ il compimento di quella ‘novità’, di quel diventare creatura nuova che risponde ai sogni dell’uomo.
Quando Gesù, alla fine del vangelo di Matteo proclama: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18) si riferisce ad un duplice potere: anzitutto, dalla parte di Dio, al potere di rivelare il vero Volto di Dio, espresso dalle parole di Giovanni che risuonano allora in tutto il loro realismo: “Dio nessuno l`ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18); in tal senso Gesù è il Sigillo della Verità e risponde alla ricerca di verità da parte dell’uomo. Gesù dà la vera conoscenza di Dio. In secondo luogo, dalla parte dell’uomo, si riferisce al potere di compiere i desideri dell’uomo, di soddisfare la sua fame di conoscenza e di relazione in pienezza e verità; in tal senso Gesù è il Sigillo del Bene e risponde al desiderio di vita da parte dell’uomo. Gesù dà la vita.
Così, poter dire ‘Cristo vive in me’, significa riferirsi ad un uomo che realizza la sua vocazione perché gode, sul versante divino, di quella pienezza alla quale agogna e, sul versante umano, di quella umanità senza divisioni di cui ha nostalgia. I sogni dell’uomo si potranno comprendere solo in funzione del fatto che, se il cuore dell’uomo, nelle sue fibre più intime, è fatto ad immagine di Dio, allora ha anche nostalgia dei comportamenti secondo Dio, che Gesù rivela con il suo agire e il suo parlare.
Elementi di antropologia teologica.
Come fondare una tale visione dell’uomo? La tradizione patristica ne suggerisce l’impianto sviluppando la concezione della creazione dell’uomo ‘a immagine e somiglianza’ di Dio, secondo Gen 1,26-27. Tale concezione ha rappresentato per i Padri, greci in particolare[2], il perno della riflessione cristiana sulle origini dell’uomo e ancor più sul significato della sua storia e sulle condizioni del suo destino spirituale. Nella tradizione il tema è stato trattato soprattutto in relazione alla ‘vocazione divina’ dell’uomo, sotto la cui angolatura, che richiama direttamente il mistero del Verbo fatto uomo, si colloca la riflessione patristica intorno all’uomo. Quando Gregorio di Nazianzo definisce l’uomo ‘animale che ha ricevuto la vocazione di diventare dio’ (ζῶον θεούμενον), non misconosce affatto che l’uomo sia ‘animale razionale’ (ζῶον λογικόν) o ‘animale sociale’ (ζῶον πολιτικόν); intende sottolineare che la sua vera grandezza in rapporto a tutti gli altri esseri, la sua specificità di essere umano risiede nel fatto precipuo che è ordinato a diventare dio (θεὸς κεκελευσμένος)[3]. In sintesi si può dire che per i Padri l’uomo realizza la sua esistenza nella misura in cui si eleva verso Dio e si unisce a lui. Qui risiede il fondamento della visione antropologica dei Padri, che illumina d’altronde tutta la loro dottrina spirituale. Ora, tale visione si giustifica solo in relazione al mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio. Per i Padri greci non si tratta tanto di spiegare la persona di Cristo a partire da un’immagine dell’uomo, quanto piuttosto di rivelare all’uomo la sua propria dignità iconica a partire dall’incarnazione del Figlio di Dio. In effetti, il tema dell’immagine e della somiglianza risulta strettamente collegato al tema dell’archetipo. Se siamo ‘a immagine’, significa che siamo stati plasmati sulla base di un modello, di un archetipo. Già Ireneo, proprio commentando Gen 1,26, aveva riflettuto sul rapporto immagine-archetipo, sostenendo che il modello sul quale Adamo era stato creato fosse l’Uomo-Dio. Il passo merita di essere riportato per esteso:
“Ora questo si mostrò vero allorquando il Verbo di Dio si fece uomo, rendendo se stesso simile all’uomo e l’uomo simile a sé, affinché, attraverso la somiglianza con il Figlio, l’uomo divenga prezioso di fronte al Padre. Infatti, nei tempi passati, si diceva bensì che l’uomo è stato fatto ad immagine di Dio, ma non appariva tale, perché era ancora invisibile il Verbo, ad immagine del quale l’uomo era stato fatto: e appunto per questo facilmente perse la somiglianza. Ma quando il Verbo di Dio si fece carne, confermò l’una e l’altra cosa: mostrò veramente l’immagine, divenendo egli stesso ciò che era la sua immagine, e ristabilì saldamente la somiglianza, rendendo l’uomo simile al Padre invisibile attraverso il Verbo che si vede”[4].
Riprendono la sua spiegazione Origene, Atanasio, Gregorio di Nazianzo, Massimo Confessore, tanto che diventa una tesi comune nella tradizione: l’uomo è ad immagine del Verbo incarnato ed è proprio per la mediazione del Verbo incarnato che l’uomo è immagine di Dio. Il consenso globale a questa affermazione non impedisce esplicitazioni divergenti, durante le varie dispute teologiche, a seconda che l’immagine venga concepita come una realtà visibile o invisibile. Tuttavia, le grandi controversie cristologiche aiuteranno a centrare la nozione di immagine sulla persona del Cristo e a meglio farne risaltare l’aspetto soteriologico.
Sintetizzando, possiamo trarne alcune conseguenze. Se l’uomo è creato ‘ad immagine’ di Dio significa in primo luogo che è ‘capace’ di diventare ‘immagine’ di Dio, nel Verbo incarnato, vera “Immagine del Dio invisibile” (Col 1,15). Dire dell’uomo che è stato creato ‘ad immagine’ significa dire che è stato modellato su un prototipo, su un archetipo. E qual è questo archetipo? Certamente non Dio considerato nella sua stessa natura, assolutamente impartecipabile ed inaccessibile alla creatura e nemmeno semplicemente il Verbo, il Figlio coessenziale al Padre, ma il Verbo nella sua incarnazione, che s. Paolo definisce “Immagine del Dio invisibile”. Vuol dire allora che Dio ha creato l’uomo a sua immagine perché potesse contenere poi l’archetipo e in lui passare dalla capacità potenziale al compimento effettivo: dall’essere ‘ad immagine’ diventare ‘immagine’. La natura dell’uomo, cioè, comporta per se stessa la possibilità ed il fine di servire attivamente all’incarnazione del Verbo, il quale è la perfetta ed unica ‘Immagine del Dio invisibile’. Così l’uomo, nel Verbo, può essere elevato anch’egli ad essere ‘immagine’ di Dio e senza di lui non può realizzare questa sua intima vocazione. E a proposito si parla di vocazione dell’uomo all’unione con Dio, nel Verbo, poiché l’essere creato ‘ad immagine’ è nello stesso tempo un dono e un compito. Se costituisce concretamente l’essere dell’uomo nella sua realtà, lo costituisce però soltanto in potenza. Occorre passare, per usare una metafora, dal fidanzamento alle nozze, passare dalla concreta possibilità (essere ad immagine) alla realizzazione compiuta (essere immagine), appartenente in proprio al Verbo incarnato perché in lui l’unione dell’umanità e della divinità è piena ed effettiva. D’altra parte in questo passaggio si gioca tutto il destino dell’uomo, tutto il suo sviluppo spirituale, che resta concepito in termini cristici: progredire significa assumere Cristo, diventare figli nel Figlio. L’essere fatti ad immagine dell’Immagine, che è Cristo, comporta, nel compimento, diventare somiglianti a lui. E’ l’ideale della santità come ‘alter Christus’, come dai contemporanei è stato subito chiamato s. Francesco d’Assisi, che forse rappresenta nella storia del cristianesimo di occidente la figura del santo per eccellenza tanto da affascinare i cuori ben oltre i confini confessionali.
Ora, se la perfezione del mondo si riassume nell’uomo, la perfezione dell’uomo si riassume in Cristo, a gloria del Padre. L’artefice di questo progetto divino è lo Spirito Santo, il quale costituisce l’eredità precipua del Figlio per l’umanità, dopo essere stato assunto in cielo ed essersi seduto alla destra del Padre. Il tempo della Chiesa è il tempo dello Spirito perché la Chiesa è quel corpo di Cristo che sta crescendo con l’incorporazione di tutti i redenti fino alla sua perfetta maturità, nella quale anche il cosmo ritrova il suo significato e la sua destinazione. E’ il ‘misterioso e segreto’ disegno divino di unione tra il Creatore e la creatura, al servizio del quale lo Spirito dispensa le divine energie. La stessa ‘missione’ della Chiesa trova qui il suo significato più denso. In effetti il corollario dell’Ascensione e della Pentecoste è proprio questo: il Signore Gesù vive contemporaneamente alla destra del Padre e con noi, in noi; il mondo è di nuovo unificato, non c’è più separazione tra cielo e terra; la nostra umanità, nello Spirito di Gesù, può finalmente vivere ‘in modo celeste’ perché oramai c’è piena comunione tra cielo e terra. Nelle preghiere[5] sembra si dia l’impressione che ci sia un prima e un dopo, un qui, in terra, oggi e un là, in cielo, domani. In realtà il mistero consiste proprio nel fatto che esiste ormai una continuità perché non c’è più cesura tra cielo e terra, è caduto il muro di separazione tra la terra e il cielo. In Gesù, che ha tolto questo muro di separazione (cfr. Ef 2,14), c’è ormai comunione tra cielo e terra, è là quanto qui ed il cuore può ‘vedere’ questa rivelazione. Di qui scaturisce la gioia dei credenti. La differenza tra cielo e terra oramai riguarda solo la qualità di questa rivelazione, la qualità della partecipazione a tale comunione: ‘cielo’ definisce la pienezza, ‘terra’ la primizia; ‘cielo’ il possesso stabile e imperituro, ‘terra’ l’acquisizione nel tempo e nella fatica. Ma il contenuto è il medesimo e la gioia già piena. E la ‘tensione’ apostolica è identica alla tensione del desiderio di Dio, compiuto da Gesù e comunicato dallo Spirito Santo: si tratta di una gioia che non si dà pace finché tutti, fino agli estremi confini della terra, si trovino a partecipare della stessa comunione, della stessa gioia, eco dell’angoscia santa di Gesù: ‘sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!” (Lc 12,49). La missione alle genti vive proprio degli echi di questo grido che attraversa il mondo e la storia. La missione alla quale lo Spirito Santo abilita i discepoli risponde in effetti alla tensione del desiderio di Dio per l’uomo, finalizzato a realizzare l’unità degli uomini. Ma in un doppio significato: primo, si tratta di una missione di annuncio perché il dono dell’esperienza della fede non riguarda me o te, ma riguarda me per arrivare a te, riguarda te per arrivare a me, riguarda noi per arrivare a tutti. Il Signore Gesù appartiene a tutti gli uomini perché per tutti gli uomini è nato, morto e risorto. Anche in questo va letto il mistero dell’unità dei figli di Dio dispersi che costituisce lo scopo dell’agire di Dio, in Cristo, per mezzo dello Spirito Santo. E secondo, si tratta di una missione che rende capaci di ‘mostrare’ il mistero, cioè che abilita i discepoli a far vedere con la loro vita lo splendore del Cristo, nel quale tutti possono trovare pace e unità.
E ancora, è da qui che si comprende come la salvezza dell’uomo non possa semplicemente consistere in un riscatto dal peccato, ma nel compimento totale del suo essere iniziale. Unendolo con Dio e con tutti i fratelli, il Signore Gesù Cristo restituisce all’uomo il suo vero essere in Dio e lo eleva a ‘nuova creazione’ (cfr. 2 Cor 5,17), cioè alla sua divinizzazione, compiendo così la sua specifica vocazione.
Seguendo la terminologia dei Padri greci, si possono costatare le due corrispondenze costanti: l’incarnazione richiama direttamente la deificazione e la deificazione si traduce nella cristificazione. Se lo scopo dell’incarnazione del Verbo è la deificazione dell’uomo nel mistero di comunione tra natura increata e creata nell’ipostasi del Verbo, allora per l’uomo la deificazione non può che consistere nell’assumere Cristo, nel vivere la sua vita, nel vivere in lui. E come l’incarnazione manifesta l’amore infinito di Dio per l’uomo, in Cristo, così la deificazione rappresenta la risposta d’amore dell’uomo per Dio, in Cristo, con l’assenso alla potenza dello Spirito che porta a compimento la sua vocazione fondamentale. La forza di questa concezione risiede nel fatto che Cristo, Verbo incarnato, è considerato non soltanto nei limiti della storia dell’uomo, che in quanto tale è la storia segnata dal peccato e dal bisogno di redenzione, ma nella sua dimensione eterna, nell’ambito della SS. Trinità, da dove la natura dell’uomo riceve la sua matrice essenziale. Natura e storia si richiamano a vicenda, ma è la natura ad orientare la storia, nel senso che l’uomo realizza la sua ‘natura’ nella storia. Così che è appunto la storia dell’uomo ad essere compresa entro il mistero dell’incarnazione e non viceversa. La prospettiva resta fondamentalmente più ottimista e teologale.
La conclusione che balza evidente è la centralità di Cristo Signore nella definizione cristiana su Dio e sull’uomo. La vita del cristiano non si può comprendere se non in Cristo, percepito come il vero principio dell’essere, il principio unificatore della vita. La costatazione, quasi ovvia per un credente in Cristo, non risulta poi così ovvia quando si cerca di dedurne tutte le conseguenze, perché, in verità, parlare della vita in Cristo significa parlare della santità. E la santità tocca le radici dei cuori. E i sogni dell’uomo si celano in quelle radici. Ne possediamo ancora le chiavi interpretative? O, in altre parole: l’incontro con Cristo Signore può ancora modellare tutto il nostro immaginario interiore? E’ possibile suggerire un percorso che dia ragione della ‘tensione a Cristo’ che i Padri hanno descritto nella loro visione antropologica?
Anche se per accenni, per delineare la vastità dell’impresa mi rifaccio a due opere classiche, ancora capaci di trasportarci in spazi aperti e indurci a specchiarci nel mistero di Cristo. Mi riferisco prima di tutto ad alcuni passi di un’opera classica della tradizione bizantina, all’opera cioè di Nicola Cabasilas (1319/23-post 1397), La vita in Cristo[6]:
“Inoltre chi non sa che Gesù solo ci ha acquistati comprandoci col suo sangue? Perciò non c’è altri a cui dobbiamo servire, per lui solo dobbiamo impiegare noi stessi, corpo e anima, amore, memoria ed energie dell’intelligenza, come dice anche Paolo: Non siete vostri, infatti siete stati comprati a prezzo (1Cor 6,20).
In principio Dio ha creato la natura dell’uomo in vista dell’uomo nuovo (cfr. Ef 2,15; 4,24): mente e desiderio sono stati foggiati in funzione di lui. Per conoscere il Cristo abbiamo ricevuto il pensiero, per correre verso di lui il desiderio, e la memoria per portarlo in noi; perché mentre eravamo plasmati era lui l’archetipo: infatti non il vecchio Adamo è modello del nuovo, ma il nuovo è modello del vecchio. …
Per tutti questi motivi l’uomo tende al Cristo, con la sua natura, con la sua volontà, con i suoi pensieri, non solo per la divinità del Cristo, che è il fine di tutte le cose, ma anche per la sua umanità: nel Cristo l’amore dell’uomo trova riposo, il Cristo è la delizia dei suoi pensieri. Amare o pensare qualunque cosa che non sia lui significa sottrarsi all’unico necessario e deviare dalle tendenze poste originariamente nella nostra natura. …
Si può comprendere quanto è grande il piacere guardando all’oggetto della gioia; necessariamente infatti la gioia corrisponde alla grandezza dell’oggetto da cui nasce. … la facoltà di desiderare infatti è ordinata e predisposta a quell’infinito. Perché, anche se ha dei limiti, essendo commisurata alla natura, nessuna cosa creata le è proporzionata: tutte le sono inferiori, tutte sono inadeguate. Si possono possedere dei beni, ma anche a possederli tutti guardiamo sempre più in là, cercando quel che non abbiamo e non curando le cose che sono sempre a nostra portata. Così il desiderio non cessa, la gioia non è schietta e la potenza di godere dell’anima non è perfettamente attuata. Di qui risulta chiaramente che, se la facoltà di desiderare in sé è finita, è stata ordinata però ad un bene infinito: la natura è circoscritta ma non l’operazione e la tensione … Ora dunque che gioia immensa quando si incontrano entrambi i termini: un bene infinito, senza limite alcuno, e la pienezza di un desiderio infinito!”[7].
Rimando anche ad un’altra opera famosa del cinquecento spagnolo, a Los nombres de Cristo, che fra Luis de Leon[8] (1528-1591) compone nel carcere di Valladolid e pubblica prima in due libri nel 1583 e poi in tre libri nel 1585. Contiene la descrizione dei nomi di Cristo scandagliando quelle Scritture che lui conosceva assai bene ma anche innamorato della umanità del Cristo che presenta come l’oggetto dei desideri dell’uomo. Riesce così a intersecare i percorsi delle Scritture con quelli dei cuori e a rivelare la profondità sia del mistero di Cristo che del mistero dell’uomo. In particolare, con la descrizione dei nomi di ‘padre del secolo futuro’ e di ‘diletto’ riflette sulla nuova creatura che l’uomo diventa in Cristo, centro del desiderio del Padre e di tutte le creature.
Gesù in effetti non è solo il luogo dove i nostri pensieri si possono raccogliere, ma il punto che fa sussistere i nostri pensieri stessi, in quanto ogni pensiero ha Lui per contenuto e a Lui rimanda. Si potrebbe dire che Cristo è il presupposto, la ‘ipo-tesi’, la ‘ipo-stasi’ dei pensieri dell’uomo. E qui si può cogliere il senso di un percorso spirituale e di una tensione contemplativa nella fede. Lottare per il bene contro il male, lottare contro le passioni ed i pensieri a queste collegati non è un fatto di psicologia o di morale. Si tratta essenzialmente di un’altra cosa; si tratta di ridare ai nostri pensieri l’oggetto e il contenuto loro proprio, che è il Cristo. Ritornare in se stessi significa ritornare al luogo della presenza del Signore nel cuore. Combattere allora i pensieri che ci illudono non significa distruggerli, ma trasfigurarli perché in ogni nostro pensiero, anche cattivo, in ogni nostro peccato, di qualsiasi tipo, vi sta come racchiuso un anelito che va liberato perché il cuore torni a vivere profondamente e liberamente. E l’anelito è in diretta dipendenza con la presenza del Signore nel cuore. Padre Staniloae, il maggior teologo ortodosso rumeno, recentemente scomparso, ha una bella espressione relativa all’infinità del cuore umano:”I nostri peccati, le nostre passioni, come possono essere definiti? Sono un attaccamento infinito a ciò che è finito” [9]. Anche in questo il cuore umano ha la percezione netta di desiderare l’infinito. Si tratta di ridare il contenuto infinito a questo attaccamento infinito. E questo è esattamente il lavoro dell’ascesi, questo è essenzialmente ciò che avviene nella preghiera.
I passaggi di un percorso.
Tre sono i passaggi che strutturano la tensione al Cristo dei cuori: la possibilità dell’incontro, l’intimità realizzata, il desiderio compiuto che mai s’acquieta. Sarebbe come un voler suggerire una chiave interpretativa del mistero di Cristo rapportato al cuore dell’uomo.
1) La possibilità dell’incontro: contemporanei del Cristo.
Il racconto del vangelo non si riduce evidentemente ad una cronaca degli avvenimenti, ma nemmeno si presenta come una narrazione apologetica. Introduce una categoria nuova che scaturisce dalla coscienza che quel Gesù, di cui si riportano episodi di vita e parole, è vivo, il Vivente, Colui sul quale la morte non ha più potere, Colui che ha il potere di dare la vita: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Come a dire: il tempo di Gesù ricopre il nostro tempo. Quello che di Lui si narra riguarda anche noi e tutti coloro che verranno dopo di noi. Il possibile lettore del vangelo, nella coscienza dell’evangelista, è così contemporaneo di Gesù nella sua storia personale.
“Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo”: è questa la categoria nuova introdotta; non c’è più un tempo che ci può separare da Gesù. Lui, il suo mistero, le sue parole, i suoi gesti, riguardano contemporaneamente anche noi. Dire ‘tempo compiuto’ non significa solo riferirsi al tempo che precede la venuta di Gesù con tutto quello che comporta quanto all’alleanza di Dio con il suo popolo perché in Gesù, l’Inviato, il Messia, il Figlio prediletto, si compie il segreto di Dio: ‘Dio ha tanto amato gli uomini da mandare il suo Figlio prediletto …’, segreto che copre l’intera storia della creazione e della redenzione. Si riferisce anche al futuro, al tempo che viviamo noi, al tempo che verrà dopo di noi, perché il futuro non può che essere rivelazione al nostro cuore di quello che è avvenuto in quel tempo, ormai punto focale della storia intera. Tutti i momenti della nostra vita sono chiamati ad aprirsi su quell’ “unicum” perché ne possiamo afferrare il mistero ed esserne afferrati. La condizione: “convertitevi e credete al vangelo”. E’ la porta che mette in comunicazione il nostro tempo con quello di Gesù. La conversione è così l’accesso al mistero della nostra storia, al mistero del nostro cuore che in Gesù, Dio fatto uomo, morto e risorto per noi, trova il senso ed il compimento stesso dei suoi desideri più profondi. L’espressione ripetuta nei testi giovannei ‘chi crede è salvato e chi non crede è già condannato’ (cfr. Gv 3,18) si intende: chi si affida a Colui che gli si fa incontro dalla parte di Dio ritrova un’umanità guarita e riscattata. Chi non crede a tale affidamento, ma si arrocca nelle sue paure o nelle sue ideologie, vi resterà impigliato e ne subirà l’oppressione.
La vocazione dei discepoli, figura di ogni vocazione al seguito di Gesù, si può intendere anche in quest’ottica. Seguire il Signore fidandosi della sua promessa e lasciandosi alle spalle tutto il resto è una grande avventura che una vita intera non basta ad esaurire. Lo è stato per Pietro ed Andrea, per Giacomo e Giovanni, per gli apostoli, per i discepoli come lo è per tutti i credenti in Cristo, di tutti i tempi. L’esperienza della sequela vale per la totalità del nostro cuore. Se noi accettiamo di seguire il Signore è perché qualcosa di Lui ci ha affascinato, qualcosa ha parlato al nostro cuore nel senso di percepire di trovare felicità e compimento in ciò che ci chiama a fare, ci chiama ad essere. Impariamo a riceverci dal nostro futuro, perché la chiamata del Signore cela una sua promessa che col tempo si rivelerà. E noi acconsentiamo proprio a questa rivelazione che ci viene dal futuro. Quando Pietro, angosciosamente sbalordito per l’affermazione di Gesù che nessuno si può salvare, in seguito all’episodio del rifiuto del giovane ricco a seguirlo, dirà: “noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”, Gesù risponderà: “In verità vi dico, non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna” (Mc 10,29-30). Rivela che la gioia della scoperta del Maestro, la gioia della scoperta del tesoro che costituisce la sua Persona si moltiplicherà con il passare del tempo. Ma questo è appunto una promessa, non lo scopo da perseguire. Lo scopo da perseguire è Lui, seguire Lui, stare con Lui, fare quello che Lui fa, fare quello che Lui dice di fare; il resto si rivelerà come il contenuto della promessa che Lui costituisce per il nostro cuore. La conversione è la porta che ci garantisce contro questa deriva di confondere la promessa con lo scopo. Tale confusione è fonte di notevoli guai nella vita perché rischiamo, non trovando più quello che ci era stato promesso, di lamentarci della nostra vocazione e, in ultima analisi, di lamentarci col nostro Dio delusi dalla vita. E siccome questo è un rischio sempre incombente, la conversione non è mai operata una volta per tutte. L’avventura degli apostoli ce lo ricorda: quante ‘derive’ possibili, quante riprese e conversioni successive per vivere in tutta la sua densità il mistero dell’incontro con il Salvatore e Maestro, fino a testimoniarlo con il dono della propria vita perché tale mistero possa risplendere anche per altri, fino alla fine della storia.
La conversione dice proprio e soprattutto possibilità di un incontro. Avviene raramente nella vita di fare un incontro che ti cambia totalmente e Giovanni racconta proprio quell’incontro che l’ha trasformato completamente, con una precisione di particolari che sono direttamente proporzionali all’intensità dell’esperienza: “Che cercate?” … “Dove abiti?” … “Venite e vedrete” … “Andarono dunque e videro dove abitava” (Gv 1,35-42). Il racconto, brevissimo, è però molto denso e può costituire la figura di riferimento per quanto andiamo dicendo. Quando Giovanni, nel prologo del suo vangelo, annuncia che il Verbo si è fatto carne, aggiunge subito dopo: “e noi vedemmo la sua gloria” (Gv 1,14). Ha incominciato ad essere afferrato da quella gloria proprio in quel giorno, alle quattro del pomeriggio, quando, sull’invito del suo maestro, il Battista, va da Gesù con Andrea. Non va dimenticato che il verbo greco tradotto con ‘abitare’ è lo stesso verbo che Gesù userà con insistenza nel discorso all’Ultima Cena a proposito della vite e dei tralci quando dirà: “rimanete nel mio amore” (cfr Gv 15). E’ come se Gesù rispondesse ancora alla domanda dei suoi discepoli: “dove abiti?” e dicesse: siete venuti da me, avete visto dove io dimoro (nell’amore del Padre) e così voi, ora, rimanete nel mio stesso amore. E’ a questa esperienza che Giovanni allude quando annota ‘andarono e videro dove abitava’. Il racconto ha il sapore di un’intera vita; ha la potenza, non di un ricordo, ma di una radice, di un principio, di una fonte che continua a sgorgare e che ha sconvolto tutta la sua vita. Non solo, ma la tonalità dell’esperienza si addice all’esperienza della sposa nel Cantico dei Cantici là dove è detto: “Attirami dietro a te, corriamo! M’introduca il re nelle sue stanze: gioiremo e ci rallegreremo per te, ricorderemo le tue tenerezze più del vino” (Cant 1,4). E quando Andrea comunica a suo fratello Simon Pietro la scoperta dice “Abbiamo trovato il Messia”, come a dire: quello che i nostri cuori desiderano, quello che abbiamo sempre sognato, che abbiamo aspettato, è proprio Lui; vieni anche tu! E’ l’inizio dell’apostolato: trasmettere a qualcuno il fascino della gloria del Signore e fare in modo che questo stesso fascino e questa stessa gloria risplendano anche per lui.
È caratteristica la preghiera della Chiesa durante l’Avvento. Si fa insistente perché il Signore Gesù finalmente si manifesti ed è per questo che la chiesa invita a penitenza, intesa come vigilanza, attenzione del cuore al Suo mistero: “fa’ che possiamo vedere il volto del tuo Figlio, fa’ che il nostro cuore sia rapito dalla Sua bellezza, apri il nostro cuore alle Sue parole perché venga rivelato al nostro cuore il Suo amore e possiamo venire risanati, facci fare l’esperienza viva del Suo perdono perché possiamo vivere un corpo solo e un’anima sola con tutti, nel suo Spirito”. Questo chiediamo e questo significa, nella concretezza quotidiana, l’espressione di Paolo: “La testimonianza di Cristo si è infatti stabilita tra voi così saldamente, che nessun dono di grazia più vi manca, mentre aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” (1Cor 1,6-7). Aspettiamo la manifestazione del Signore al nostro cuore in ogni circostanza della nostra vita, in ogni azione e non soltanto alla fine della vita. Come d’altronde aveva profetizzato Isaia: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19). I cieli si sono effettivamente squarciati lasciando ‘piovere il Giusto’, come la scena del Battesimo di Gesù fa intravedere: “In quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, uscendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto” (Mc 1,9-11). Così preghiamo che il Signore si degni squarciare i nostri cuori perché appaia loro, in tutta la Sua bellezza, il volto del Figlio di Dio, testimone supremo dell’amore di Dio per gli uomini.
Sul monte Tabor, con il Signore trasfigurato, si ode ancora la stessa voce risuonata al Battesimo, ma con un’aggiunta: “Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!”. Al Battesimo era Gesù il destinatario primo di quella voce che lo abilitava alla sua missione, ma ora sono i discepoli e difatti viene riportata l’aggiunta ‘ascoltatelo!’, assente nel momento del battesimo. I discepoli ancora non possono sapere tutta l’estensione di quel ‘ascoltatelo!’, fin dove li porterà l’ascoltare il loro Maestro e ancora non possono conoscere tutta la profondità di quell’espressione ‘Figlio mio prediletto’ come poi si rivelerà alle loro coscienze e ai loro occhi con la passione-morte-risurrezione di Gesù e con la testimonianza della loro vita, resa capace di portare quello stesso amore di Dio, visto in Gesù e da lui partecipato, in se stessi e per tutti gli uomini. Così non può che seguire la consegna del silenzio, perché l’evento divino, ancora misterioso al loro cuore, non si trasformi in un motivo di vanto o di confusione.
Al momento del battesimo di Gesù gli astanti sentono solo la voce: “Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto”. E’ la funzione della parola di Dio che dà testimonianza al Figlio, come dirà lo stesso Gesù: “Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza” (Gv 5,39). E la testimonianza sta tutta in quel ‘Figlio prediletto’ da scoprire, da accogliere, da incontrare, da incollarvisi. Ci sono altri due passi nelle Scritture dove si parla di ‘figlio prediletto’: a proposito del figlio di Abramo, Isacco, in Gen 22,2, quando Dio chiede ad Abramo il sacrificio del figlio prediletto; e ancora, nella parabola dei vignaioli assassini, in Mc 12,6, quando il padrone della vigna pensa al suo figlio prediletto da mandare ai vignaioli che non vogliono consegnare il raccolto e che poi lo mettono a morte. Se quell’aggettivo ‘prediletto’ rivela la radicalità della fede di Abramo che davanti al suo Dio accetta di sacrificare il suo cuore, rivela a maggior ragione la radicalità dell’amore di Dio per l’umanità essendo disposto a mandare il suo Figlio a coloro che ne faranno scempio. Ma i pensieri del Signore sovrastano i nostri pensieri …. L’aggiunta “in te mi sono compiaciuto” rivela tutta la profondità del mistero. Si può tradurre: ‘in te il mio Amore è perfetto’, nel senso che tutto l’Amore del Padre è per il Figlio e tutto l’Amore del Figlio è per il Padre. Ma attenzione: ‘in te’, non è più solo rivolto al Figlio nella sua divinità, ma al Figlio, Dio fatto uomo. In quel Figlio, Dio-uomo, l’Amore del Padre è perfetto perché in Lui si può contemplare tutta l’estensione e la profondità di quell’Amore che realizza compiutamente il suo sogno sulla creazione e sull’umanità. Così, in quel ‘perfetto’ è già compreso anche tutto quello che la nostra umanità, unita a quella del Signore Gesù, compirà, secondo il senso di quel che dirà san Paolo: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio presso di voi di realizzare la sua parola, cioè il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi, ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria. È lui infatti che noi annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo con ogni sapienza, per rendere ciascuno perfetto in Cristo. Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Col 1,24-29). Ma si può anche tradurre: ‘in te la mia volontà si compie, perfetta’. E la volontà di Dio non è che l’amore per l’uomo ed in Gesù questo amore risplende nella sua radicalità e totalità. E se noi stiamo in Cristo, allora anche in noi la volontà del Padre si compie, perfetta, perché anche in noi il Suo amore risplenderà. E questo risplendere del suo amore non deriva forse dall’essere mossi e guidati dallo Spirito di cui Gesù è ricolmo e che ci ha effuso nella Pentecoste? Come s. Francesco dice della perfezione o della santità: “ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”[10].
La conversione, porta di accesso all’incontro con il Signore, ha pure un suo volto drammatico. Lo ricorda il profeta Malachia: “… entrerà nel suo tempio il Signore, che voi cercate … Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai”. Se lo leggiamo insieme al salmo 23: “Chi salirà il monte del Signore, chi starà nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non pronunzia menzogna, chi non giura a danno del suo prossimo”, possiamo intendere: chi sta nella menzogna e si fa forte della sua presunzione contro il prossimo come potrà sopportare la venuta del Signore? Come potrà ardire di vedere il Suo volto? E siccome il nostro cuore non è puro, le nostre mani non sono innocenti, dovremo essere purificati dal Signore, che non sopporta la menzogna. Il suo fuoco e la sua lisciva sono le prove, le lotte e le fatiche che nella sua provvidenza ci amministra perché possiamo imparare a far risplendere la sincerità del cuore, a far prevalere il desiderio di Lui su tutto il resto ed allora avverrà quell’incontro che colmerà il cuore, ci rivestirà del suo stesso splendore di gloria, vale a dire di quell’amore che sgorga così dal profondo che non sarà soffocato nemmeno dall’ingiustizia o dai torti subiti. Una volta assaporato quell’incontro, un anelito sempre più potente possiederà il nostro cuore e non si quieterà finché tutta la gloria di quel Volto ci apparirà in tutto il suo splendore. Il cammino della nostra vita è posto tra il desiderio latente di quell’incontro e l’incontro realizzato fino a viverla solo e unicamente in funzione della rivelazione della gloria di quel Volto che misteriosamente parla al cuore[11].
2) L’intimità realizzata: i doni del Cristo.
Di tre doni il Signore dice che, se ce li fa lui, nessuno ce li può rapire. Si tratta del dono della pace, del dono della gioia e del dono della libertà.
Il dono della pace, prima di tutto. “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore” (Gv 14,27). E ancora: “Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Gv 16,33). E soprattutto, dopo la risurrezione, quando compare ai discepoli, sempre li saluta con ‘pace a voi’. La pace è una prerogativa messianica, esprime pienezza e compimento e se un dono viene portato dal Messia, non c’è nemico che possa rapircelo perché proprio questo è l’effetto della venuta del Messia: Dio è con noi, definitivamente, stabilmente. Come dice Paolo: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?” (Rom 8,31). Questa pace costituisce il mistero della benevolenza di Dio nei nostri confronti, mistero che è la Persona stessa di Gesù. In effetti la rivelazione di Dio, che costituisce il grande annuncio della nostra fede, non è che questa: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32). Traducendo più letteralmente il testo greco dovremmo rendere “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo” ( ό Θεὸς ἐν Χριστῷ ἐχαρίσατο ὑμῖν ). Ed in questo far grazia di Sé a noi in Cristo consiste la pace, che riassume anche tutto il senso della missione della chiesa nel mondo. L’ultima strofa dell’inno delle Lodi del Comune degli Apostoli, nel breviario monastico, canta:
Su voi, resi saldi in eterno,
s’edifica e innalza la Chiesa
che eterna, riversa sul mondo
da Dio, come un fiume, la pace.
Quando l’apostolo esorta: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2 Cor 5,20), vuol dire: lasciatevi invadere da questo fiume di pace, lasciate che questo fiume di pace risani i vostri cuori. Ed è esattamente quello che avviene ai cuori quando si lasciano incontrare dal Signore Gesù. Ed è il contenuto della stessa missione della chiesa, il cui senso sta tutto nel favorire la riconciliazione con Dio e con se stessi, con i fratelli, con il mondo, liberando gli spazi del cuore e creando rapporti rinnovati. Senza questa riconciliazione, l’uomo rimane in balia delle sue ossessioni. Così la pace non ha a che fare con un certo star bene con se stessi, bensì risponde al bisogno dei cuori di vivere dentro un’alleanza con la vita che diventa possibile in quella benevolenza divina sperimentata dentro e oltre la propria storia personale, al di là delle ferite e delle rivendicazioni di cui è sofferente la nostra struttura psichica e relazionale. Come se ci riaccogliessimo nuovamente, guariti e restituiti, nella nostra umanità. Il livello spirituale torna ad essere percepito come strutturante le stesse dinamiche psicologiche.
Il dono della pace risponde direttamente alla nostalgia di una relazione profonda che si esplicita nell’anelito all’ innocenza, nel bisogno di accoglienza e nel desiderio di pienezza. Ogni strumento o mezzo di realizzare da parte nostra una pretesa di innocenza (basta pensare al nostro bisogno di difenderci continuamente di fronte a Dio e agli uomini, che i Padri chiamavano spirito di autogiustificazione), di accoglienza (alludo al nostro bisogno di affetto, di benevolenza, avvertiti come un diritto esigito sugli altri) e di pienezza (come se la vita ci dovesse qualcosa) non si risolve in ultima analisi che nella ricerca del potere di piegare cose e persone al nostro fine, fallendo evidentemente lo scopo. L’unico modo che abbiamo di vivere quella nostalgia è di accoglierci perdonati, di vivere riconciliati e di godere perciò di quella pienezza di vita che ci raggiunge solo in quel far grazia di Sé da parte di Dio, a noi, in Cristo.
Il dono della gioia. “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). “Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia” (Gv 16,22-23). “Ma ora io vengo a te e dico queste cose mentre sono ancora nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia” (Gv 17,13).
La gioia è l’effetto più immediato dell’ incontro e più la gioia è profonda più rivela l’intimità raggiunta. La gioia dice implicazione della persona, del soggetto. E se la tendenza alla valorizzazione del soggetto nella nostra cultura è un fatto ricco di conseguenze positive, in pratica spesso si risolve in una specie di relativismo dove il soggetto si sente arbitro non solo dell’agire, ma del suo essere. Si finisce col restare prigionieri della propria soggettività, dilatata all’infinito fino alla vacuità, senza più radici, senza più identità. La conseguenza, per quanto strana possa sembrare, è che il soggetto non è più capace di intimità, non sa più vivere in intimità né con se stesso né con Dio né con gli altri né con le cose. Dove si stempera l’identità non può esserci intimità perché non può più esserci incontro. Ma il desiderio di intimità come della propria identità è costitutivo del nostro essere. Così, alla illusione di una dilatazione interiore fasulla, si accompagna il desiderio di una interiorità autentica che dia ragione delle aspirazioni del nostro cuore e si configuri come un riappropriarsi della totalità del nostro essere. La gioia è l’espressione appunto di questo ‘riappropriarsi’ del nostro essere nella sua totalità, che si sperimenta solo nell’incontrare Qualcuno che ci restituisca a noi stessi.
La gioia è il riverbero dell’amore che ci ha raggiunti, che scioglie le nostre paure, risana il disprezzo che portiamo contro di noi e acquieta le rivendicazioni contro gli altri. Essa produce tutti questi frutti non semplicemente in ragione del fatto che ci sentiamo amati, ma soprattutto in ragione della presenza di colui che ci ama. Per i credenti la solenne assicurazione di Gesù: “sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20), la firma di sigillo dell’intero evangelo, rivela la natura stessa della gioia, che è partecipazione a quella di Gesù, il Vivente. La vita però è anche dramma, come del resto la vita stessa di Gesù: “Ma verranno i giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno” (Mt 9,15). L’espressione contiene l’allusione alla passione e morte di Gesù e il digiuno di cui si parla è il digiuno nel pianto, nel dolore. In effetti, il valore del digiuno è in rapporto al dolore per un’assenza, un digiuno in cui si fa pressante, acuto, pervasivo, il dolore di non trovarLo più, di averLo perso. Proprio come la sposa del Cantico dei cantici tormentata e rasserenata dalla successione delle sparizioni e ritrovamenti dello sposo. Come non essere tormentati quando siamo lontani da quella letizia di comunione con Lui, quando teniamo lontano da quella letizia il prossimo che ci circonda e perciò ne restiamo privi anche noi, quando non cerchiamo quella letizia dentro l’afflizione che ci percuote come ha percosso Lui, quando non continua la memoria della letizia sebbene Lui sia percepito assente?
Il dono della libertà. “Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. Gli risposero: “Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?”. Gesù rispose: “In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre; se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero” (Gv 8,31-36).
Due questioni nevralgiche si intersecano qui: la questione del fare i comandamenti che Gesù assicura portare alla libertà e quella del volere essere liberi, senza baratti, da parte del cuore dell’uomo. La prima questione porta alla scoperta che l’obbedienza è la porta di accesso alla libertà. Perché? Perché la libertà è fondamentalmente per la comunione. E’ una libertà che fa uscire dalla chiusura in cui si aliena l’individuo che si concepisce separato dagli altri per approdare agli spazi sconfinati a cui accede la persona che si concepisce in comunione con gli altri.
La libertà è essenzialmente una libertà ‘liberata’:
- a) una libertà liberata dalla gloria degli uomini, quando viene tolto ogni motivo di separazione con Dio: “Io non ricevo gloria dagli uomini. Ma io vi conosco e so che non avete in voi l’amore di Dio. Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi ricevete; se un altro venisse nel proprio nome, lo ricevereste. E come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?” (Gv 5,41-44). Cercare la gloria gli uni dagli altri significa dipendere, servirsi di. Fare i comandamenti di Dio elimina questa dipendenza, questo potere che fa presa sui cuori degli uomini;
- b) una libertà liberata dall’odio e dalla tristezza, quando viene tolto ogni motivo di separazione con il prossimo. La purità dei cuori, ai quali è promessa la visione di Dio, è proprio quella che non fa più valere alcun motivo di odio e tristezza nei confronti del prossimo[12].
Ora, di Gesù si dice che ha tolto il muro di separazione sia con Dio che tra gli uomini: “Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace” (Ef 2,14-15). Gesù nei vangeli è presentato come un uomo libero, che non guarda in faccia nessuno (“Maestro, sappiamo che sei veritiero e non ti curi di nessuno; infatti non guardi in faccia agli uomini, ma secondo verità insegni la via di Dio”, Mc 12,12), che non cerca la sua gloria da nessuno. Eppure, di lui dice che non fa nulla da se stesso (cfr. Gv 8,28), che sempre compie il volere del Padre (cfr. il cap. 6 di Gv). In lui obbedienza e libertà coincidono perché il suo segreto è l’intimità che vive con il Padre di cui condivide potenza e scopi nell’agire.
Qui si innesta la seconda questione, quella del voler essere liberi da parte del cuore dell’uomo. La forza dell’agire procede non da una volontà di potenza, ma dall’esperienza di una intimità. L’espressione che viene riferita al Signore Gesù: «Ecco, io vengo a fare la tua volontà» (Eb 10,9) allude a un fare che non procede tanto dalla volontà, bensì dalla coscienza e dal vissuto d’intimità col Padre. Vale la stessa dinamica anche per noi. Quando si vive in stato di perenne autodifesa, anche contro se stessi, quando si è incapaci di vivere in intimità e tenerezza, qualità così essenziali all’umanità degli uomini e delle donne e alla verità della stessa esperienza di fede, non possiamo che produrre arroganza o egoismo, surrogati della libertà. Non possiamo più godere di quel ‘segreto’ di cui ci mette a parte Gesù: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15).
3) il desiderio compiuto che mai s’acquieta.
Dall’intimità realizzata scaturisce una responsabilità: quella di diventare i collaboratori di Dio all’opera della riconciliazione in atto nella storia. E’ l’avventura della santità come luogo della rivelazione di Dio in questo mondo. Un uomo santo, vera icona di Dio, ‘in tutto simile a Cristo’ come viene definito nella tradizione bizantina, è la finestra attraverso la quale s’irradia sul mondo la luce di Dio. Luce di trasfigurazione, splendore di un cuore capace di guardare in modo nuovo, luminoso, da dentro la beatitudine evangelica: “beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt 5,8). Ma anche spazi di trasfigurazione, dove non sono più ostruiti i sentieri interiori verso chiunque o qualunque cosa tanto che il mondo può risplendere ancora della primitiva luce di Dio, ormai liberato dai confini angusti e irrigiditi in cui chiudiamo noi stessi ed i nostri fratelli, secondo l’altra beatitudine: “Beati i miti, perché erediteranno la terra” (Mt 5,5). Una santità fondata sulla fede, in funzione cioè dell’intimità di un rapporto e non dell’esercizio di un potere, neanche quello su se stessi, per la propria perfezione.
Portare nel mondo la responsabilità della rivelazione: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32), “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo”, significa vivere riconciliati, fare grazia di sé a tutti in Cristo, perché il mondo risplenda di nuovo della Sua presenza, fino a che Dio sarà tutto in tutti, definitivamente, compiutamente. L’unica perfezione desiderabile è appunto quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di Sé da parte di Dio agli uomini, in Cristo, per la potenza del suo Spirito. Come dice stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera Tradizione, nell’espressione sopra citata : “ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”[13]. La volontà del Padre è vedere l’uomo investito dal suo Spirito, consegnato alla sua misteriosa operazione, quella cioè di compiere quel mistero di riconciliazione rivelato a noi in Cristo. La santità dell’uomo non è che la volontà di compiere quel compito, la risposta a quell’ appello che viene dal desiderio di Dio di essere in comunione con gli uomini.
Se davvero rimaniamo in Cristo, se davvero troviamo in Cristo la radice del nostro vivere, non possiamo volere altro che quell’amore, nella cui operazione siamo rinnovati completamente per la comunicazione del suo Spirito, arrivi fino alle radici del cuore e tocchi tutti, si estenda a tutti, non si dia pace finché tutti possano godere di quello stesso amore. E’ appunto questo il ‘molto frutto’ (cfr. Gv 15) che glorifica il Padre, perché il Padre viene esaltato nel compimento del Suo desiderio di comunione con gli uomini, scopo per cui ha inviato il Figlio, il quale ha effuso lo Spirito Santo ‘per radunare i figli di Dio dispersi’ (Gv 11,52). Gesù porta però il ‘suo’ frutto proprio quando è innalzato sulla croce: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Gesù, attirando tutti a Sé, realizza il desiderio di comunione di Dio con gli uomini. Ma lo stesso frutto viene moltiplicato nei discepoli che, mostrando il loro amore vicendevole a tutti gli uomini, attirano a Cristo che di quell’amore è la causa. Così l’amore al prossimo da parte dei discepoli di Cristo non rivela in primo luogo la loro generosità di uomini, ma la loro fede sincera di discepoli, la loro esperienza del Signore, l’attaccamento al loro Signore, la condivisione di un’intimità di vita e di affetti, nello Spirito, che li rende capaci di vivere un’umanità trasfigurata, tanto da non ricercare altro: “Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?”. Come a dire: chi potrà vincerci? Di che cosa abbiamo ancora bisogno per vivere se facciamo esperienza di questo amore? Che cosa potremo ancora cercare oltre questo amore? Non ci può essere nulla che possa parlare al nostro cuore indipendentemente da questo amore! Come allora non ripetere con s. Paolo: “chi ci separerà dall’amore di Cristo? … Io sono persuaso che né morte né vita … né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore“! (Rom 8,35.39). Qui si rivela in tutta la sua forza e fecondità quell’essere creatura nuova che risulta inattaccabile da ogni veleno di morte, come dice Massimo Confessore:
“Buono per natura è solo Dio; buono per volontà è solo chi è imitatore di Dio: è suo scopo infatti unire a Colui che è buono per natura i cattivi, affinché divengano buoni. Perciò quando è ingiuriato da essi, li benedice; perseguitato, sopporta; oltraggiato, prega; messo a morte, intercede per essi: tutto fa per non perdere lo scopo della carità, che è il nostro Dio stesso”.
“Gli amici di Cristo amano tutti sinceramente, ma non sono amati da tutti; gli amici del mondo invece né amano tutti né sono amati da tutti. E gli amici di Cristo perseverano sino alla fine nel loro amore; quelli del mondo invece finché non si urtino l’un l’altro per le cose del mondo” [14].
Il percorso che ho delineato condensa l’esperienza cristiana in quel “Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi [facendo grazia di voi] a vicenda come Dio ha perdonato [fatto grazia di Sé] a voi in Cristo” (Ef 4,32), come l’unica cosa richiesta all’uomo, per essere gradito davanti a Dio. D’altronde è l’insegnamento del Padre Nostro. Non posso non richiamare una suggestione potente di Massimo Confessore che proprio nel suo commento al Padre nostro, rileggendolo con il risalire dal fondo al principio, ha un’intuizione geniale. Spiegando la richiesta “non ci indurre in tentazione” dà questa interpretazione:
“La Scrittura rivela infatti con questo come chi non ha perfettamente perdonato a chi cade e non ha presentato a Dio un cuore privo di tristezza, reso splendente dalla luce della riconciliazione con il prossimo, non otterrà la grazia dei beni per cui ha pregato, e, per giusto giudizio, sarà consegnato alla tentazione e al Maligno. Imparerà così a purificarsi dalle colpe, eliminando le sue lagnanze contro gli altri… E’ detto infatti: Se voi non rimettete agli uomini i loro peccati, neppure il Padre vostro celeste li rimetterà a voi. Così non soltanto riceveremo il perdono delle colpe commesse, ma, oltre a ciò, vinceremo la legge del peccato, perché non sarà permesso che noi ne facciamo l’esperienza”[15].
Siamo indotti in tentazione, siamo provati dal male e al male fin tanto che non rimettiamo i debiti ai nostri debitori. L’espressione è molto forte. Ci dice che l’uomo, con un giusto giudizio di Dio, sarà messo in balia della tentazione e del maligno al solo scopo di imparare a purificarsi dalle sue colpe sopprimendo il suo atto di accusa agli altri. La cosa è profondamente vera. Se un uomo potesse ritirare fino in fondo il suo dito puntato, ogni atto di accusa contro un altro uomo, non subirebbe alcuna tentazione al male. Non è poi così semplice crederci, ma la cosa resta pur tuttavia profondamente vera. Tutte le nostre esposizioni al male sono soltanto in funzione del fatto che noi impariamo a non accusare mai nessuno. In effetti se guardassimo con sincerità dentro il nostro cuore ci scopriremmo pieni di lamentele contro il prossimo, la vita, Dio e l’universo. Massimo Confessore ci dice che non subiremo tentazioni se noi avremo la capacità, da assimilare poco a poco, di non accusare nessuno perché il cuore sarà mite e umile come quello di Gesù, Lui che era abitato dallo Spirito Santo, e che poteva dire: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero»” (Mt 11,28-30). L’unica porta per noi, per poter accedere al mistero dell’amore di Dio e vivere dentro questo dinamismo d’amore, passa esclusivamente di qui.
Il percorso risulta perciò di questo tipo: sarò liberato dal male e non subirò la prova della tentazione se saprò perdonare perfettamente ai fratelli e lo potrò fare perché nutrito del pane spirituale che mi rende, con Gesù e gli uomini, corpo unico. Allora compirò la volontà del Signore nel vivere perfettamente il mistero della fraternità, che è frutto dello Spirito che ci guida e così sarà santificato il nome di Dio che mi si rivelerà nel suo volto di Padre. Il nostro agire ormai sarà allora rivelazione del Volto di Dio a tutti, finché Dio sia tutto in tutto il nostro cuore e sia tutto nel cuore di tutti. E’ il compimento della preghiera, ma anche del desiderio di comunione con gli uomini da parte di Dio.
La stessa cosa può essere mostrata in immagini, come ama far risaltare il commento al Padre nostro, sempre rileggendolo dal fondo al principio, di Davide d’Augusta (+ 1272), uno dei principali autori spirituali francescani del XIII secolo[16]. Passando in rassegna tutti i possibili atteggiamenti che assume l’anima nella sua ascesa verso il Padre parla di questi atteggiamenti:
– del colpevole che sta davanti a Dio nel timore della dannazione (liberaci dal male)
– dell’assediato dai nemici che supplica il soccorso (non ci indurre in tentazione)
– del servo che ha peccato e supplica il perdono (rimetti a noi i nostri debiti…)
– del povero e mendico che chiede il pane di una grazia più abbondante (dacci oggi il nostro pane quotidiano)
– del figlio che cerca di obbedire in tutto e di piacere al padre (sia fatta la tua volontà…)
– della sposa che desidera stare e riposarsi nel suo diletto (venga il tuo regno)
– dell’inebriato dallo Spirito, dimentico di se stesso e tutto dedito a Dio, intercessore per tutti (sia santificato il tuo nome)
– perché, rivestiti della sua santità, quali veri figli ci conformiamo al Padre e diventiamo con Lui una cosa sola, trasformati nella sua immagine (cfr. 2 Cor 3,18).
È l’esito finale: essere ritrovati nel Figlio, passando dall’essere ‘ad immagine’ all’essere ‘immagine’ sua, secondo quella nuova creazione che ci ha fatto nascere dall’alto portando a compimento la nostra umanità nelle sue aspirazioni più segrete.
p. ELIA CITTERIO
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[1] FF 271
[2] Si veda, per esempio, la bella sintesi di Jean KIRCHMEYER, Grecque (Eglise), DS 6 (1966), coll. 808-872.
[3] L’espressione ‘θεὸς κεκελευσμένος’ è di Basilio Magno, riportata da Gregorio di Nazianzo, In laudem Basilii Magni, hom. 43, 48 (PG 36,560). L’altra espressione ‘ζῶον θεούμενον’ è di Gregorio di Nazianzo, In sanctum Pascha, hom. 45, 7 (PG 36,650). Si veda GREGORIO DI NAZIANZO, Tutte le orazioni. Traduzione italiana con testo a fronte, a cura di Claudio Moreschini, Milano 2000, Bompiani (il pensiero occidentale), rispettivamente alle pagg. 1083 e 1143.
[4] IRENEO DI LIONE, Contro le eresie e altri scritti, a cura di E. Bellini, Milano 1981, p. 442 (V, 16, 2).
[5] Ad esempio, la colletta della festa dell’Ascensione: ” … poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro capo, nella gloria”.
[6] N. CABASILAS, La vita in Cristo, a cura di Umberto Neri, Torino 1971, ed. UTET (classici delle religioni). Segnalo su Cabasilas lo studio di Panayotis NELLAS, Voi siete dèi. Antropologia dei Padri della Chiesa, Roma 1993, ed. Città Nuova (collana di teologia,24), pp. 130-173. E per una messa a punto critica ed esaustiva sul nostro autore, si veda Yannis Spiteris-Carmelo Giuseppe Conticello, “Nicola Cabasilas Chamaetos”, in La théologie byzantine et sa tradition, vol. II (XIII-XIX s.), a cura di Carmelo Giuseppe e Vassa Conticello, Turnhout 2002, ed. Brepols (Corpus christianorum), p. 315-410.
[7] La vita in Cristo, lib. VI, cap. X; lib. VII, cap. IV, passim.
[8] Los nombres de Cristo si trova nelle opere in castigliano di Fray LUIS DE LEON : Obras completas castellanas, vol. I, El cantar de los cantares. La perfecta casada. Los nombres de Cristo. Escritos varios, Madrid 1957, La editorial catolica ( BAC 3), p.397-825.
[9] Si veda la trattazione sulle passioni nella parte prima del suo Ascetica şi mistica ortodoxă, vol. I, Ascetica, Alba Iulia 1993, ed. Deisis, in particolare le pagg. 67-87.
[10] Regola bollata, X, in FF 104.
[11] E’ suggestiva la rassegna iconografica e la varietà dei commenti nella prestigiosa opera in sei volumi, a cura dell’Istituto internazionale di ricerca sul volto di Cristo, dal titolo Il volto dei volti, Cristo, Bergamo 2000-2002, ed. VELAR.
[12] Cfr. i Capitoli sulla carità di Massimo Confessore, Cent. IV, 16.17.18.19.24.
[13] Regola bollata, X, in FF 104.
[14] Centurie sulla carità, IV, 90 e 98, in MASSIMO CONFESSORE, Capitoli sulla carità, editi criticamente con introd., versione e note da Aldo Ceresa-Gastaldo, Roma 1963, ed. Studium (Verba seniorum, N.S. 3), p.235, 239.
[15] Vedi Massimo Confessore, Sul Padre nostro, in La Filocalia, vol. II, Torino 1983, Gribaudi, p.310-311.
[16] Vedi il suo De exterioris et interioris hominis compositione secundum triplicem statum incipientium, proficientium et perfectorum, in Dizionario francescano, I mistici. Scritti dei Mistici francescani, secolo XIII, vol. I, Milano 1995, ed. francescane, p. 190-195.