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La santità cristiana non fa più sognare. Radicamento contemplativo, lo spazio interiore in cui muoversi e alcuni suggerimenti come testimonianza di una piccola comunità. 

Convegno del 13-19 luglio 2003 a Capiago (CO): “La vita consacrata a quarant’anni dal Concilio. Un ritorno al Vangelo?”. Intervento di E. Citterio.

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A me è stato chiesto di trattare l’argomento a partire dalla nostra esperienza di vita. La nostra minuscola comunità, di tipo monastico, denominata Fratelli Contemplativi di Gesù, è sorta una trentina di anni fa sulla scia del rinnovamento portato dal Concilio Vaticano II, che ha permesso alla coscienza ecclesiale un recupero di autenticità e di apertura insieme[1]. Questo mi esime dal ripercorrere la storia della VC nel tentativo di dare un contesto dottrinale e teologico al nostro assunto: effettivamente la vita consacrata, in tutte le sue forme, nella chiesa, ha sempre comportato un ‘magistero’ spirituale, vale a dire ha offerto alla chiesa il dono di quel ‘supplemento’ d’anima all’esperienza cristiana lasciando presagire la potenza dello Spirito che lavora i cuori aprendoli al regno di Dio e aprendo il regno di Dio ai cuori. Tengo a sottolineare fin dall’inizio che la distinzione tra ‘vita monastica’ e ‘vita nel mondo’,  tra ‘vita religiosa’ e ‘vita laica’ è del tutto relativa rispetto all’unica cosa fondamentale, cioè la vocazione alla santità[2].   Vale il principio di omogeneità. Nella nostra tradizione latina parliamo, rispetto alla vita religiosa, di ‘consigli evangelici’. Nelle fonti orientali, invece, non si trova mai l’espressione ‘consigli evangelici’; si trova sempre l’espressione ‘comandamenti evangelici’, ‘comandamenti del Signore’, valevoli per tutti e che, evidentemente, ciascuno è chiamato a vivere nel proprio stato di vita. Ma i comandamenti del Signore valgono per tutti. E’ lo stesso principio della vocazione alla santità, cioè il seguire il Signore fino in fondo: vale per tutti.

Dire ‘magistero spirituale’ significa alludere alla possibilità concreta di una ‘santità’ che parli ai cuori, che riverberi lo splendore della presenza di Dio vicino al suo popolo. Ma la costatazione di fondo che si rileva guardando oggi in generale l’esperienza e la pratica cristiana nella chiesa sembra questa: la santità non fa più sognare. Oserei dire: la santità cristiana non fa più sognare. E’ possibile rispondere affermativamente, senza barare, alla domanda se ci sia davvero ancora qualcosa che ci fa ardere il cuore come ai discepoli sulla via di Emmaus?

Nel 1946 la rivista Vie Spirituelle  pubblicava i risultati di un’inchiesta sul tema: “Verso quale tipo di santità stiamo andando?”. Si era all’indomani della guerra. Le risposte, in un linguaggio che non aveva nulla dell’oleografia a cui avevano abituato i libri di vita spirituale, spostavano l’accento da un tipo di santità straordinaria, riservata ad una piccola élite mentre la massa del popolo cristiano si limitava a conformarsi a un ideale morale, riflettente la gerarchia tradizionale degli ‘stati di perfezione’ a un tipo di santità ordinario, appartenente alla normalità della vita con tutte le sue implicazioni, aperto a tutti e rispondente alle aspirazioni dei cuori di fronte ai tormenti e alle sfide della storia. Il Concilio Vaticano II, con il cap. V della Lumen Gentium, consacrava come acquisito in modo nuovo alla coscienza ecclesiale il dato tradizionale della universale vocazione alla santità nella chiesa. Paradossalmente, negli anni successivi, si registrava nettissimo il declino del culto dei santi a favore, giustamente, della centralità della Parola di Dio e della figura di Cristo, ma con la conseguenza o, forse meglio, la concomitanza, della messa in sordina dello stesso ideale di santità, come se la possibilità dell’esperienza stessa di Dio, tratto peculiare della santità, non fosse più percepito come costitutivo dell’essere cristiani e dell’essere chiesa. La VC nel suo insieme lo registrava in modo marcato. E quello che si può dire riferito all’ideale di santità lo si può estendere alla VC nel suo insieme.

Sembra che le immagini tradizionali di santità che agiscono come clichés mentali non interessino più le energie vive della coscienza moderna, che si direbbe alimentarsi altrove. Ho provato ad interrogarmi e ad interrogare le persone più diverse su chi sia un santo o su come ce lo si immagina oggi. Emerge l’immagine stereotipa, ingombrante, senza più presa sull’immaginario interiore, del santo come dell’uomo ‘perfetto’, al di sopra delle fragilità e dei tormenti dell’esistenza, un modello impossibile da imitare o comunque tanto distante che non concerne più la nostra vita vera. E’ l’immagine a sfondo moralistico che tiene ancora banco nelle pieghe della coscienza cristiana. Santità confusa con perfezione, dove perfezione è intesa riduttivamente come ideale morale e basta. Di contro, si vorrebbe suggerire la figura possibile di un santo nei termini di un ideale che la modernità ha evidenziato con prepotenza e che si presenta con la forza di ciò a cui non si può rinunciare, l’ideale della autenticità, della realizzazione di se stessi, della fedeltà a se stessi nella totalità di un impegno di vita, figura, questa, che ispira fascino e ammirazione. A differenza di cinquant’anni fa, non ci si stupisce di trovare un ‘santo’ oltre i confini della chiesa o della propria chiesa; non fa problema ammirare esperienze e persone in contesti differenti, nelle più disparate situazioni di vita e in religioni diverse. E ciò accresce la difficoltà di riconoscersi globalmente e significativamente in quelle esperienze, spesso in contrasto con le proprie radici. Di qui il senso di frammentazione e confusione dell’umanità nella nostra società e nell’esperienza della stessa VC.

La domanda del sottotitolo del nostro convegno ‘Un ritorno al vangelo?’ esprime assai bene la legge costante che ha caratterizzato, nella storia, ogni ripresa spirituale nella chiesa per ridare vitalità e profondità alla sua azione : il richiamo alla Tradizione, al di là delle specifiche e diverse tradizioni particolari, il ritorno alle fonti. E’ lo stesso principio che ha guidato la riforma del Concilio Vaticano II. Non è tipica di oggi; è tipica dei passaggi ‘significativi’ della storia della chiesa, di tutte le chiese. Ecco dunque la prima questione: cosa significa per noi, oggi, ritornare al vangelo? Non è poi così immediato da assimilare il mistero del regno dei cieli annunciato dal vangelo, sebbene non sia per nulla complicato. La domanda vera credo suoni così: come fare, come disporci per assimilare la ‘potenza’ del vangelo? E’ la questione delle radici, del fondamento da non confondersi con quella degli ideali. L’ideale è più una questione di investimento psichico, il fondamento riguarda le energie del cuore. L’ideale ha bisogno di entusiasmo, il fondamento di intelligenza spirituale. E mi sembra che oggi manchi più l’intelligenza spirituale che l’entusiasmo. Porre la questione delle radici significa, in altre parole, introdurre il discorso sulla santità possibile, sull’amabilità e la possibilità di vivere senza vergogna e senza illusione, in comunione con Dio, nella grazia di una ritrovata fraternità, secondo la rivelazione e la responsabilità che scaturiscono dal Vangelo. La santità non risponde ad un ideale, ma riguarda il fondamento.

Porre la domanda da dentro la nostra piccola storia, significa rispondere a queste interrogazioni precise:

1) quale eredità particolare del Concilio per noi

2) quale  porta di accesso al mistero di Dio

3) quali attese dei cuori

4) quale responsabilità specifica

1) Quale eredità particolare del Concilio per noi.

Un radicamento contemplativo.

Anzitutto un fondarsi più cosciente sulla Parola di Dio secondo l’intelligenza spirituale della chiesa, che per noi ha sempre significato un metterci alla scuola dei Padri d’occidente e d’oriente[3], ai quali, per aver avuto un cuore puro, illuminato dallo Spirito Santo, sono stati aperti i segreti del regno dei cieli, ossia la profondità delle S. Scritture. Qui si fonda quel ‘radicamento contemplativo’ , quella tensione contemplativa senza la quale la nostra fede non prende consistenza, il nostro cuore resta a digiuno. Alla Scrittura e ai Padri, posti a fondamento della vita della comunità, abbiamo sempre chiesto le indicazioni necessarie per imparare a camminare sulle vie di Dio, accogliendo come imperativo l’invito del Concilio Vaticano II di ritornare alle fonti. Per la nostra esperienza Scrittura e Padri si sono rivelati inscindibili[4].

L’importante è stato recuperare il senso della profondità del mistero che i Padri hanno vivissimo. Nell’Occidente latino una certa prevalenza del fare sull’essere ha contribuito a moltiplicare le ‘scuole’ di spiritualità, ad adattarle alle varie categorie di persone, a vantaggio certamente di una maggior presa nell’attualità, nella storia, ma a scapito della profondità, della essenzialità. E le anime risentono di questo ‘appiattimento’ dell’esperienza cristiana. Con i Padri, in particolare con la tradizione patristica esicasta, quella della Filocalia per intenderci, gli orizzonti interiori si fanno più aperti; si torna al primato dell’essere sul fare. La stessa pratica ascetica acquista un altro spessore; la missione la sua consistenza; la preghiera, anche attraverso l’esercizio della preghiera di Gesù, libera l’accesso al luogo del cuore dove si espande in memoria adorante della presenza del Signore e in compassione per tutti gli uomini, da cui scaturisce ogni responsabilità spirituale di solidarietà con gli uomini, comunque si attui. Oltre alla lettura, regolare, quotidiana, mirata quanto agli autori e ai testi, abbiamo come imparato a ritrovare anche il metodo, lo spirito dei Padri,  diventando ‘discepoli’ dei Padri nel senso di lasciarsi guidare da loro e poter mettere così a frutto la loro ricca eredità. Dai Padri abbiamo cercato di mediare anzitutto quella “scienza dello spirito” che è l’arte di condurre l’uomo alla comunione con Dio svelandogli passo passo la verità del suo essere ‘ordinato a diventare dio’, secondo la bella definizione di Basilio Magno riportata da Gregorio di Nazianzo[5]. Arte e scienza dunque, che vanno intese come la capacità di tradurre in valori concreti, in valori vitali che coinvolgano tutto il nostro essere, il tesoro della fede. Credo che proprio in questo risieda il tratto di maggior consonanza con la tradizione orientale di cui ci sentiamo fruitori a pieno titolo in sintonia con i nostri fratelli ortodossi.

Per una comunione con gli uomini.

L’altro elemento essenziale ereditato dal Concilio è la grazia di una nuova fraternità allargata a tutti e scaturita da una visione teologica di chiesa come comunione, visione che via via ha strutturato tutto il mondo interiore. Fraternità scaturita non dal riferirsi con più bontà l’uno all’altro, spesso sentito illusoriamente come un ideale da perseguire con buona volontà, ma con il guardare tutti verso un punto unico, con il ritrovarsi tutti nello stesso mistero da vivere.

A livello ecclesiale, con la condivisione dei doni e delle vocazioni. Vocazione, prima di tutto, dice rapporto al dono di Dio in funzione della santità dell’insieme, della chiesa; solo secondariamente si riferisce al particolare stato di vita, a me conveniente, nel quale realizzare quella santità dell’insieme, accogliendo quel dono tra tanti doni, tutti dati per il medesimo scopo. Se la nostra vocazione non si specchia nella vocazione dell’altro, ci manca qualcosa, perché in effetti ogni vocazione è ‘ecclesiale’ ed è tale in quanto simultaneamente riconosce quella altrui.

A livello comunitario, con la comunità che è passata dall’iniziale tentativo di privilegiare la vita comune portando tutti a una specie di comune denominatore all’attuale orientamento che dà molto più spazio alle diversità dei singoli fratelli in armonia con la vita di fraternità. In questo senso si è passati dal voler inseguire una idealità astratta ad una maggiore concretezza, da un certo schematismo di elementi tradizionali  ad una maggiore libertà e soprattutto guadagnando in autenticità. Il rispetto per la personalità di ciascuno ha comportato l’accoglimento del suo ritmo di crescita, delle sue risorse, delle sue energie per attuarlo, della sua sensibilità che reagisce a certi stimoli piuttosto che ad altri, del suo specifico apporto alla vitalità della comunità nel suo insieme, vissuto come la garanzia di autenticità dell’agire personale. Tutto ciò è diventato per la comunità come un assunto strutturale che la connota nella sua stessa costituzione, accolto come un dono del Signore.

A livello personale, imparando a riconciliarci con la vita, con la nostra storia personale, con la nostra famiglia, con i nostri peccati, nella benevolenza di Dio che non ha paura di noi e che è sufficientemente potente da attirarci a lui dal punto in cui ci trova. Se non diventano vere per noi stessi le parole di Paolo: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e famigliari di Dio” ( Ef. 2,19), se Dio per noi risulta straniero, riusciremo mai a far sentire a casa sua un fratello nel nostro cuore? Quando si riceve un’afflizione, un’ingiustizia, vera o presunta, come accogliere in pace il fratello se non mi sono mai sentito accolto dalla dolcezza del perdono di Dio per me? A partire da questa esperienza personale con Dio possiamo sperare di sanare i nostri rapporti con il prossimo e con il mondo.

In quest’ottica, potremmo definire il cambiamento portato dal Concilio Vaticano II come una trasformazione di prospettiva, di orizzonte interiore; trasformazione che opera nel senso di un allargamento, di una estensione dei confini interiori. La coscienza di essere portatori per l’uomo di un’offerta che ci precede e ci ingloba rende la Chiesa più umile e attenta. E’ la via che lo Spirito oggi ha suggerito alla chiesa.

In quella via, i quattro cardini su cui si regge la comunità rispondono al bisogno di definire lo spazio interiore in cui muoversi: preghiera, Scrittura e Padri, attenzione interiore, vita di fraternità. Alla preghiera è finalizzata tutta l’opera dell’ascesi; mentre il cuore si unifica nella tensione verso Dio, nella memoria della sua presenza, si apre alla compassione per tutti gli uomini. Le parole della Scrittura, sotto la guida dei Padri, rivelano il mondo dello Spirito ed insegnano a discernere in ogni situazione ciò che favorisce la rivelazione del regno di Dio. L’attenzione a se stessi (cfr. Deut. 15,9), unita all’invocazione al Signore Gesù Cristo perché purifichi l’atmosfera del cuore e lo renda capace di perdono e di comunione, costituisce la vera fatica ascetica del vivere quotidiano. Il tutto vissuto tra fratelli, dove ognuno può essere guida e consigliere dell’altro e dove ognuno è responsabile del tenore di vita dell’intera comunità.

2) Quale porta di accesso al mistero.

E’ la questione del clima in cui vivere i rapporti, in cui verificare i propositi e i desideri, in cui assolvere gli impegni, in cui crescere sani. Se nell’esperienza dell’amore di Dio e del prossimo confluisce ogni atto buono, allora, nel concreto della vita quotidiana fraterna, la porta che introduce più direttamente a quella esperienza non è che l’obbedienza reciproca, come dicono i Padri: “Io non vedo in tutte le Scritture che Dio abbia altra volontà sull’uomo se non che si umilii in tutto davanti al suo prossimo, che rinunci in tutto alle sue volontà, che supplichi incessantemente il Suo soccorso e custodisca i suoi occhi dal sonno della dimenticanza” (Isaia di Scete). Non che la cosa sia facile, ma risulta profondamente vera. Quando preghiamo, nel Padre Nostro, che sia fatta la volontà di Dio, domandiamo prima di tutto di fare esperienza dell’amore di benevolenza del Padre nei nostri confronti, di fare esperienza dell’amore di salvezza che Dio ha per gli uomini, che si esprime nella grazia della fraternità realizzata. Senza questo non si può vivere con gioia, non si potrà praticare nessun comandamento con gioia e gustare il regno di Dio.

L’obbedienza è intesa come sottomissione a Dio, alla vita, ai fratelli, in pacatezza e umiltà,  prima ancora che alla regola e al superiore[6]. L’obbedienza evidentemente non è fine a se stessa; essa tende come tutta l’ascesi all’intimità della preghiera e, come quest’ultima, esige un lungo lavorio del cuore. Comporta anche un frutto, sboccia cioè nell’amore. E l’amore verifica la sincerità di cuore nell’obbedienza[7]. In effetti la rinuncia alla volontà propria tende a far spazio alla mitezza, ad allargare il cuore all’amore verso Dio e verso i fratelli. E’ la vittoria sull’ira. Chinare la testa davanti a Dio insegna a chinarla davanti ai fratelli. Tanto che, stando all’insegnamento della tradizione, si potrebbe usare questo paragone per definire il livello di maturità spirituale. La maturità stabile: un fratello mi affligge; rimango in letizia, perché ho rinunciato ad ogni forma di affermazione di me stesso.  La maturità in via di acquisizione: un fratello mi affligge, riesco con fatica a non rispondere, perché ho sì deciso di rinunciare all’affermazione di me, ma sono combattuto. La maturità appena incipiente: ho ancora bisogno di carezze, e senza la misericordia e l’amore dei fratelli non riuscirei a resistere. L’importante però è che tutti si cerchi di praticare i comandamenti del Signore, ognuno secondo la sua forza, accogliendosi in pace.

L’aspetto straordinario di questo clima di obbedienza è costituito dal fatto che crea comunione nel rispetto di ciascuno: è il primato della persona sull’organizzazione. Ecco perché é così importante che la comunità non si regga su giudizi o mire umane sia da parte del superiore che dei fratelli; sarebbero in qualche modo sacrificate le persone. Una comunità evangelica è sempre e sopra tutto una comunità di persone, che cresce se ciascuno cresce[8]. Far valere questo principio, anche nel lavorare, significa salvaguardarsi da agitazione e affanno, mantenere un clima di comunione che promuove l’umano levandogli quell’opacità che gli impedisce di riflettere il divino.

Forse che questo può costituire un carisma, il nostro carisma? Non proprio. In effetti non si è trattato di costruire la nostra vita attorno a questo, ma di scoprire che cercando di vivere così, giorno per giorno, dentro le difficoltà e le gioie quotidiane, il cuore non sta allo stretto, i confini sono spaziosi e le energie dell’anima si rinnovano. E come avviene per noi, avviene per tutti. E’ come arrivare ad un qualcosa di essenziale che riguarda tutti, tutte le vocazioni e fa da radice. Il fatto che la nostra comunità non sia cresciuta, cosa che per tanti anni ha costituito motivo di perplessità e di incertezza per il suo futuro, ora assume una connotazione di testimonianza positiva. Non valgono le particolarità, vale l’essenziale. Non valgono le varie spiritualità, vale la fede. Non valgono le varie vocazioni, vale l’unico mistero che siamo chiamati a vivere. Se possiamo definire il nostro carisma, la nostra vocazione a livello ecclesiale, direi che la nostra vocazione è quella di salvaguardare la vocazione di tutti, coscienti dell’unico mistero che ci affascina e ci preme dentro. Avere un cuore totalmente remissivo alla rivelazione di Dio, questo è l’anelito. E la rivelazione di Dio che costituisce il grande annuncio della nostra fede non è che questa: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32). Letteralmente: “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo” (ὁ Θεὸς ἐν Χριστῷ ἐχαρίσατο ὑμῖν). Continuando: “se anche voi perdonerete, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo”, il mondo risplenderà ancora della Sua presenza. L’unica perfezione desiderabile è appunto quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di Sé da parte di Dio agli uomini, in Cristo, per la potenza del suo Spirito. Come dice stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera Tradizione: “ciò che devono  desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”[9]. La volontà del Padre è vedere l’uomo investito dal suo Spirito, consegnato alla sua misteriosa operazione, quella cioè di compiere quel mistero di riconciliazione rivelato a noi in Cristo. La santità dell’uomo non è che la volontà di compiere quel compito, la risposta a quell’ appello che viene dal desiderio di Dio di essere in comunione con gli uomini.

E per lasciare una figura di riferimento legata alle Scritture, pongo il mistero dell’obbedienza nello spazio che  intercorre tra i due versetti: “ti scongiuro di conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” (1 Tm 6,14) e  “Paolo, apostolo … per annunziare la promessa della vita in Cristo Gesù” (2 Tm 1,1). Sta tutto qui il dinamismo interiore di una vocazione: senza lasciar cadere o travisare o annacquare la Parola di Dio né per se stessi né per gli altri perché si manifesti al nostro cuore il volto del Signore, arrivare a gustare e a far gustare quella ‘promessa della vita in Cristo Gesù’. La nostra credibilità come la nostra identità interiore si gioca tutta qui.  E a questo tende anche la nostra missione, perché qui risiede tutta la consolazione della speranza che abita i credenti e li abilita a percorrere le strade del mondo per essere compagni degli uomini nel nome di Dio.

3) Quali attese dei cuori

Ho l’impressione che nella chiesa ci si sforzi di aprire la parola di Dio ai cuori, ma non altrettanto di aprire i cuori alla parola di Dio. Credo anzi  che proprio questo sia il preciso compito pastorale della chiesa, lo ‘spazio’ della missione della VC oggi nella chiesa, il punto dove il ‘magistero’ spirituale dei ‘consacrati’ risulta particolarmente efficace e fecondo.

Si avverte oggi un profondo disagio interiore dovuto alla perdita di una identità e di un’armonia interiori che, né la fede così come viene vissuta e trasmessa comunemente, né la cultura con i suoi surrogati, sembrano capaci di ripristinare. Si sente vivo il bisogno di senso, di una conoscenza di se stessi che non si riduca al piano psicologico, oggi così inflazionato. Si vive in stato di perenne autodifesa, anche contro se stessi. Forse tanta arroganza o egoismo derivano semplicemente dall’incapacità di accogliersi e guardarsi con bontà, senza disprezzo, di vivere in intimità e tenerezza, qualità così essenziali all’umanità degli uomini e delle donne, all’esperienza stessa di fede dei credenti. Ci si trova in preda alla solitudine, ad una certa confusione, con la nostalgia del vigore di una fede di un tempo, al cui languore attuale però non ci si arrende. Il cuore chiede altro, sebbene non si sappia più bene cosa né come fare per soddisfarlo e pur tuttavia così sensibile a nuove suggestioni. Qui si situa la piacevole scoperta di un compagno di viaggio, di un fratello o di una sorella che parla la nostra lingua, si fa interprete dei nostri aneliti, ascolta e comprende, porta la consolazione di Dio, si fa ‘collaboratore della nostra gioia’ (cfr. 2 Cor 1,24). Tutti sanno di portare un infinito dentro di sé ma, più che racchiuso, è avvertito come ormai nascosto. Ora, l’atteggiamento di mitezza, che l’obbedienza reciproca favorisce, toglie ogni barriera, a chiunque, comunque si trovi, da dovunque provenga, per realizzare quella ‘vicinanza’ così fortemente sentita dai cuori, proprio perché induce all’accoglienza del mistero di Dio e dei cuori, insieme. Proviene da qui quella particolare sensibilità spirituale che, rispondendo alle attese dei cuori, suscita nuove energie e nuovi cammini di vita.

Quali sono le attese dei credenti nei confronti delle persone consacrate? Ho chiesto a parecchie persone di indicarmi i desideri del loro cuore nei confronti di un uomo o di una donna di Dio. Le risposte più significative le posso riassumere in quattro punti:

1) Un uomo di Dio dovrebbe vedere dove i miei occhi non riescono a vedere. Dovrebbe far emergere le potenzialità di uomo e di credente in ognuno che incontra, aiutando ciascuno a viversi come una persona nuova, magari ancora sconosciuta a se stessa. 

2) Mi aspetto l’accoglienza di tutta la mia persona senza tralasciare alcun aspetto in modo che io non debba mai nascondermi dietro nulla. Per questo, deve avere un cuore grande e sconfinato quanto lo sono le debolezze di chi gli sta accanto.

3) Un uomo di Dio deve saper coniugare lucidità con bontà, verità con mitezza: diventare più amorevoli significa diventare più veri.

4) ‘Benedetto colui che viene nel nome del Signore’!  L’uomo di Dio è colui che porta su di sé questa ‘benedizione’, questo senso di grazia, questo non essere solo se stesso, ma essere per definizione colui che viene nel nome di un altro. Quando Gesù invita: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe” (Lc 10,2), è come se ci dicesse di  pregare il Padre perché continui a farci grazia di Sé attraverso l’incontro con i suoi servi. E non è possibile riuscire benevoli al cuore dell’altro se non si viene nel nome di un Altro.

Evidentemente, un uomo che sappia con dolcezza coltivare dentro di sé la tenerezza verso Dio  in risposta al perdono che gli viene comunicato e che guarisce la sua umanità, è certamente più prezioso, anche ai fini pastorali, di uno che si affanni ad escogitare continue strategie per attrarre i fratelli al Signore. La cosa attraente per gli uomini è proprio questo: che il cielo non sia più troppo lontano, ma si lasci gustare nella sua bontà e che qualcosa di questa bontà gustata sia percepibile nell’uomo e nella donna di Dio, al di là dei suoi limiti e delle sue fragilità. Da questo punto di vista i difetti peggiori per un uomo e una donna di Dio non possono che essere ira, pretesa, ambizione, affermazione di sé in quanto queste passioni, che rivelano un’ipertrofia dell’io, sono i più contrastanti con quel rapporto affettuoso col Signore che è condizione essenziale per vivere l’esperienza del perdono. Abbiamo come perso, nella nostra vita interiore, questo aspetto di affettuosità, di tenerezza, nel rapporto col Signore. Per cui ne paghiamo le spese anche nel rapporto con gli altri e con noi stessi[10].

Se l’obbedienza reciproca è la porta di accesso all’accoglienza del mistero di Dio e dei cuori insieme, lo è anche per il fatto che, disponendo i cuori alla mitezza, induce a vivere in modo tranquillo, semplice, senza bisogno di esibire o di difendere nulla, senza sentir nessuno avversario o concorrente in nulla. La ‘serietà’ di una vita religiosa si misura da qui, perché su questo punto appare la posta in gioco: se il Signore costituisce davvero la risposta ai bisogni dei cuori. Voler disporre il proprio cuore in quel ‘clima’ significa lavorare sui punti nodali delle sue resistenze, per sé come per gli altri[11]. In gioco è la trasmissione viva della nostra fede, il contenuto stesso della ‘missione’ della chiesa.

I punti nodali sarebbero tre e rispondono agli atteggiamenti del cuore che strutturano la mitezza e danno ragione del mistero del Signore che si rivela ai cuori: la disponibilità che vince la non fiducia, l’accondiscendenza che vince l’asprezza, la capacità di essere solidali che vince la paura di vivere.

a) disponibilità. Si tratta di lasciare un reale spazio alla convinzione che il Signore accoglie tutti, ognuno per se stesso, nella sua specificità, in tutta misericordia. Persone e cuori non bisognerebbe mai sacrificarli, sia pure con le più nobili intenzioni, a progetti spirituali particolari, sempre troppo terreni. La Parola del Signore ci dà coscienza di essere servi, quindi non siamo noi ad avere in proprietà o in affido i nostri fratelli. Sono piuttosto loro a possederci, noi apparteniamo a loro (cfr. 1 Cor. 3,21-23; 2 Cor 4,5). Ogni loro richiesta, espressa o inespressa, suona come un appello per noi: l’appello di Dio che vuole ‘compiere’ la sua creazione. Anche quel ‘dare la vita’, di cui ci fa comando il Signore per ritrovarla, non va compreso ponendo l’accento sul noi che vogliamo darla, ma sul dinamismo che ci consente di darla, per la potenza del suo Spirito. Dare la vita significa allora rispondere al desiderio di Dio presente in ogni uomo che chiede di essere ascoltato ed amato perché la vita si espanda in pienezza e si realizzi il regno di Dio tra noi. Ogni desiderio di comunione realizzato è infatti presenza del regno di Dio. Quindi, prima ancora che di disponibilità ad una persona o ad una comunità, si tratta in verità di disponibilità alla ‘sinergia’ con Dio che continuamente opera nei cuori e compie i suoi voleri di salvezza anche là dove nemmeno si riesce ad intuirne la presenza. Per questo la disponibilità si risolve prima di tutto in una forma di affidamento a Dio, capace per ciò stesso di suscitare a sua volta il medesimo tipo di affidamento nelle anime che possono così ritrovare se stesse e aprirsi a Dio. E’ la vittoria sulla paura di avere e di dare fiducia, sulla resistenza a fidarsi che blocca una crescita sana, soprattutto nella fede.

b) accondiscendenza. Si traduce essenzialmente in uno sguardo costante di benevolenza, di pazienza e di tenerezza, avvertito immediatamente dalle persone che così non si sentono mai giudicate, soppesate, valutate. In effetti la vera speranza che parla al cuore è quella di accorgersi che Dio c’è ed è presente se si sente che è Lui che dà ad un uomo o a una donna la capacità di usarci tenerezza, di essere buoni con noi. Questo conforta più dell’affetto istintivo tra le creature umane in quanto si sperimenta la gratuità del rapporto, perché si riconosce che il dono ricevuto non risponde a precondizioni o a dati meriti, allarga il cuore alla riconoscenza e lo apre alla percezione della presenza di Dio, pur senza, spesso, che si sia parlato esplicitamente di Dio. L’esperienza può insegnare che diventare più amorevoli significa diventare più veri e di conseguenza permettere di vedere la realtà più in verità. Nella visione cristiana la verità si coniuga con l’amore, la lucidità con la bontà. L’esperienza di questo fatto è liberante per le anime e consente di schiudere il livello psicologico alla dimensione spirituale. E’ come un accedere al mistero del cuore umano, al mistero delle sue origini divine. Un passo di s. Paolo, forse troppo sottovalutato, illustra bene questi concatenamenti: ” Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari ” (1 Tess. 2,8). Le domande da porsi allora sono le seguenti: è possibile dare il vangelo ad una persona senza che questa ci diventi cara? Ed è possibile che questa ci diventi cara senza che in qualche modo senta di esserlo diventata?  Solo a patto che una persona ci diventi cara, il nostro linguaggio saprà essere concreto, capace di dare parola ai suoi disagi, di offrire una rivelazione vissuta e vivente che suscita una risposta, una conversione, un espandersi e un lasciarsi prendere da quella nostalgia di Dio che già portiamo racchiusa dentro di noi. E’ la vittoria sull’asprezza contro di noi, la vita, la storia, la chiesa, Dio.

c) capacità di essere solidali. Si tratta di imparare a vivere solidali con Dio e con l’umanità, nella coscienza di poter essere sempre e solo peccatori perdonati. L’innocenza che possiamo vantare non è che l’innocenza dell’uomo che si sa perdonato, per cui può offrire all’altro quello che lui stesso riceve. In questo senso non c’è incontro che non sia un invito a gustare la bontà del Signore. Il soggetto al quale è dato gustare e vedere la bontà del Signore è certamente tutta l’umanità dell’io nella sua concretezza e integralità, ma, all’interno di questa, è quel principio che muove tutta la propria umanità verso il compimento della sua vocazione e moralità. E’ questo principio, questo soggetto che può diventare ‘nuovo’, ed è a tale soggetto che si rivolge la premura pastorale. E succede anche che quando si vive nel pentimento e nella mansuetudine si supera pure quella certa ostilità che registriamo da parte delle cose stesse e degli avvenimenti e che ci dà l’impressione di una specie di congiura contro di noi. Sentimento infantile, ma non di meno insidioso e persistente[12]. Torniamo ad essere alleati della vita, viene superata la paura del vivere.

In tal modo le domande di autenticità (che riguarda la fede e la vita in genere) e di pienezza di vita (sapere cosa è realmente desiderabile), che riassumono le attese dei cuori, incominciano a vedere una soluzione.

4) quale responsabilità specifica.

Ed infine la questione dello stile, che per me costituisce la dimensione di credibilità della missione. In un vecchio film western mi ricordo che il protagonista, buttando nel fiume da un treno in corsa colui che aveva pensato avesse potuto sostituirlo come re dei ‘viaggiatori non paganti’ dei treni di tutta l’America, esclamava concludendo il film: hai stoffa, ma ti manca lo stile. Non sei degno di succedermi!

È lo stile della responsabilità dei consacrati nella chiesa e nel mondo come testimoni di un ‘mistero’ che ingloba tutti. La domanda pertinente: quali i criteri di autenticità dell’agire apostolico? L’autenticità a che cosa è referenziale?

La responsabilità comporta, anzitutto, la coscienza di un mistero, quello dell’edificazione del corpo di Cristo, che è la chiesa. E la chiesa è comunione in missione di comunione nella storia. Come riportavo sopra, la rivelazione di Dio che costituisce il grande annuncio della nostra fede non è che questa: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32). Letteralmente: “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo”. Prendendo sul serio tale rivelazione, nessun incontro è privo di un significato segreto se gli occhi del cuore sono desti a cogliere l’opera di Dio che vuole condurre tutti e ciascuno a salvezza. E’ dentro la coscienza di tale mistero che la responsabilità si traduce nell’accettazione di un compito, il cui senso sta tutto nel favorire la riconciliazione con Dio e con se stessi, con i fratelli, con il mondo, liberando gli spazi del cuore e creando rapporti rinnovati. Questo fa sì che il valore dell’agire apostolico non dipenda da ciò che si fa, come se fosse più importante una cosa piuttosto che un’altra, ma più semplicemente dal vivere quello che si fa, qualunque cosa sia, nella coscienza di quel mistero. Non solo, ma un’opera risulta evangelica ed evangelizzante non tanto quanto al contenuto bensì rispetto alla modalità di compierla, in diretta dipendenza dalla trasparenza della riconciliazione vissuta. Non basta annunciare una verità, se poi la difesa di questa verità risulta mondana.

Il primo elemento caratteristico di un compito siffatto è quello di portare alla vita. Si è tanto smarrito il senso della realtà di Dio che l’uomo è rimasto in balia delle sue ossessioni. E’ tanto difficile per l’uomo d’oggi, anche per il credente, per le stesse persone consacrate, custodire la tenerezza verso l’umano nella sua trasparenza del divino senza contrapporre o contrarre nervosamente i due poli a scapito della sanità di fondo dell’anima. Vivere senza illusioni e senza vergogna, evitare cioè di cadere nelle opposte tentazioni di idolatrare o disprezzare la carne, la dimensione umana nella sua concretezza, non è agevole. Eppure cielo e terra possono ancora essere vissuti in unità e la compagnia del ‘consacrato’ fa come da ponte, da strada vivente, nel senso che la percezione della possibilità di tale verità in lui schiude l’anima alla stessa verità. Una persona sente il desiderio di guarire se intuisce che qualcuno la conosce dal di dentro , la sta rivelando a se stessa. Di qui comincia il vero cammino ascetico, lungo e faticoso, ma gioioso, con l’energia del cuore ormai rinnovata e continuamente capace di rinnovarsi.

L’altro elemento costitutivo del compito di responsabilità è quello che fa da fondamento stesso al primo: portare alla vita significa in sostanza dare il Signore. Non tanto però come un voler dare il Signore quanto piuttosto come uno svelare l’amore del Signore nell’essere in comunione con gli uomini. Del Signore i cuori hanno bisogno, è lui il consolatore, ma prima di tutto hanno bisogno di sentire che è solo l’amore al Signore a suggerire strategie e attenzioni nei loro riguardi. Alla fin fine ogni tipo di mediazione a livello della vita spirituale si riassume in questo: Qualcuno da mettere in rapporto più diretto e più intimo con qualcuno, Qualcuno vivente  di fronte a qualcuno vivo. Alla serietà del compito non si confanno le improvvisazioni o i sentimentalismi. Dare un buon consiglio è alla portata di tutti o quasi. Individuare i mezzi per seguirlo, questa è la cosa importante e difficile, veramente utile, ma rara. Ciò che si muove dentro l’anima è troppo grande perché noi lo si possa capire o dirigere. Nessuno vi potrebbe metter mano se non con il mandato di Dio ed anche così sempre a rischio di violare un’intimità, di forzare qualcosa di assolutamente personale. Proprio il profondo rispetto e l’amore all’uomo inducono ad umiltà e delicatezza, incapaci come siamo di cogliere la presenza dello Spirito di cui non dovremmo essere che i servi-collaboratori. Diventa essenziale perciò metterci alla scuola dei Padri, i maestri insostituibili di fede e di vita, per diventare più recettivi nei confronti dello Spirito, più malleabili alla sua azione, più attenti alle tracce del suo passaggio e più coinvolti nelle ‘segrete’ intenzioni divine operanti nella storia a rivelazione di quell’amore di Dio che siamo chiamati a certificare.

In effetti, alla loro scuola, lo stile della responsabilità è fornito dall’intreccio di tre acquisizioni, di tre ‘evidenze’ che lavorano nel senso di dare una stabilità di fondo alla fraternità come alle anime:

a) la sapienza viene dall’alto, dove sono poste le radici del cuore. E’ il problema della prospettiva, di imparare e far imparare a guardare, a decifrare, a cogliere nel segno. Secondo l’immagine tradizionale, l’uomo è paragonabile ad un albero con le radici in alto e i rami in basso, con le radici in cielo e i frutti in terra. Seguire i Padri ha rappresentato un vero capovolgimento di prospettiva. Si è trattato di scoprire la potenza di certe connessioni insospettate, che lavorano nel profondo. Posso fare degli esempi. E’ inutile voler essere caritatevoli se non si accetta di onorare il fratello sempre e comunque. La purità non si ottiene con la propria purificazione, ma con il togliere ogni motivo di odio e di tristezza verso i fratelli. La grazia non è attirata dai nostri sforzi, ma dall’umiltà; le nostre opere non sono strumenti di contrattazione. La benevolenza non dipende dalla generosità, ma dalla mitezza raggiunta, la quale sopravviene togliendo ogni forma di autodifesa e di rivendicazione, in modo da avere un’ottica verso se stessi e verso le cose così larga che nessun’altra, di parziale, può avere presa. Si progredisce più per i peccati riconosciuti che per gli atti di virtù compiuti.

In particolare, vale il capovolgimento di prospettiva nel sopportare le prove e le afflizioni, riconoscendo la provvidenza di Dio. Vedere il male nei fratelli è permesso da Dio perché così ci rendiamo conto che anche noi possediamo le radici dello stesso male e ci possiamo pentire;  non solo, ma se Dio permette che veda il male nel mio fratello, è  perché possa imparare ad amare il fratello nella sua concretezza: nel peccato infatti  Dio vede un bisogno e se noi lo vediamo è perché possiamo rispondere a quel bisogno; vedere il male e accorgermi che ne possiedo anch’io le radici, mi costringe a riconoscermi peccatore e stando dentro tale coscienza non ho motivo di arrabbiarmi contro il fratello perché non posso rivendicare nulla; diventa così forte la coscienza di essere peccatore, che nemmeno vedo più il male del fratello: il cuore è ormai pulito. Non posso non rifarmi alle parole autorevoli di Massimo Confessore che così commenta l’invocazione ‘non ci indurre in tentazione’ del Padre Nostro:

“La Scrittura rivela infatti con questo come chi non ha perfettamente perdonato a chi cade e non ha presentato a Dio un cuore privo di tristezza, reso splendente dalla luce della riconciliazione con il prossimo, non otterrà la grazia dei beni per cui ha pregato, e, per giusto giudizio, sarà consegnato alla tentazione e al Maligno. Imparerà così a purificarsi dalle colpe, eliminando le sue lagnanze contro gli altri… E’ detto infatti: Se voi non rimettete agli uomini i loro peccati, neppure il Padre vostro celeste li rimetterà a voi. Così non soltanto riceveremo il perdono delle colpe commesse, ma, oltre a ciò, vinceremo la legge del peccato, perché non sarà permesso che noi ne facciamo l’esperienza”[13]

Ci dice che l’uomo, con un giusto giudizio di Dio, sarà messo in balia della tentazione e del maligno al solo scopo di imparare a purificarsi dalle sue colpe sopprimendo il suo atto di accusa agli altri. Se un uomo potesse ritirare fino in fondo il suo dito puntato,  ogni atto di accusa contro un altro uomo, non subirebbe alcuna tentazione al male. Non è poi così semplice crederci, ma la cosa resta pur tuttavia profondamente vera. Tutte le nostre esposizioni al male sono soltanto in funzione del fatto che noi impariamo a non accusare mai nessuno. Di questa sapienza che viene dall’alto i cuori hanno bisogno per rendere concreta e accessibile la via di Dio.

 b) il processo di crescita comporta l’accettazione che il mistero del regno dei cieli fiorisce nella fatica, nella lotta interiore e nell’acquisizione della conoscenza del nostro cuore. Importanza del fattore tempo, così spesso sottovalutato dalla nostra psicologia interiore! Non basta lottare per evitare il male nelle azioni, occorre lottare – ed è cosa assai più faticosa! – contro i pensieri, e nemmeno soprattutto contro quelli cattivi, piuttosto contro quelli inutili, ingombranti, illusori. Imparando a lottare contro i pensieri si può recuperare l’energia del peccato. L’antico adagio “odiare il peccato, non il peccatore” deve valere anche nei nostri confronti. Nei peccati restano come intrappolate le risorse spirituali in termini di anelito, di desiderio, che dobbiamo imparare a decifrare e recuperare attraverso il pentimento. Ogni peccato si può così trasformare in un trampolino di lancio e non tramutarsi, come spesso capita, in un ingombro della coscienza. Riconoscere il proprio peccato fino in fondo vuol dire comprendere l’esperienza interiore soggiacente, le risorse positive impiegate che non perdono il loro valore semplicemente perché sono state impiegate male. Non è poi realmente importante superare il difetto (di difetti ne avremo sempre); l’importante è riuscire a non giustificare il nostro difetto, a nessun livello. Significa accettare il principio della gradualità: ogni cosa comporta la sua concatenazione necessaria, nel tempo. Accettare questo con pace, in tutta normalità, evita rabbia e frustrazioni inutili e presuntuose.

c) la dinamica spirituale non è duale, ma ternaria. Il contemplare non è in funzione del fare; piuttosto, è l’agire che è in funzione del vedere, nel senso che la dinamica dell’intelligenza di fede si struttura in : conoscere – fare – vedere. Come per l’intelligenza delle Scritture, la dinamica non si riduce ad un capire per poi mettere in pratica, ma più precisamente: leggere – praticare – comprendere e non come comunemente si sarebbe indotti a pensare: leggere – comprendere – praticare. Come a dire: l’azione buona non è l’ultimo obiettivo. Il fare il bene è in vista del conoscere nel senso di quel conoscere esperienziale, di quel conoscere Colui che si ama, di quel conoscere in intimità, in comunione, dal di dentro. Solo qui si ha il superamento di ogni intellettualismo o di ogni spiritualismo. Qui sta la forza del comandamento divino che non è semplicemente una istruzione etica, bensì una partecipazione ad una intimità di vita. Per questo la tradizione, a proposito delle Scritture, non insiste tanto su una comprensione da avere, ma su una potenza da assimilare.

Suggerimenti conclusivi.

L’essere testimoni di quel mistero è di per sé così impegnativo e coinvolgente che non c’è bisogno di puntare ad altri obiettivi, che non siano l’attuazione concreta di quel vivere semplicemente il ‘compimento’ del regno di Dio nel fatto stesso di accogliere e camminare insieme, di suscitare e stabilire comunione, ovunque, con chiunque, amici e nemici, senza preclusione alcuna. Si tratta di una responsabilità di respiro ‘cattolico’, che risponde cioè a quella nota di ‘cattolicità’  tipica della Chiesa, come è professata nel Simbolo di fede. La  ‘cattolicità’ (secondo l’accezione greca del termine, καθ᾿ ὅλον, ‘secondo l’insieme’, tanto in estensione di spazio e tempo quanto in profondità ed interezza) è sempre da scoprire, da assumere, da vivere, da testimoniare da parte di tutti e di tutte le Chiese. Dio ha fatto grazia di Sé in Cristo (cfr. Ef 4,32), non a te o a me, ma a te come a me, a voi come a noi, a te perché possa farla scoprire a me, a tutti, vicendevolmente. L’esercizio dell’intelligenza comporta sempre un esercizio di ‘cattolicità’ e viceversa. Il dimenticarsene, permette alle nostre paure o presunzioni di avere il sopravvento. E questo non lede solamente l’intelligenza della fede, ma anche la fraternità ecclesiale e umana e mina la credibilità dell’annuncio del vangelo. Noi spesso dimentichiamo la frase di Gesù quando manda i discepoli ad annunciare il vangelo a tutte le genti (cfr. Mt 28,19). L’annuncio del vangelo non è in funzione semplicemente di un compito ricevuto, come se noi abbiamo ricevuto un qualche cosa e questo qualche cosa noi lo dobbiamo dare agli altri. Credo sia un modo piatto di interpretare la volontà del Signore e anche la storia dell’esperienza cristiana. Quello che dà consistenza a questo compito di evangelizzazione è quello di ritenere che il vangelo appartiene già alle genti; quando io l’annuncio non faccio che rivelare qualche cosa che in realtà appartiene già a chi io lo annuncio. Spessissimo noi interpretiamo la tradizione come la difesa della verità, come ‘prendere un pacco e consegnarlo’. La trasmissione della fede non è affatto questo. Nessuno che trasmette un pacco che riceve potrà arrivare, in qualche modo, a riempire il desiderio dei cuori.

Se il Vangelo è l’eredità delle genti, vuol dire che la ‘cattolicità’ comprende anche il tempo. Anche il futuro fa parte della Tradizione. La nostra responsabilità ‘apostolica’ si estende anche al futuro. Non è forse così terribilmente e tragicamente facile ingombrare la bellezza e la verità evangeliche con l’impedire al futuro di ereditarle per la nostra miopia? Se io sono così miope che per il mio schema mentale impedisco ad un altro, che ha un’altra storia, un’altra cultura, un altro orientamento, di poter accedere al vangelo, a tutto il vangelo, sono un cattivo testimone. Evangelizzare richiede sempre un vero esercizio di intelligenza; si tratta di imparare a mettere le cose al posto giusto, secondo un’armonia globale perché “la salvezza di Dio abbraccia l’universo”. E siccome quest’armonia globale comprende anche il futuro, non c’è motivo di avere paura man mano che sorgono nuovi problemi. In effetti, più ci lasciamo prendere dalla paura e dal timore di fronte ai vari problemi che ci assillano nella nostra vita personale, comunitaria, ecclesiale, meno sapremo fornire speranza all’umanità, nostra e di tutti. Più avremo paura meno saremo testimoni gioiosi di quella speranza, che è dovuta all’umanità! Perché la speranza non viene da noi, ma dal fatto di riferirci a quel mistero di riconciliazione in atto nella storia, che è diventato il centro propulsore del nostro essere e del nostro agire.

Così, un’ascesi del pensare è altrettanto necessaria quanto un’ascesi del volere, ma in funzione evangelizzante. Il lavoro che attende la Chiesa è quello di riflettere sul destino della verità in un mondo sempre più pluralista e di rendere amabile ciò che il vero implica, in vista di una fraternità rinnovata segnata dalla grazia della Rivelazione. Ma anche quello di imparare a volere. Più che cercare di ‘volere bene a qualcuno’, dove bene è il complemento oggetto del volere, si dovrebbe imparare a ‘volere bene qualcuno’, dove bene è un avverbio che esprime il modo adeguato di volere che qualcuno o qualcosa siano. Un’ascesi che tenda a generare un nuovo modo di volere in cui l’accento non sia posto tanto sull’affermazione di sé quanto sulla disponibilità a servire ciò che è voluto, ad accompagnarlo al suo destino, servitori e testimoni di un mistero che ci supera e ci racchiude. È la sapienza di una visione, capace di farsi lievito di evangelizzazione per offrire nuova speranza al mondo.

E quale potrà essere il ruolo profetico della VC nella chiesa e nel mondo, se non quello di suggerire nuovi modi di sentire e pensare, capaci di aprire spazi nuovi, più consoni a servire nel concreto delle situazioni storiche il desiderio di Dio di comunione con gli uomini? Con la consapevolezza che tutto ha origine da quel Gesù, Signore, annunciatore e testimone della Buona novella, come la chiesa insegna a pregare:

“Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio, che rivela al mondo il mistero del tuo amore e la vera dignità dell’uomo; colmaci del tuo Spirito, perché lo annunziamo ai fratelli con la fede e con le opere” [14].

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[1] In altre due occasioni ho avuto modo di presentare la nostra esperienza. Rimando perciò a questi due brevi scritti: E. CITTERIO, La tradizione e l’insegnamento dei padri testimoniati nella prassi di una comunità, pubblicato nel volume In colloquio. Alla scoperta della paternità spirituale, a cura del Centro Aletti, Roma 1994, ed. Lipa, p. 149-176; idem, L’esperienza di Alessandria. Il primato della contemplazione, REGNO-Attualità 10/1997, p. 317-320.

[2] Il capitolo V della Lumen Gentium porta il titolo “De universali vocatione ad sanctitatem in Ecclesia”.

[3] Come si legge nel Decreto su l’Ecumenismo: “Perciò caldamente si raccomanda che i Cattolici con maggior frequenza accedano a queste ricchezze dei Padri Orientali, le quali trasportano tutto l’uomo alla contemplazione delle cose divine” (UR 15).

[4] Faccio presente che il termine ‘Padri’ lo intendo secondo l’accezione più estesa, comunemente usata nella cristianità orientale, la quale nei Padri comprende tutte quelle figure di santi e di maestri spirituali che hanno strutturato la sua tradizione, considerata nel suo complesso.

[5] L’espressione ‘θεὸς κεκελευσμένος’ (‘ordinato a diventare dio’) è di Basilio Magno, riportata da Gregorio di Nazianzo, In laudem Basilii Magni, hom. 43, 48 (PG 36,560). L’altra espressione ‘ζῶον θεούμενον’ (‘animale che ha ricevuto la vocazione di diventare dio’) è di Gregorio di Nazianzo, In sanctum Pascha, hom. 45, 7 (PG 36,650). Si veda GREGORIO DI NAZIANZO, Tutte le orazioni. Traduzione italiana con testo a fronte, a cura di Claudio Moreschini, Milano 2000, Bompiani (il pensiero occidentale), rispettivamente alle pagg. 1083 e 1143.

[6] Un esempio nella storia che ha rappresentato un vero punto di riferimento per noi è dato dalla figura del grande starets  Paisij Veličkovskij (1722-1794), che guidava una comunità di circa un migliaio di fratelli a Neamţ e Secu, in Romania, e che ha costituito , con il movimento che ha promosso, senza dubbio un avvenimento di prima grandezza nella storia moderna della Chiesa Ortodossa nell’Europa orientale e in Russia. «Con le parole della Scrittura insegnava ai fratelli che di qualsiasi obbedienza fossero incaricati, si sforzassero di compierla con umiltà, obbedendo l’uno all’altro e chinando il capo l’uno verso l’altro» : l’annotazione del suo biografo, Isaac Dascalul, riassume il senso di quell’obbedienza tra fratelli che tanto fascino ha esercitato in quell’epoca, insieme al lavorio di traduzione e interpretazione dei Padri con l’ancorare la pratica ascetica all’intelligenza spirituale. Si veda il mio La dottrina spirituale dello starets Paisij. Radiografia di una comunità  in  N. KAUCHTSCHISCHWILI, A.-AI. N. TACHIAOS  e  AA.VV., “Paisij, lo starec”, Comunità di Bose 1997, ed. Qiqajon, p. 55-82.

[7] Le intuizioni di un s. Francesco d’Assisi restano imperative comunque per la vita religiosa: “Io ti dico, come posso, per quello che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti sono di impedimento nell’amare il Signore Iddio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri, anche se ti coprissero di battiture, tutto questo devi ritenere come una grazia. E così tu devi volere e non diversamente. E questo tieni in conto di vera obbedienza da parte del Signore Iddio e mia per te, perché io fermamente riconosco che questa è vera obbedienza. E ama coloro che agiscono con te in questo modo e non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te. E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori”, Lettera a un ministro, in FF 234.

[8] E’ straordinario che Paisij, alla guida di una comunità tanto numerosa e multietnica, non abbia mai perso di vista questo punto! « Preferiva che andasse in rovina il monastero o qualche altra cosa di valore piuttosto che l’anima di un fratello si perdesse e cadesse in peccato» riporta Isaac nella biografia citata sopra.

[9] Regola bollata, X, in  FF 104.

[10] Non dimentichiamo che la mitezza verso se stessi è condizione essenziale per un profondo e sincero pentimento. Nella sua Introduzione alla vita devota, parte III, cap. IX, san Francesco di Sales così si esprime: ” Uno dei modi migliori di praticare la mansuetudine è quello di praticarla verso noi stessi, senza mai indispettirci contro di noi o le nostre imperfezioni: infatti, sebbene sia giusto che quando commettiamo qualche sbaglio ne proviamo dispiacere e confusione, bisogna tuttavia guardarci dal provare un rincrescimento acre e stizzoso, irritato e dispettoso. Nel che sbagliano grandemente molti, i quali, dopo esser montati in collera, si indispettiscono di essersi indispettiti, si inquietano di essersi inquietati, si adirano di essersi adirati; in tal modo mantengono il loro cuore totalmente schiavo della collera, e sebbene la seconda collera sembri distruggere la prima, non serve in realtà che da spiraglio e da passaggio per una nuova collera alla nuova occasione che si presenterà; inoltre queste collere, stizze e malumori contro se stessi tendono all’orgoglio e non hanno altra causa se non nell’amor proprio, che si turba e s’inquieta vedendoci imperfetti. Bisogna dunque avere delle nostre colpe un disgusto calmo, sereno e fermo”.

[11] Per queste riflessioni, oltre ai testi citati nella nota 1, rimando al mio contributo La spiritualità cristiana. Forse di vita ascetica e spirituale nella tradizione cristiana e loro attualità, in AA.VV., Una spiritualità per il tempo presente, a cura di Natalino Valentini, Bologna 2003, EDB (quaderni di Camaldoli, 22), p. 80-111.

[12] Un bellissimo passo di Origine, nel suo commento al libro di Giosuè, illustra con precisione questo fatto. ” Tutte le creature sono ostili al peccatore, come sta scritto a proposito degli Egiziani: la terra era contro di loro; il fiume era contro, l’aria stessa, il cielo era contro di loro. Per il giusto, invece, anche le realtà che appaiono inaccessibili diventano piane e proclivi. Il Mar Rosso il giusto lo attraversa come terra asciutta … Il giusto, anche se entra nel deserto spaventoso e immenso, viene servito del cibo dal cielo. … Non vi è assolutamente nulla che il giusto debba temere, ogni creatura infatti è al suo servizio.” (Omelia IV).

[13] Vedi Massimo Confessore, Sul Padre nostro, in  La Filocalia, vol. II, Torino 1983, Gribaudi, p.310-311.

[14] Colletta della domenica XV, Tempo Ordinario, anno B.