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Ritiro per i sacerdoti

Alessandria 6 novembre 2002

 

INTRODUZIONE.

La possibilità di un’esperienza di Dio.

Nella biografia seconda di Tommaso da Celano di s. Francesco di Assisi viene citata la città di Alessandria per un miracolo relativo alla ‘predicazione’. Credo sia l’unica volta che nelle fonti francescane si nomina la città di Alessandria di Lombardia. Racconta il testo:

“Nella questua cercava più il vantaggio delle anime di chi donava, che un aiuto materiale alla carne e voleva essere di esempio agli altri sia nel dare che nel ricevere. Mentre si recava a predicare ad Alessandria di Lombardia, fu ospitato devotamente da un uomo timorato di Dio e di lodevole fama, che lo pregò di mangiare, secondo quanto prescrive il Vangelo, di tutto quello che gli fosse posto davanti (Lc 10,8). Ed egli acconsentì volentieri, vinto dalla gentilezza dell’ospite. Questi corre in tutta fretta e prepara con ogni cura all’uomo di Dio un cappone di sette anni. Mentre il patriarca dei poveri è seduto a mensa e tutta la famiglia è in festa, improvvisamente si presenta alla porta un figlio di Belial (1Sam 25,27), che si fingeva mancante del necessario, ma era povero soprattutto della grazia. Nel chiedere l’elemosina, mette avanti l’amore di Dio e con voce pietosa domanda di essere aiutato in nome di Dio. Appena il Santo ode il nome benedetto al di sopra di tutte le cose (Sal 72,17 e Sal 72,19) e per lui dolce più del miele, prende molto volentieri una coscia del pollo che gli era stato servito e, messala su un pane, la manda al mendicante. Ma, per dirla in breve, quel disgraziato mette via ciò che gli è stato donato per poter screditare il Santo. Il giorno dopo il Santo, come era solito, predica la parola di Dio al popolo (At 13,5), che si è radunato. All’improvviso quello scellerato manda un grido, mentre cerca di mostrare a tutto il popolo il pezzo di cappone. «Ecco – strilla – che uomo è questo Francesco che vi predica e che voi onorate come santo: guardate la carne che mi ha data ieri sera, mentre mangiava». Tutti danno sulla voce a quel briccone e lo insultano come indemoniato, perché in realtà sembrava a tutti essere pesce, ciò che lui sosteneva fosse invece una coscia di cappone. Infine anche quel miserabile, stupito del miracolo, fu costretto ad ammettere che avevano ragione. Il disgraziato ne sentì vergogna, e pentito espiò una colpa così palese: davanti a tutti chiese perdono al Santo, manifestando l’intenzione perversa avuta. Anche la carne riprese il suo aspetto, dopo che il falso accusatore si fu ricreduto (Cfr Is 46,8)[1].

L’episodio rivela i due nessi che collegano Parola di Dio e predicazione: la Parola alberga calda nel cuore del predicatore da renderlo pieno di misericordia e la predicazione ha bisogno della credibilità che viene dalla vita; la Parola di Dio spinge a predicare, con la parola e la vita e la predica non è che annunzio della Parola di Dio.

Quale potrebbe essere l’elogio più bello per una comunità di credenti? Per conto mio vorrei che si ripetesse per la comunità in cui vivo quello che viene riportato della comunità hassidica di Mezerici, in Volinia, allora Polonia. Al rabbino che l’aveva visitata chiedono: “Cosa avete scoperto laggiù?”. – Ho scoperto che Dio esiste, che è di questo mondo.

– Ma questa è una verità che qui sanno tutti!

– No, rispose l’uomo di Dio, tutti lo dicono; a Mezerici, lo sanno e si sente!

L’esperienza viva della presenza di Dio nelle nostre comunità non è sostituibile da nessun tipo di organizzazione, di pastorale, di impegno nel mondo. E’ l’esperienza dell’incontro con Dio che fonda il nostro stesso essere, il nostro relazionarci come persone, la nostra stessa percezione del mondo.

Richiamo un’osservazione scontata: il contesto umano e sociale che viviamo non può più dirsi cristiano. Basta pensare all’impatto della pubblicità sul nostro mentale. La nostra psicologia nell’immediato, individuale e sociale, il nostro immaginario interiore non è più cristiano.

Sorge allora il problema: come ritornare a quella esperienza di fondo? Una comunità che non faccia più presagire la realtà e la possibilità di quell’esperienza può ancora dirsi cristiana? Inserisco in questo quesito la declinazione dei termini del nostro tema.

La mia riflessione si svilupperà in due tempi. In un primo tempo cercherò di ridare densità ai due termini del nostro tema: parola e predicazione. In un secondo tempo mostrerò le connessioni che intercorrono tra i due termini.

LA DENSITÀ DEI TERMINI.

a) Parola.

In effetti, il pericolo che accomuna i due termini in sé e nella percezione dei soggetti è l’appiattimento. Il motivo? Credo che in gran parte ciò dipenda dal fatto che non è mai stato facile, e continua a non esserlo, aprirsi agli orizzonti della fede nella sua radicalità, secondo la visione di s. Paolo : “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio presso di voi di realizzare la sua parola, cioè il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi, ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria. E` lui infatti che noi annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo con ogni sapienza, per rendere ciascuno perfetto in Cristo. …Voglio infatti che sappiate quale dura lotta io devo sostenere per voi, per quelli di Laodicèa e per tutti coloro che non mi hanno mai visto di persona, perché i loro cuori vengano consolati e così, strettamente congiunti nell`amore, essi acquistino in tutta la sua ricchezza la piena intelligenza, e giungano a penetrare nella perfetta conoscenza del mistero di Dio, cioè Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza.” (Col 1,24-28; 2,2-3). In realtà, non è così facile disporsi a giocarsi la testa fino in fondo. Ci poniamo addosso un velo di vernice, ci riduciamo a vivere appiattiti su di una psicologia mondana, sia a livello spirituale che culturale.

L’appiattimento nei confronti della parola deriva dalla riduzione della parola a semplice strumento di comunicazione.

Credo che vada operato uno spostamento di accenti, di attese. Siamo troppo abituati a collegare le parole alla mente che le deve capire. E’ come se intendessimo una parola solo in funzione del messaggio che vuole comunicare. Parola come comunicazione. Ma il mistero di una parola è ben più profondo e radicale. Una parola ha sempre attinenza con colui che la proferisce, con le segrete e palesi intenzioni del cuore dalla quale scaturisce; prima che comunicazione, dice rapporto, legame, comunione; ha a che fare con le attese del cuore che l’ascolta. Parola insomma rivolta prima di tutto e fondamentalmente al cuore di una persona. Ecco perché, lungo tutta la tradizione, quando si parla della parola di Dio, delle Scritture, non si insiste tanto sullo sforzo per comprenderla, ma sull’apertura di cuore per assimilarne la potenza. Quello che una bellissima preghiera dopo la comunione dice dell’eucaristia vale allo stesso titolo nei confronti della parola di Dio : “La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo santo Spirito” (XXIV dom., ciclo B, dopo la comunione). Come a dire: “La potenza di questa parola, Padre, ci pervada tutto il cuore perché non prevalga in noi quello che abbiamo in testa, ma l’azione del tuo santo Spirito nel profondo del nostro cuore”. Per percepire la realtà di questa potenza, ci è utile questa esortazione di Simeone Nuovo Teologo: “Siate pienamente certi, fratelli miei, che nulla rende così facile la nostra salvezza quanto il seguire i divini precetti del Salvatore. Abbiamo però bisogno di molte lacrime, di grande timore, di grande pazienza e di preghiera perseverante perché ci venga rivelato il senso anche di una sola parola del Signore, cosicché possiamo conoscere il grande mistero nascosto nelle minime parole ed esporre la nostra vita fino alla morte anche per un solo apice dei comandamenti di Dio” (Catechesi I).

Di qui scaturiscono certi atteggiamenti interiori, senza i quali il senso stesso della parola che ascoltiamo o leggiamo, nonostante lo sforzo mentale di comprenderla, resterà chiuso per noi, impenetrabile, respingente, senza possibilità di interferire con le energie vitali che danno vigore al nostro uomo interiore. Mi riferisco a tre atteggiamenti particolari.

  1. Aprirsi al mistero piuttosto che voler comprendere qualcosa del mistero.
    In senso religioso, il ‘mistero’ della parola non allude primariamente a ciò che non si può comprendere, bensì a ciò di cui si è invitati a diventare partecipi. Allude a un legame prima che a una comunicazione. E’ l’atteggiamento che descrive Origene: “… le parole delle Scritture, mettiamole in deposito nei nostri cuori e sforziamoci di conformare le nostre vite su di esse …” (Cfr. Omelie su Geremia II,3). Il suo suggerimento: dopo la lettura, scrivere tutto nel proprio cuore, conformare la propria vita con quanto letto per entrare in possesso della santa eredità, cioè arrivare a comprendere la parola di Dio fino ad assimilarne tutta la potenza di salvezza che racchiude (cfr. anche Omelie su Geremia IV,6). La norma del comprendere è definita dalla tradizione in questa successione: leggere, praticare, comprendere; non invece come solitamente intendiamo: leggere, comprendere, praticare. Non si pratica quello che la testa capisce, ma quello che il cuore è disposto ad accogliere. La potenza della parola è in funzione del cuore, non della mente, come dice Marco Asceta: “ … la parola pone coloro che l’hanno ascoltata nell’obbligo di metterla in pratica fornendo al cuore la possibilità di eseguire ciò che viene detto …” (Trattati, penitenza).

    Paolo scrive: “infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, alla lettura dell`Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto” (2Cor 3,14-16). Il discorso può essere allargato per noi: fino ad oggi, quando si leggono le Scritture, Antico e Nuovo Testamento, un velo è steso sul nostro cuore; ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto! Conversione, in questo contesto, significa anzitutto nuova visione delle cose, nuovo orientamento del cuore fino a realizzare il mistero della fede, cioè il Cristo in noi. Ecco perché la comprensione della parola è segnata dalla conversione del cuore. Senza l’attesa del cuore di incontrare Qualcuno, di trovare Qualcuno che desidera incontrarlo e farlo partecipe della sua intimità, la comprensione delle Scritture è velata. Come dice una bella preghiera: “Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio, che rivela al mondo il mistero del tuo amore e la vera dignità dell’uomo; colmaci del tuo Spirito perché lo annunziamo ai fratelli con la fede e con le opere” (XV dom., ciclo B, colletta). O con le parole di Simeone Nuovo Teologo: “O divina carità, dove trattieni il Cristo? Dove lo nascondi? … Apri un poco la tua porta anche a noi indegni, perché anche noi vediamo il Cristo che ha patito per noi e crediamo alla sua misericordia per la quale non morremo più, se lo avremo così contemplato” (Catechesi I). Oppure ancora con la brama di Origene: “Magari venisse concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse mio il mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro” (Su Giosué, XVIII).
  2. Al di là della comprensione, custodire il senso della preziosità e dell’infinitezza della parola di Dio.
    Dice Efrem nel suo commento al Diatessaron: “Chi è capace di comprendere tutta la ricchezza di una sola delle tue parole, o Dio? Ciò che comprendiamo è assai meno di quello che lasciamo … Egli ha nascosto nella sua parola tutti i tesori, perché ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che medita … Quanto hai preso e portato via è la tua parte, ma ciò che resta è ancora tua eredità …” (I,18-19). Noi siamo troppo preoccupati di prendere subito la nostra parte, dimenticando che anche quello che resta da comprendere ci spetta come eredità. Nel vangelo di Giovanni leggiamo : “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna … In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa” (Gv 3,16; 5,19). La prima frase la applichiamo solitamente al mistero dell’incarnazione. Ma anche il dono della Parola rivela l’amore del Padre per il mondo. E la parola è stata rivelata perché gli uomini abbiano la vita, proprio come Gesù ripete ai farisei, sebbene in un contesto di rimprovero: “Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna …” (Gv 5,39). La seconda frase non esprime forse il mistero stesso della meditazione delle Scritture? Gesù fa quello che vede fare dal Padre, quello cioè che contempla nel Padre in ragione della sua intimità, non del suo ‘voler comprendere’ il Padre. E per noi non vale la stessa cosa? Fare quello che vediamo fare da Dio, dal Cristo e come vedere se non immergendoci nelle Scritture, in ragione della disponibilità del nostro cuore a sentire e a raccogliere il desiderio di Dio di incontrare l’uomo e godere con lui della vita di cui lo vuole fare partecipe? Queste due espressioni del vangelo di Giovanni raccontano tutta la preziosità e l’infinitezza della parola di Dio!
  1. Non si può comprendere la Sapienza di Dio se non si ascolta con piacere.
    È l’insistenza sul rapporto più che sulla circostanza o sull’oggetto della parola. L’afferma Marco Asceta: “Ogni parola del Cristo manifesta la misericordia, la giustizia e la sapienza di Dio: chi l’ascolta volentieri ne sperimenta la potenza. Perciò quelli che senza misericordia e ingiustamente ascoltarono con fastidio, non poterono comprendere la sapienza di Dio; anzi, crocifissero chi la insegnava loro. Esaminiamoci dunque se lo ascoltiamo con piacere. Egli ha infatti detto: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch`io lo amerò e mi manifesterò a lui».” (Gv 14,21)” (A proposito di quelli che credono di essere giustificati per le opere, 223). “Non si può comprendere la Sapienza di Dio se non si ascolta con piacere” (Coloro che pensano di essere giustificati, 210).

 b) Predicazione

Il termine latino da cui deriva la parola italiana comporta due significati: a) annunziare ad alta voce, fare noto; b) celebrare, esaltare. L’appiattimento che subisce la predicazione deriva dalla riduzione dell’annunziare al semplice spiegare, confluito poi nell’esortare. Predicazione come spiegazione, come esortazione. Si sposta l’accento da Cristo alla ‘verità cattolica’, dalla fede alla morale. E’ necessario recuperare anche l’altro significato, quello del celebrare, dell’esaltare, significato che deriva dal contesto del ‘mistero’ della parola udita ed annunziata, segno di quella obbedienza alla fede capace di convertire, di suscitare conversione, in lode ed esultanza.

Il termine scritturistico per ‘predicazione’ è ἀκοή, propriamente ‘udito’. Leggiamo in Rm 10,17, riferimento obbligato per la comprensione del concetto di predicazione: “La fede dipende dunque dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo”. La TOB traduce: ‘la predicazione è l’annunzio della parola di Cristo’, intendendo ‘parola di Cristo’ nel doppio significato di parola che viene da Cristo e di parola che ha Cristo come oggetto. Stesso termine in 1Ts 2,13 “avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete”. Il greco può giocare sulle parole ἀκοή e ὑπακοή, ‘udito’ e ‘obbedienza’, per rendere il mistero della predicazione: la parola di Cristo annunziata per aprire i cuori all’obbedienza della fede in Cristo. Ora, se la predicazione si appiattisce sulla spiegazione e non fa più presagire l’incontro con Cristo oppure se si dilunga nell’illustrare una verità e non apre al desiderio della visione della bellezza del Volto di Cristo, come potrà rispondere al suo scopo?

Se la Chiesa ha sempre custodito gelosamente l’ufficio della predicazione, ‘officium principalissimum’ degli apostoli, secondo s. Tommaso e ‘praecipuum episcoporum munus’, secondo il Concilio di Trento, l’ha fatto perché in diretta dipendenza della sua missione, che è quella di annunziare integralmente l’Evangelo con le parole e le azioni. Se i fedeli si lamentano del linguaggio astratto, lontano e separato dalla vita, moralistico, clericale, nella presentazione della fede da parte della chiesa, vuol dire che si è come inceppata la mediazione tra la fede custodita e le esigenze dei cuori, mediazione che costituisce il terreno specifico dell’azione pastorale della chiesa. Se ci è stato ingiunto di custodire integri (cfr. 1Tim. 6,14) e di praticare i comandamenti di Dio, via della salvezza, quindi via della vita, non possiamo allora nemmeno esimerci dal compito di far parlare il comandamento al cuore dell’uomo sia per amore della Parola di Dio che per amore dell’uomo al quale essa è indirizzata.

Parlando della predicazione parlata, le sue forme variano molto nella storia. Nell’antichità cristiana la predicazione si trovava legata principalmente alla liturgia, nel Medioevo e nell’età moderna quasi per nulla. In oriente è prevalsa la forma omiletica, dove la proposta evangelica derivava da un soffermarsi ed un inoltrarsi nella pagina scritturistica, l’occidente invece ha preferito il ‘sermo’, l’esposizione di un tema o di una dottrina appuntata sulle Scritture, passando da un ‘sermo antiquus’ di tipo esegetico-spirituale caratteristico della tradizione monastica ad un ‘sermo modernus’ o ‘thematicus’ della Scolastica, pronunciato secondo le regole delle ‘artes praedicandi’ fino ad arrivare alle straordinarie ‘missioni popolari’ che dal ‘500 al ‘700 hanno galvanizzato il fervore della cristianità tanto nel Vecchio come nel Nuovo Mondo. Se nel Concilio di Trento si è imposta la figura del parroco-predicatore, prima sconosciuta alla cristianità, per molto tempo è restata solo un pio desiderio, ma tanto forte era l’esigenza che l’aveva propugnata che nel ‘700 s. Alfonso, nella sua Morale III, n. 269, riteneva colpevole di peccato mortale il parroco che per un intero mese o discontinuativamente per tre mesi avesse trascurato il dovere della predicazione.

Al di là però di tutte le varie forme, tre sono gli elementi che caratterizzano il ministero della predicazione nella chiesa:

  1. Una dignità. Cfr. At 6,2-4 : “Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: “Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense… Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola”. La predicazione è compito primario degli apostoli e dei loro successori. Esercitare il ministero della predicazione significa partecipare al ministero apostolico ed il ministero apostolico si risolve nella testimonianza del Risorto. Ogni annunzio e spiegazione della Parola non è che condivisione dell’esperienza degli apostoli del Signore in mezzo a loro. A proposito della scelta dei Dodici riporta l’evangelista Marco: “Ne costituì Dodici che stessero con lui” (Mc 3,14). Prima di essere inviati ad annunziare, si è chiamati a ‘stare con il Signore’. E’ questo ‘stare con il Signore’ che abilita all’annunzio.
  2. Un’urgenza. Cfr. 1Cor 9,16: “Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!”. Guai che noi potremmo estenderci fino a dirci: guai a noi se annacquiamo la parola del vangelo, guai a noi se la carichiamo di pesi inutili, guai a noi se non la facciamo risplendere, se impediamo a qualcuno con la nostra miopia di scoprire la bellezza della parola del vangelo!
  3. Una condizione di fondo. Cfr. 1Ts 2,8 “Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari”. Sottovalutiamo troppo questo passo. Le domande da porsi sarebbero le seguenti: è possibile dare il vangelo ad una persona senza che questa ci diventi cara? E’ la dimensione ‘pastorale’ della predicazione. In effetti, solo a patto che una persona ci diventi cara, il nostro linguaggio saprà essere concreto, capace di dare parola ai suoi disagi, di offrire una rivelazione vissuta e vivente che suscita una risposta, una conversione,un lasciarsi prendere da quella nostalgia di Dio che già portiamo racchiusa dentro di noi.

 

LE CONNESSIONI TRA I DUE TERMINI.

In modo sintetico illustrerei così il mistero della connessione tra la Parola e la predicazione. Quando Gesù ricorda qual è il più grande comandamento dice: “ Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti” (Mt 22,37) . Cita il passo di Deuteronomio 6,4-5, che costituisce la confessione di fede del pio israelita, la parte più solenne della preghiera quotidiana di ogni ebreo praticante: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”. Anzitutto: ‘Ascolta’! La Parola di Dio è fondante, la mia esistenza riceve senso da quella Parola, da lì prende vigore il mio cuore. ‘Il Signore è il nostro Dio’: prima ancora che possa cogliermi nella mia individualità, devo riconoscermi dentro una pluralità, dentro una comunione, dentro una solidarietà. E’ il mistero dell’alleanza di Dio con noi che mi precede, dentro il quale mi posso raggiungere e riconoscere e accogliere. Prima c’è quello che Dio ha fatto per noi, poi in quel noi posso sentire anche me che vengo raggiunto dall’agire di Dio. Quindi ‘Tu amerai’, cioè finalmente posso rispondere e godere tutta l’intimità di quella alleanza. A questo punto il comandamento non è più un imperativo morale, ma la porta di accesso ad un segreto, ad un mistero di cui sono chiamato a divenire partecipe. Noi spesso leggiamo il comandamento dalla parte della paura, del sacrificio, della rinuncia a qualcosa, ma in realtà bisogna imparare a leggerlo dalla parte della passione del cuore, dell’anelito e del desiderio che ci muovono dentro e della possibilità finalmente di viverli compiutamente. Ma come è possibile se non riusciamo a percepirci prima raggiunti da un’offerta, da un’alleanza, da un amore che ci precede? Ecco il senso dell’apertura alla Parola. La predicazione non fa che ripresentare questa stessa dinamica perché si attui per ciascuno: si comincia da un ascolto, che ci dà la possibilità di percepirci dentro una storia, in modo da suscitare la possibile nostra risposta.

I due termini sono accomunati poi da una tensione e da una responsabilità comuni.

La tensione all’intelligenza della fede che ci riguarda sia nel momento della frequentazione della parola che nel momento dell’annunzio. Non semplicemente quella di conoscere, come se il meglio dell’uomo consistesse meramente nel suo ‘intelligere’, senza tener conto dell’intensità del suo desiderio e del suo amore, ma di conoscere Colui che si ama, con quello sguardo che proviene dall’intelligenza dello spirito tutto teso alla comunione. La tensione all’intelligenza della fede si accompagna all’interesse per la totalità del mistero: intelligenza e ‘cattolicità’, secondo la radice greca del termine (καθ’ ὅλον, ‘secondo l’insieme’ tanto in estensione di spazio e tempo quanto in profondità ed interezza), non possono essere disgiunte. Il famoso ‘contemplata aliis tradere’ non significa semplicemente: dopo aver contemplato una verità, la puoi trasmettere agli altri. Il momento contemplativo è già un momento ‘predicante’, come il momento ‘predicante’ è ancora un momento contemplativo, nel senso che la contemplazione non può che essere partecipata a tutto il mio essere e a tutti contemporaneamente perché tutti ci ritroviamo concordi nella condivisione della stessa ammirazione per il grande disegno di amore per l’uomo da parte di Dio, in Cristo, che riassume il senso stesso dell’ascolto e dell’annunzio della parola.

Tensione che va vissuta come ‘desiderio di Dio’ tanto per me quanto per tutti. Nutrirsi della parola e annunziare la parola significa alimentare questo segreto desiderio, permettergli di trovare spazi per viverlo, per custodirlo.

La responsabilità di un compito. Cfr. Eb 4,2: “Poiché anche a noi, al pari di quelli, è stata annunziata una buona novella: purtroppo però ad essi la parola udita non giovò in nulla, non essendo rimasti uniti nella fede a quelli che avevano ascoltato”. ‘Restare uniti nella fede a quelli che hanno ascoltato’: ecco il senso della Tradizione che ci precede, ci accompagna e ci seguirà, quanto alla Parola e quanto alla predicazione.

Nell’accedere alla Parola sia come ascolto che come annunzio va rispettata la dinamica soggiacente, che non è binaria ma ternaria. Il contemplare non è in funzione del fare; piuttosto, è l’agire che è in funzione del vedere, come ricordavo a proposito dell’intelligenza delle Scritture: “leggere, praticare e comprendere” e non come comunemente si sarebbe indotti a pensare: leggere – comprendere – praticare. Nella dinamica ternaria restano sottolineate due cose, tipico dell’humus ebraico di questo insegnamento tradizionale. La prima è che la parola di Dio ascoltata o annunziata non contiene un messaggio da comunicare ma una potenza da assimilare. Allora la Parola non si rivolge alla testa ma alla totalità del cuore dell’uomo ed è per questo che se si fa passare la Parola subito alla testa la si riduce nella sua densità. E questo ridurre impedirà poi, nel praticare, tutti gli esiti possibili che, di per sé, ci sarebbero accessibili. La seconda: per indicare che non si tratta, nella pratica, di un semplicemente mettere in pratica. Non è una specie di esecuzione materiale, che, di per sé, porta il suo frutto. Non avviene così! Il fatto è che un conto è accogliere e praticare un comandamento nella sua materialità e un conto è praticare il comandamento cogliendone l’ispirazione che porta, perché questa allude direttamente alla santità di Dio, che poi è la vera potenza che ci viene comunicata, ed è la stessa vita divina che passa in noi. Eseguire un comandamento non significa fare un’opera ma partecipare alla vita di Dio. Il leggere e l’annunziare la Parola è già appunto un comandamento. Se davvero si coglie che non si tratta solo di praticare il comandamento, ma di praticarlo nella sua ispirazione, allora si scopre che il frutto è proprio la conoscenza in intimità e il cuore si riposa. Così l’azione buona non è l’ultimo obiettivo. Il fare il bene è in vista del conoscere nel senso di quel conoscere esperienziale, di quel conoscere Colui che si ama, di quel conoscere in intimità, in comunione, dal di dentro. Solo qui si ha il superamento di ogni intellettualismo o di ogni spiritualismo. Qui sta la forza del comandamento divino che non è semplicemente una istruzione etica, bensì una partecipazione ad una intimità di vita.

La responsabilità poi la vedo coniugata con la nota di ‘cattolicità’ della chiesa. Secondo l’accezione greca del termine, come è professata nel Simbolo di fede, essa è sempre da scoprire, da assumere, da vivere, da testimoniare da parte di tutti e di tutte le Chiese. Dio ha fatto grazia di Sé in Cristo (cfr. Ef 4,32), non a te o a me, ma a te come a me, a voi come a noi, a te perché possa farla scoprire a me, a tutti, vicendevolmente. L’esercizio dell’intelligenza comporta sempre un esercizio di ‘cattolicità’ e viceversa. Il dimenticarsene, permette alle nostre paure o presunzioni di avere il sopravvento. E questo non lede solamente l’intelligenza della fede, ma anche la fraternità ecclesiale e umana e mina la credibilità dell’annuncio del vangelo. Mi piace sottolineare che è ancora questa ‘cattolicità’ che induce ad inserire l’elemento ‘tempo’ nella tradizione e a coniugarlo anche al futuro. Il Vangelo è l’eredità delle genti. Non è forse così terribilmente e tragicamente facile ingombrare la bellezza e la verità evangeliche con l’impedire al futuro di ereditarle per la nostra miopia? Un’ascesi del pensare è altrettanto necessaria quanto un’ascesi del volere, ma in funzione evangelizzante. Il lavoro che attende la Chiesa è quello di riflettere sul destino della verità in un mondo sempre più pluralista e di rendere amabile ciò che il vero implica, in vista di una fraternità rinnovata segnata dalla grazia della Rivelazione. Ma anche quello di imparare a volere. Più che cercare di ‘volere bene a qualcuno’, dove bene è il complemento oggetto del volere, si dovrebbe imparare a ‘volere bene qualcuno’, dove bene è un avverbio che esprime il modo adeguato di volere che qualcuno o qualcosa siano. Un’ascesi che tenda a generare un nuovo modo di volere in cui l’accento non sia posto tanto sull’affermazione di sé quanto sulla disponibilità a servire ciò che è voluto, ad accompagnarlo al suo destino, servitori e testimoni di un mistero che ci supera e ci racchiude. È il ruolo della Chiesa nel mondo, antico e sempre nuovo, oggi riscoperto in una dimensione di fede più umile. Dio non ha abbandonato il mondo e alla Chiesa tocca il compito di testimoniarne la Presenza tra i suoi figli con la maggior trasparenza possibile. È la sapienza di una visione, capace di farsi lievito di evangelizzazione per offrire nuova speranza al mondo. Ogni difesa della fede o ogni audacia nell’intelligenza della fede deve evitare di ostacolare l’accesso al vangelo o di annacquare il vangelo.

E ancora, chi si affida all’ascolto e all’annunzio della parola è chiamato ad essere il testimone della gioia[2] di Dio che ha fatto conoscere la profondità del suo amore per l’uomo, per usare un’espressione del p. Timothy Radcliffe che l’ha pensata in rapporto al teologo. Ogni lotta contro le nostre resistenze e le nostre ribellioni davanti alla parola, in noi stessi come in tutti, è per far scaturire la benedizione che racchiude. Quando ci si oppone al mondo non è per cambiarlo con il nostro volere; sarebbe impresa vana, tragica, il trionfo dell’ideologia e non della santità cristiana, ma per aprirlo allo splendore di Dio, solidali con l’umanità e con il creato.

Concludo con la condivisione di una perorazione del teologo Roberto Vignolo che lamenta oggi troppa poca lettura e “non semplicemente nel senso di troppo pochi libri letti, a vantaggio dei nuovi media imperanti. Ma nel senso di una ossessionata decifrazione di segni esercitata a scapito di un’adeguata interpretazione della vita, da cui non ci si lascia più afferrare a quel livello di profondità che essa vorrebbe. Proprio questa mira profunditas schiude la pagina biblica al proprio lettore restituendogli il suo stesso mistero”[3]. In questo senso, va ricordato che la prima obbligazione forte per i discepoli di Cristo resta sempre quella di frequentare assiduamente e quotidianamente la Parola, di sostare a leggere, di imparare a leggere, di pregare perché ci sveli i contorni del Volto di Dio e ci comunichi la sua potenza, come ci ricorda la preghiera sopra citata “La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo santo Spirito” .

LA PAROLA DI DIO E LA PREDICAZIONE

Ritiro per i sacerdoti

Alessandria 6 novembre 2002

SCHEMA DELLA PRESENTAZIONE.

Contesto.

L’esperienza viva della presenza di Dio nelle nostre comunità non è sostituibile da nessun tipo di organizzazione, di pastorale, di impegno nel mondo.Una comunità che non faccia più presagire la realtà e la possibilità di quell’esperienza può ancora dirsi cristiana?

Svolgimento.

La presentazione segue due tempi:

1) presenterò i termini ‘parola’ e ‘predicazione’ nella loro rispettiva densità

2) stabilirò le connessioni tra i due termini

Il pericolo comune è l’appiattimento.

Densità della ‘parola’. L’appiattimento nei confronti della parola deriva dalla riduzione della parola a semplice strumento di comunicazione. Spostamento di accenti, di attese.

Lungo tutta la tradizione, quando si parla della parola di Dio, delle Scritture, non si insiste tanto sullo sforzo per comprenderla, ma sull’apertura di cuore per assimilarne la potenza.

Tre atteggiamenti suggeriti:

– Aprirsi al mistero piuttosto che voler comprendere qualcosa del mistero. La norma del comprendere è definita dalla tradizione in questa successione: leggere, praticare, comprendere; non invece come solitamente intendiamo: leggere, comprendere, praticare.

– Al di là della comprensione, custodire il senso della preziosità e dell’infinitezza della parola di Dio.

– Non si può comprendere la Sapienza di Dio se non si ascolta con piacere. E’ l’insistenza sul rapporto più che sulla circostanza o sull’oggetto della parola.

Densità della ‘predicazione’. L’appiattimento che subisce la predicazione deriva dalla riduzione dell’annunziare al semplice spiegare, confluito poi nell’esortare. Predicazione come spiegazione, come esortazione.

Importanza del compito di far parlare il comandamento al cuore dell’uomo sia per amore della Parola di Dio che per amore dell’uomo al quale essa è indirizzata.

Tre gli elementi che caratterizzano il ministero della predicazione: dignità (cfr. At 6,2-4) , urgenza (cfr. 1Cor 9,16), condizione di base (cfr. 1Ts 2,8).

Connessioni tra i due termini.

La tensione all’intelligenza della fede. La tensione all’intelligenza della fede si accompagna all’interesse per la totalità del mistero: intelligenza e ‘cattolicità’, secondo la radice greca del termine non possono essere disgiunte. Come intendere il famoso ‘contemplata aliis tradere’. Tensione che va vissuta come ‘desiderio di Dio’ tanto per me quanto per tutti.

La responsabilità di un compito (cfr. Eb 4,2).. Il contemplare non è in funzione del fare; piuttosto, è l’agire che è in funzione del vedere. Dinamica soggiacente non binaria ma ternaria, come a proposito dell’intelligenza delle Scritture: “leggere, praticare e comprendere” e non come comunemente si sarebbe indotti a pensare: leggere – comprendere – praticare.

L’esercizio dell’intelligenza comporta sempre un esercizio di ‘cattolicità’ e viceversa. Il dimenticarsene, permette alle nostre paure o presunzioni di avere il sopravvento. E questo non lede solamente l’intelligenza della fede, ma anche la fraternità ecclesiale e umana e mina la credibilità dell’annuncio del vangelo.

La mira profunditas: perorazione per la lettura.

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[1] FF 666.

[2] Si veda la bellissima lettera del Maestro dell’Ordine, Fr. Timothy Radcliffe, ai domenicani : La perenne sorgente della speranza. Lo studio e l’annuncio della buona novella, Roma 1995.

[3] Roberto VIGNOLO, „Leggi, per entrare in paradiso”, in RCI 4 (2002), 284-295. Il passo si trova a p. 294.