Romania: religione e spiritualità dal primo dopoguerra ai giorni nostri.
Fondazione Giorgio Cini
Isola di san Giorgio Maggiore, Venezia
14-16 febbraio 2002
ELIA CITTERIO
Movimenti e figure di spicco dell’Ortodossia romena nell’ultimo Cinquantennio
Un giorno padre Galaction pose questa domanda a un eremita che aveva incontrato per caso nella foresta: “Ditemi, padre: quando verrà la fine del mondo?” E quel sant’uomo, sospirando, rispose: “Lo vuoi sapere, padre Galaction? Quando non ci sarà più sentiero tra l’uomo e il suo vicino[1]!”.
L’aneddoto è riportato dal fratello di p. Galaction, il famoso staret di Sihăstria, p. Cleopa, con il quale ho avuto lunghi colloqui spirituali indimenticabili. Vi ho sempre riscontrato una sorprendente definizione del senso della vita come comunione. Tanto più interessante e significativa in quanto a pronunciarla è un eremita, un sihastru, come viene chiamato in Romania il monaco che vive in solitudine. Quando gli uomini pretenderanno di vivere dietro steccati egoistici, chiuderanno i cuori 1’uno nei confronti dell’altro, si scorderanno l’amore, il servizio reciproco, in una parola la “comunione”, la vita si svuoterà di senso, il mondo sarà giunto alla sua fine. Quando il regime comunista, dietro la retorica di vuoti paroloni, si dava da fare per ostruire, se non proprio per cancellare, questo sentiero, c’è sempre stato qualcuno che l’ha custodito con amore e tenacia. Questo mi sembra abbia fatto il monachesimo in Romania, nonostante le limitazioni, le debolezze e le afflizioni dei tempi.
La mirabile espressione dell’anonimo sihastru interpreta a fondo il tratto forse più saliente di un modo di intendere la vita, 1’impegno religioso, la cultura, che da sempre ha caratterizzato la spiritualità del popolo romeno lungo la sua storia. Ricordando le grandi figure spirituali che ho avuto l’onore e la fortuna di incontrare in questi ultimi vent’anni nei miei viaggi in Romania, io vorrei portare la mia testimonianza proprio su quel tratto. Soltanto con il tempo ho potuto approfondire la storia, la cultura, la tradizione, il contesto storico ed ecclesiale in cui inserire i volti e le biografie di quelle grandi figure che mi hanno affascinato, ma la mia ricerca era tesa proprio all’incontro con delle persone spirituali, alla condivisione della loro ricchezza spirituale che proprio in quel tratto vedevo risplendere.
Commentando il mio primo viaggio in Romania, nel 1984, tra i monasteri della Moldavia scrivevo: “Un rapporto molto stretto e naturale lega fra loro monaci e fedeli, tutti respirano lo stesso clima spirituale. La Moldavia, dove si conserva ancora intatta la struttura tradizionale del villaggio di cui il monastero rappresenta come l’appendice naturale e nello stesso tempo il centro vitale unificante, tale simbiosi ha sempre prodotto notevoli frutti culturali e spirituali. Ancora oggi questo fatto costituisce una delle caratteristiche più vistose ed originali della società romena, distinguendosi da questo punto di vista anche dagli altri paesi ortodossi”[2].
Ho pensato di ravvisare la fonte di queste due caratteristiche che si richiamano a vicenda, una di tipo più interiore (la vita come comunione), l’altra di tipo più socio-religioso (la stretta osmosi tra fedeli e monachesimo), in ciò che il famoso Libro di insegnamento del principe romeno Neagoe Basarab per suo figlio Teodosio, ha chiamato ‘dulceaţa lui Dumnezeu’: «rădăcina bunătăţilor iasti dulceaţa lui Dumnezeu»[3]. Trovo l’espressione intraducibile in italiano perché i termini ‘dolcezza’ o ‘delizia’ non rendono affatto tutto il valore affettivo di ‘dulceaţa’. ‘Dulceaţa dumnezeiasca’ comporta una dimensione, un timbro, che tocca la natura stessa della terre romene, la spiritualità (la stessa celebrazione liturgica ed il canto), gli uomini. Denota una visione, rivela un’esperienza interiore specifica, quella che è maturata nel clima della tradizione esicasta che ha permeato profondamente lo spazio spirituale dell’oriente, in particolare romeno. Un uomo spirituale riuscito, oserei dire, nella tradizione romena diventa ‘blînd’ (mite, mansueto, dolce), si riveste di ‘blîndeţe’, culmine dell’ascesi e segno di un cuore puro e pieno di amore. Questo tratto è sopravvissuto a tutte le ferite della storia, forse proprio in ragione di una risposta, a livello spirituale, a tali ferite, ieri come oggi. Se dobbiamo pensare ad una persona che ci dia l’immagine viva della dolcezza, normalmente noi uomini pensiamo ad una donna. Io invece penso a tre uomini incontrati nella mia vita, di cui due sono romeni: il padre confessore della comunità femminile del monastero di Zamfira, di cui nemmeno ricordo il nome ma di cui conservo vivi nella memoria i tratti e il volto e di p. Paisie Olaru incontrato a Sihla, una skite dipendente dal monastero di Sihăstria.
Il mio primo incontro con un monaco romeno è avvenuto all’Athos, alla skite romena del Prodromou, nella persona di p. Petroniu Tănase, nel 1982, incontro che mi ha aperto una finestra inattesa. Mi ha rapito la dolcezza struggente del suo canto liturgico, tanto che in seguito ho sempre prestato un’attenzione particolare al canto liturgico romeno. Ma, cosa ancor più rivelatrice, quella stessa dolcezza, che emanava dalla sua persona, mi ha accompagnato nel lungo colloquio che ho avuto con lui sull’esicasmo e sulla vivacità di questa tradizione in Romania dai tempi di Paisij Veličkovskij[4], tanto da convincermi a recarmi in quel paese. Stavo studiando da tempo il contesto storico e spirituale che aveva permesso l’esperienza e la conseguente pubblicazione della famosa Filocalia[5] e mi interessava vivamente incontrare uomini che di questo contesto fossero gli eredi naturali. Il progetto si realizza nel 1984, dopo aver preso contatti con p. Ioanichie Bălan, indicatomi appunto da p. Petroniu. Guidato da un così eccellente conoscitore del monachesimo romeno quale p. Ioanichie[6], allora e in seguito ho potuto avere incontri insperati, al di fuori delle vie ‘turistiche’ ufficiali, che mi hanno permesso di vivere uno spaccato di vita spirituale ortodossa romena assolutamente genuina.
Ricordo l’incontro con un sihastru, di cui conservo ancora appesa in camera mia la foto per sottolineare l’esperienza avuta. Ero arrivato a Tarcău, uno sperduto romitorio sulle montagne della regione attorno a Piatra Neamţ, dove viveva da molti anni padre Nicodim, che a quell’epoca aveva 80 anni. Gli avevo posto una domanda ben specifica. Infervorato della ‘preghiera del cuore’ gli avevo chiesto: «Padre, come posso imparare la preghiera del cuore?». E lui di rimando: «Quanti anni hai?». Rispondo: «Trentacinque». Dopo un attimo di silenzio, continuò: «Părinte, rabdare, rabdare … Padre, pazienza, pazienza!». Subito pensai che quella fosse una tipica risposta diplomatica per non dirmi nulla. Il fatto però sorprendente, che più mi ha impressionato, è che a distanza di anni quella semplice parola ‘rabdare’, proferita con quel tono di voce, non mi è più uscita dalle orecchie e dal cuore. E mi ha fatto capire molte più cose quella parola che non tante letture e spiegazioni che insistentemente ho poi cercato di avere in molti modi, indagando sul come si debba pregare, quale sia la tecnica appropriata, quella a me più adatta, ecc.
Nei testi dell’esicasmo si parla spesso di ‘preghiera pura’. Alla mia domanda di come si debba fare per pregare in modo puro, l’eremita mi ha risposto così: «Padre, non siamo più capaci di pregare in modo puro. Era una caratteristica dei nostri Padri, i quali erano molto più santi di noi. Noi non possiamo più essere a quel livello. La preghiera pura per noi oggi è la preghiera che fa scaturire nel cuore l’amore per i fratelli». Parlava un eremita che da più di trent’anni viveva in solitudine e raramente incontrava altre persone. Mi spiegava: «Vede, padre. Siamo in una foresta, qui passano pochissime persone, eppure il clima che respiro non è più il clima puro di un tempo. Respiro il clima del mondo di oggi, tormentato da angosce, passioni, dolori [eravamo in pieno regime comunista!]. Il primo compito, il più essenziale, non è allora quello di tendere alla preghiera pura, irraggiungibile, ma di tendere ad avere il cuore pieno di amore per i fratelli. E poi scopro che non posso ottenere questo senza la preghiera».
A Sihla mi aspetta la grazia di un altro incontro rivelatore, quello con p. Paisie Olaru (1897-1990). Un uomo dolcissimo, un vero ‘duhovnic’ nel senso più tradizionale e tecnico del termine: un padre spirituale e un padre confessore per vocazione. Dal 1922 si era rifugiato solitario a Cozancea, nel distretto di Botoşani, accogliendo man mano tanti figli spirituali, tra i quali anche quello che diventerà il suo figlio spirituale più illustre, il p. Ilie Cleopa. Credo sia l’esempio più unico che raro della vocazione a ‘confessore’ che la Chiesa sarà costretta a riconoscere ordinandolo sacerdote nel 1947 per evitare che i fedeli, usciti dalla sua stanza ormai consolati e benedetti, pensino che non hanno più bisogno di ricevere il sacramento del perdono. E subito dopo viene chiamato a Slatina come duhovnic della comunità che, insieme a p. Cleopa, là si era trasferita da Sihăstria su ingiunzione del patriarca Justinian che voleva rinnovare il monachesimo[7]. Quando p. Cleopa torna a Sihăstria, anche p. Paisie lo segue e lì vi resta fino alla fine della vita, con la parentesi tra il 1973 e il 1985 nel romitorio di Sihla, a pochi chilometri da Sihăstria. Era normale trovarlo di giorno e di notte nella sua cella rivestito con la stola sacerdotale, senza tonaca per essere più libero nei movimenti a causa di una infermità agli occhi, in attesa dei penitenti. Ho assistito stupito ad una scena che non doveva essere rara a Sihla. Aspettavo di entrare da lui insieme ad alcune donne che erano venute dai villaggi vicini per la confessione. Notavo che una signora chiudeva la porta appena entrava una nuova penitente, ma per socchiuderla dopo poco e stare insieme alle altre ad origliare, quando ancora la penitente era dentro. Non mi sembrava un’azione molto ortodossa! Accortasi della mia meraviglia, mi dice tranquilla e gioiosa: “quando la nostra compagna dice i suoi peccati, chiudiamo la porta; ma quando parla p. Paisie, perché non ascoltarlo tutte insieme? Così riceviamo più parole sante”. La sua benedizione, con le mani ferme sul mio capo e su quello del mio confratello, durata almeno una buona mezz’ora, mi accompagna ancora oggi. Con un tono ed un fare dolci, rammentando tutti gli episodi salienti della vita del profeta Elia come sono narrati nel libro dei Re, mi ha indicato i doni di Dio per me e come io avrei dovuto rispondervi. I suoi pensieri e i pensieri delle Sante Scritture erano diventati un tutt’uno; la sua parola evocava qualcosa che ti toccava dentro perché non semplicemente sua. Era davvero una parola spirituale.
Il figlio spirituale più illustre di p. Paisie, come ho appena ricordato, è il famoso p. Cleopa Ilie, davvero conosciuto in tutta la Romania, al quale venivano in numero foltissimo monaci e fedeli, intellettuali e dignitari ecclesiastici. E’ deceduto da poco, nel dicembre 1998, a Sihăstria, all’età di 86 anni. In lui si incrociano i destini di molti, in lui la chiesa ed i fedeli vedevano la riserva di energie per affrontare le tribolazioni e la sfida dei tempi. Dopo la caduta di Ceausescu e le dimissioni del patriarca Teoctist, poi respinte dal Santo Sinodo, la chiesa romena aveva pensato a p. Cleopa come all’uomo capace, essendo al di sopra di ogni compromesso e di provatissima esperienza spirituale, di guidare la chiesa ferita e smarrita. Quando la delegazione patriarcale arriva a Sihăstria, p. Cleopa interroga il suo padre spirituale, p. Paisie, il quale, nella sua saggezza, gli dice semplicemente: qui sei padre Cleopa, laggiù il padre Ilie Cleopa. E rifiuta. E assai saggiamente.
Per cogliere l’importanza della figura di p. Cleopa (1912-1998) vale la pena di ripercorrerne brevemente la vita. Appena adolescente, insieme ai suoi due fratelli maggiori, porta al pascolo le pecore nei dintorni della skite di Cozancea, dove si era ritirato in solitudine p. Paisie, di cui diventa discepolo. Nel 1929 chiede di entrare a Sihăstria, allora retto dall’igumeno Ioanichie Moroi, un uomo severo, di stampo athonita, che aveva saputo ridare vigore spirituale al monastero. Dal 1930 al 1942, per obbedienza, è incaricato dell’ovile del monastero. Fa il pastore. Mentre porta al pascolo le pecore, divora i libri che riesce a procurarsi al monastero di Neamţ ed essendo dotato di memoria prodigiosa memorizza ogni cosa. Non sapeva allora che questo incarico, oltre che favorirlo nel cammino spirituale per l’obbedienza compiuta nella pace e per la preghiera e le letture nei lunghi tempi passati in solitudine con le sue pecore, gli avrebbe anche salvato la vita in seguito. Girovagando continuamente sui monti, ne conosceva tutti i sentieri e quando, ricercato dalla polizia, sarà avvertito di fuggire, non c’era per lui rifugio più segreto dei suoi monti. Nel 1945 viene ordinato sacerdote e nominato egumeno di Sihăstria, morendo il p. Ioanichie Moroi. Nel 1948 ha i primi guai con il regime e si ritira per sei mesi nella foresta. Poi, per intervento del patriarca Justinian, che lo vuole a Slatina per rinnovare la vita monastica, vi si trasferisce con una trentina di monaci di Sihăstria. Subito dopo lo si vorrebbe a Neamţ, il più grande monastero della Romania, ma resiste e viene lasciato a Slatina, che diventa, nei pochi anni di vita prima di venire chiuso e dispersa la comunità, un vero centro spirituale, una ‘accademia spirituale’, sotto la cui influenza rifioriscono anche altri monasteri: Putna, Moldoviţa, Rîşca, ed evidentemente Sihăstria e Sihla.
Gettiamo uno sguardo più ravvicinato a questa realtà, perché in essa confluiscono le energie spirituali più vive. A Bucarest, dopo anni di incontri e conferenze tra un gruppo di intellettuali, laici ed ecclesiastici, interessati ed entusiasmati dalla riscoperta della tradizione ortodossa ed in particolare della tradizione esicasta, nei primi anni ’40 si costituisce una Associazione assolutamente originale, Il Roveto Ardente (Rugul Aprins)[8], per iniziativa di Sandu Tudor (Alexandru Teodorescu), poeta[9] e saggista, monaco di lì a poco al monastero Antim, arrestato e condannato ai lavori forzati nel lager sul Canale Danubio-Mar Nero nel 1948-49, schimonaco nel 1952 a Sihăstria con il nome di Daniil e poi a Rărău, nel nord della Moldavia, quindi imprigionato come del resto tutti gli altri nel 1958 e morto nella terribile prigione di Aiud nel 1961. Gli incontri avvengono tra il monastero Antim e quello di Cernica, nei dintorni di Bucarest. Vi partecipano uomini di prim’ordine: p. Benedict Ghiuş[10] (1904-1990), p. Sofian Boghiu, rifugiato dalla Bessarabia, pittore di icone, che ho incontrato più volte, p. Petroniu Tănase, Alexandru Elian, bizantinologo, Paul Constantinescu, musicista, che ha musicato la formula della preghiera di Gesù, il poeta Vasile Voiculescu, p. Vartolomeu Valeriu Anania, Alexandru Mironescu, p. Dumitru Stăniloae, André Scrima, noto in occidente come ‘un monaco della chiesa ortodossa romena’ per un suo pregevole articolo che ha fatto conoscere la realtà vivace della tradizione esicasta in Romania[11] e altri.
L’avvenimento, percepito come una rivelazione, in quegli anni, è la comparsa di p. Ioan Kulygin, rifugiato da Valaam, monaco di Optina Pustyn, vero centro spirituale per la Russia del sec. XIX, erede e animatore del movimento a cui Paisij Veličkovskij aveva dato l’avvio proprio in Romania nel sec. XVIII. Dopo la chiusura del monastero e varie peripezie, era entrato al servizio del metropolita di Rostov che con l’esercito romeno si stava ritirando davanti all’avanzata dell’armata rossa. Trova rifugio a Cernica nel 1943 fino al gennaio del 1947 quando di nuovo sarà consegnato ai sovietici e di lui si perdono le tracce. Nella sua valigia porta numerosi testi della tradizione russa, che presto verranno tradotti in romeno da p. Gheorghe Roşca, rifugiato di Bessarabia che conosceva perfettamente il russo e diffusi in un samizdat ante litteram. Si tratta del Colloquio con Motovilov di s. Serafino di Sarov, delle Lettere di Teofane il Recluso, dei Racconti di un pellegrino russo, di opere di p. Florenskij, di scritti di G. Florovskij, della Teologia mistica della chiesa d’oriente di Vl. Lossky, della famosa antologia Che cos’è la preghiera di Gesù secondo la tradizione della chiesa ortodossa, edita a Serdobol nel 1938 a cura del monastero di Valaam . Ricordo queste notizie con una certa emozione perché alcune di quelle versioni romene di p. Roşca, dattiloscritte, ho potuto averle tra le mani anch’io prima di riuscire a procurarmi i testi originali russi. Con la venuta di questo ‘starec’, tutto il gruppo ha avvertito di potersi ricollegare ad una tradizione vivente, ad una vera ‘paternità spirituale’. La stessa pubblicazione a Sibiu, in quegli anni, dei primi quattro volumi della Filocalia nella traduzione di p. D. Stăniloae, tra il 1946 e il 1948, non è soltanto da vedere come un avvenimento editoriale, ma un vero e proprio evento spirituale. Quando, con il 1948, il regime comunista scioglieva ogni associazione che non dipendesse direttamente da lui, anche Il Roveto Ardente fu sciolto e le riunioni si tennero con un numero più stretto di persone, ad Antim o in case private.
L’altro evento di quegli anni perigliosi sarà la venuta a Bucarest, verso il 1954, chiamato dal patriarca Justinian e dopo un paio d’anni di isolamento sui monti Stânişoara perché ricercato dalla Securitate, proprio di p. Cleopa insieme a p. Arsenie Papacioc e Sandu Tudor. Si ricrea lo stesso clima di emozioni spirituali davanti alle parole e alla testimonianza di uno stareţ romeno che parla della tradizione esicasta e della preghiera del cuore in modo del tutto naturale. P. Cleopa ritorna a Sihăstria, ma di lì a pochi anni si scatena la tempesta. Tra il 1958 e il 1964 tutti questi uomini e molti altri sono incarcerati, ad eccezione di p. Cleopa che, per la terza volta e questa volta per cinque anni consecutivi, si rifugia nella più totale solitudine nelle foreste attorno a Neamţ. Di quegli anni il famoso stareţ dirà: sono i miei anni di università, l’università della preghiera[12]. Nel 1964 verrà concessa l’amnistia, ma oramai nessuno ha più l’ardire di riprendere i contatti e poi si preparano nuove prove e afflizioni che a partire dal 1972 il regime, più subdolamente ma più pervasivamente, scatena contro la chiesa romena. Ma la linfa che aveva nutrito ed entusiasmato quel gruppo continua a scorrere sotterranea.
Ritorniamo alla figura di p. Cleopa per sottolineare un altro aspetto caratteristico. Nella storia romena la comparsa di una figura ‘carismatica’ che rinnova un centro monastico non significa solo rinnovamento della vita spirituale di quella comunità monastica, ma comporta sempre un irradiamento assai più vasto. Era stato così per Basilio di Poiana Mărului[13], lo è stato su scala più vasta per Paisij Veličkovskij come riportano i documenti dell’epoca: “Questo monastero è stato concesso alla vostra comunità non soltanto per la vostra fondazione, ma anche perché diventi il modello per gli altri monasteri, secondo il vostro ordinamento di vita”[14]. Lo è stato anche per p. Cleopa, al cui esempio, al cui insegnamento, dentro la cui potenza spirituale, tutta l’ortodossia romena, fedeli e monaci, attingevano forza e consolazione, dentro la vitalità di una tradizione che ancora si sentiva viva. Il gruppo che attorno a lui si era formato negli anni cinquanta fu disperso, ma a loro volta i discepoli, dopo la prigionia, furono i testimoni credibili di una vita spirituale che rinsaldava la gente e animava la loro chiesa, ormai impedita e, per certi versi, irretita nelle spire del regime. Ho avuto con lui lunghi colloqui, sia nella sua casetta in solitudine sopra il monastero di Sihăstria, sia in compagnia dei fedeli che lo stavano ad ascoltare per ore intere, anche nella notte. Sentivo che la sua ‘potenza’ spirituale era ammirata, goduta; costituiva come una coltre di protezione. La domanda che si poneva, a tratti angosciante e condivisa con altri monaci romeni, era: “sarebbero state in grado le nuove generazioni di trovare la stessa potenza o almeno la stessa vivacità spirituale? Non rischiava il monachesimo di ripararsi dietro il fascino di quest’ uomo che incarnava la stessa tradizione, senza però potersi appropriare realmente della sua forza spirituale?”. E’ quello che mi sembra sia successo negli ultimi vent’anni sia ancora sotto il regime comunista con la ricostruzione ed il ristabilimento dei monasteri come tesori d’arte, centri di storia nazionale, luoghi di tradizione e di identità, sia dopo la caduta del regime con l’affannarsi alla ricostruzione ma spesso senza il necessario rinnovamento spirituale, come invece sarebbe auspicabile[15].
Riporto due altri semplici aneddoti che mi sembrano emblematici. Una volta, trovandomi in conversazione con p. Cleopa, capitò di discutere della concezione teologica delle rispettive chiese. Mi aveva colpito il fatto di non ritrovarmi minimamente nelle parole con cui aveva riportato la posizione della chiesa cattolica. Gli chiesi su cosa basasse quel convincimento. E lui, di rimando, rientra nella cella un attimo, prende un testo e me lo mostra a riprova della spiegazione della posizione della chiesa cattolica. Con mia grande sorpresa mi accorsi che si trattava di un testo di Atanasio di Paros (1724-1813), teologo greco ferocemente antilatino, che per caso avevo avuto tra le mani nelle mie ricerche su Nicodemo Agiorita, testo che fungeva ancora da riferimento per il mio interlocutore, come se tutto quello che era stato prodotto in seguito nemmeno esistesse! Molti atteggiamenti che ho poi riscontrato in seguito nei più vari ambienti notavo essere fondati sulle stesse basi di labilità storica. Ora, se in un uomo come lui ciò deriva soltanto da una mancanza di conoscenza, in coloro che non hanno la sua potenza spirituale, oggi, come potrà essere considerato? Da allora mi ero ripromesso che non serviva discutere, ma che occorreva riappropriarsi insieme delle stesse fonti, ritornare alle stesse fonti, formarsi alle stesse fonti. Ed è con questo spirito che ho poi continuato i miei viaggi ed i miei incontri. E’ un orizzonte interiore comune quello che occorre far nascere, e fondato sulla sequela evangelica più radicale, nella più viva e creativa fedeltà alla grande tradizione ed il monachesimo, nonostante i suoi ‘zeli’ a volte smodati, è questo che è chiamato a produrre nelle chiese.
L’altro episodio risale alla visita al monastero femminile di Dealu, dove incontrai per la prima volta p. Sofian Boghiu del monastero Antim e la stareţa Eufrasia Poiana[16]. Il monastero era stato trasformato in una casa di cura e di riposo per il personale ecclesiastico in malattia e senza famiglia. Si parlava dell’obbedienza monastica. Sanno ancora cosa sia il mistero dell’obbedienza le giovani d’oggi? – mi diceva. E mi faceva riflettere su alcune situazioni nella vita dei monasteri dove si entrava forse più per sfuggire le prove della vita e ci si spostava da un posto ad un altro se non si incontrava il favore del superiore. Ma se non si è disposti ad entrare nel mistero dell’obbedienza, è possibile ritrovare il vigore spirituale? E se mancano uomini e donne che di questo mistero abbiano fatto il loro scopo di vita, come insegnarlo ancora? E’ la perenne sfida del monachesimo, se vuole restare fedele alla sua natura. La soluzione non è sicuramente quella di ridefinirsi in termini di ‘servizio’ sociale o culturale o perfino religioso[17], ma di risottolineare la carica escatologica e misterica dell’esperienza monastica nella chiesa e nella società[18].
A pescare profondo in tale ottica, a riformulare in senso attuale la visione che da questa grande tradizione promana, ci ha provato p. Dumitru Stăniloae (1903-1993), sicuramente il più grande teologo romeno del sec. XX e certamente fra i maggiori dell’Ortodossia in generale. Nella mia rassegna ho incluso solo lui proprio perché la sua ‘creazione’ teologica si può definire, come ben ha messo in evidenza Maciej Bielawski, autore di una ricerca dottorale su di lui, una visione filocalica sul mondo[19]. Accanto a p. Florovsky (1893-1979) e a p. Justin Popovič (1894-1979), rispettivamente russo e serbo, ma indipendentemente da questi, p. Stăniloae cercò di costruire una ‘sintesi neopatristica’, creando un approccio esistenziale alla genuina tradizione dei Padri della Chiesa. Tutta la sua vita la dedicò a tale scopo. Importanti, nel suo lavoro, non sono le singole idee o trattazioni, bensì una visione d’insieme, una tensione di fondo positiva nel vedere Dio legato al mondo creato da Lui piuttosto che il mondo che ha perduto Dio. La teologia è appunto la fatica di vedere l’Invisibile e di guardare al mondo e all’uomo attraverso i Suoi occhi. Non semplicemente ‘legge’ la tradizione, ma la legge in modo originale, profondo, interrogante. La visione del mondo e della vita è strettamente legata alla purificazione spirituale e all’ascesi dell’uomo ed è la visione di Dio che cambia l’intelligenza umana del mondo. Nelle sue virtù e nei suoi difetti p. Stăniloae resta legato al contesto del villaggio rurale romeno tradizionale dove era nato, vivendo in modo particolare la fusione tra Ortodossia e cultura rurale romena che riunisce una concezione poetica, una percezione del cosmo e valori morali definiti. Ha tradotto e commentato numerosi Padri della Chiesa (Massimo Confessore, Atanasio e Cirillo di Alessandria, Gregorio di Nissa, Dionigi Areopagita, nonché i testi patristici raccolti nella voluminosa edizione della sua Filocalia in 12 tomi). Una svista delle autorità statali per la censura ha permesso la pubblicazione delle sue lezioni sull’ascetica e mistica cristiana del 1947 come terzo tomo dell’opera ‘Teologia Morale Ortodossa’, avvenuta nel 1981. L’ho incontrato più volte nella sua casetta, zeppa di libri in ogni lingua (di alcuni testi patristici ero riuscito a fargli avere la copia che poi ha sfruttato per le sue traduzioni), a Bucarest, quando aveva deciso di rifiutare gli inviti all’estero per non lasciare sola l’anziana moglie, a lui devota. Teologia e vita in lui si fondevano, il suo pensare era un orientare il vivere e citare i Padri per lui era un riflettere dentro la vita. I temi della sua riflessione teologica che fanno da perno sono ‘persona’ e ‘comunione’, punti nevralgici del vivere ecclesiale e sociale e della comprensione dell’uomo, sebbene lui li coniugasse in un personalismo comunitario di tipo ‘nazionalistico’, come se appartenesse alla vocazione romena ortodossa una misura, un’armonia che farebbe difetto ai greci come agli slavi, all’est come all’ovest, posizione evidentemente assai debole[20]. Debolezza, questa, che registro spesso nella Romania di oggi sia in campo religioso (vedi il confronto e la convivenza fra le diverse confessioni cristiane) che culturale (vedi il dibattito sulla modernità ed il rapporto con l’occidente) e che mi auguro venga superata con la fierezza di chi sa di poter contare su una tradizione ricca e preziosa e con l’umiltà di chi lotta con l’altro, come Giacobbe lottò con l’angelo, per poter chiedere una benedizione.
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[1] Vedi I. Bălan, Pateric românesc, Institutul biblic, Bucureşti 1980, p. 621.
[2] LA VOCE ALESSANDRINA, 28 luglio 1984, n. 30, p. 5.
[3] In romeno vedi Învăţăturile lui Neagoe Basarab către fiul său Theodosie. Texte ales şi stabilit de Florica Moisil şi Dan Zamfirescu, traducerea originalului slavon G. Mihăilă, repere istorico-literare alcătuite în redacţie de Andrei Rusu, Minerva, Bucureşti 1984, p. 125. In italiano vedi Come vivere e praticare l’esichia. Libro di insegnamento del principe romeno Neagoe Basarab per suo figlio Teodosio. Traduzione, studio introduttivo e note a cura di Adriana Mitescu, Bulzoni, Roma 1993 (biblioteca di cultura, 480), p. 69. Il passo è tratto dal cap. V, Discorso sul timore e l’amore di Dio, conservato solo nella stesura romena.
[4] Autore e movimento spirituale che, proprio in seguito ai miei viaggi in Romania, ho potuto approfondire. Si vedano i miei : PAISIJ VELIČKOVSKIJ, Autobiografia di uno starets, Scritti monastici, Abbazia di Praglia 1988 ( tradotta in francese nella collana ‘Spiritualité orientale’, n. 54, Abbaye de Bellefontaine 1991), ripubblicato presso le ed. Qiqajon, Comunità di Bose 1998; La scuola filocalica di Paisij Veličkovskij e la Filocalia di Nicodemo Aghiorita. Un confronto, in T. SPIDLIK, K. WARE E AA.VV., Amore del bello. Studi sulla Filocalia, Qiqajon, Comunità di Bose 1991, pp. 179-207; La dottrina spirituale dello starets Paisij. Radiografia di una comunità in N. KAUCHTSCHISCHWILI, A.-AI. N. TACHIAOS e AA.VV., Paisij, lo starec, Qiqajon, Comunità di Bose 1997, pp. 55-82.
[5] Ed. greca, Venezia 1782; ed. slavonica, Dobrotoljubie, Mosca 1793.
[6] Il p. Ioanichie BĂLAN ha composto una serie di volumi che costituiscono, pur senza una adeguata documentazione storica e tenendo conto della censura comunista, una buona sintesi della tradizione monastica romena: Pateric românesc, Bucureşti 1980, Galaţi 1990; Vetre de sihastrie româneasca, Bucureşti 1982; Convorbiri duhovniceşti, Roman, vol. I, 1984, 1993 (Tr. italiana: Volti e parole dei padri del deserto romeno. Introduzione, traduzione e note a cura della Comunità dei Fratelli Contemplativi di Gesù, Qiqajon, Comunità di Bose 1991), vol. II, 1988, 1990. L’impresa è nata dall’esigenza, di fronte alla capacità distruttiva del regime, di documentare il più possibile la fecondità spirituale della tradizione romena.
[7] Dal punto di vista dei rapporti Stato-Chiesa, in particolare per il programma di ‘apostolato sociale’ che il patriarca Justinian Marina ha teorizzato, si veda lo studio ben documentato di Olivier GILLET, Religion et nationalisme. L’idéologie de l’Eglise Orthodoxe Roumaine sous le régime communiste, Editions de l’Université de Bruxelles, Bruxelles 1997 (Spiritualités et pensées libres), specialmente le pp. 17- 45 ; e più in generale, per una valutazione della situazione romena sotto il regime comunista, Trevor BEESON, Discretion and valour. Religious conditions in Russia and eastern Europe, revised edition, Fortress Press, Philadelphia 1982, pp. 350-379.
[8] Si veda André SCRIMA, Timpul rugului aprins. Maestrul spiritual în tradiţia răsăriteană. Prefaţă de Andrei Pleşu. Volumul îngrijit de Anca Manolescu, Humanitas, Bucureşti 1996 [versione italiana a cura di Adalberto mainardi: A. Scrima, Il Padre spirituale, Qiqajon, Comunità di Bose, 1999]. Una buona documentazione si trova in Mihai RĂDULESCU, Rugul aprins. Duhovnicii ortodoxiei, sub lespezi, în gherlele comuniste, Bucureşti 1993. Una testimonianza di un altro partecipante è quella di ROMAN BLAGA (ora egumeno in un monastero ortodosso in Michigan, USA), Rugul Aprins, «Lumină lină», nr. 2 (mai 1991), pp. 117-128, ripreso nel volume Pe drumul credinţei, Mănăstirea Adormirea Maicii Domnului, HDM Press, 1995, pp. 171-183. Si veda ancora Antonie Plămădeală, Rugul Aprins — moment de spiritualitate românească, «Sæculum. Revistă de sinteză culturală» (Sibiu 1995), serie nouă, Anul I (III), nr. 3–4 (12); Ieroschimonahul Daniil Sandu Tudor, Taina Rugului Aprins. Scrieri şi documente inedite, Anastasia, Bucureşti 1999. Di prossima apparizione IOAN I. ICĂ Jr., Il Roveto ardente. Una fioritura dell’ideale esicasta all’alba del comunismo in Romania, in Testi e temi nella tradizione del monachesimo cristiano (Atti del simposio al Pontificio Ateneo S. Anselmo, Istituto Monastico, Roma 28 maggio – 1 giugno 2002).
[9] Assai significativo del clima e del livello spirituale di questo cenacolo è la sua composizione Acatistul Rugului Aprins, del 1950, edito a Madrid nel 1983.
[10] Su di lui, oltre che nei volumi di p. Ioanichie Bălan, si veda anche Mircea PĂCURARIU, Dicţionarul teologilor români, Univers enciclopedic, Bucureşti 1996, p. 188
[11] UN MOINE DE L’EGLISE ORTHODOXE ROUMAINE, L’avénement philocalique dans l’Orthodoxie roumaine, «Istina» 5 (1958), pp. 295-328, 443-474.
[12] A questi anni risale la composizione, edita molto più tardi, di quella che è forse l’opera più ‘esicasta’ di p. Cleopa: Urcuş spre înviere (Predici pentru monahi, Predici filocalice), Editura Mitropoliei Moldovei şi Bucovinei, Iaşi 1992, 1998. Si veda anche I. BĂLAN, Viaţa şi nevoinţele arhimandritului Cleopa Ilie, Iaşi 1999.
[13] Si veda Dario RACCANELLO, La preghiera di Gesù negli scritti di Basilio di Poiana Mărului, Alessandria 1986 (tr. romena: Rugăciunea lui Iisus în scrierile stareţului Vasile de la Poiana Mărului, Deisis, Sibiu 1996).
[14] Cfr. la lettera del principe Costantino Moruzi con la quale ordinava a Paisij di trasferirsi a Neamţ, come riportato nella biografia di GRIGORIE DASCĂLUL, Povestire din parte a vieţii prea cuviosului părintelui nostru Paisie [1817], in D. ZAMFIRESCU, Paisianismul. Un moment românesc în istoria spiritualităţii europene, Bucureşti 1996, p.128.
[15] Valga per tutti l’esortazione del metropolita Serafim Joantă, Nevoia de înnoire a monahismului, «Deisis», 3-4, 1996, pp. 24-26.
[16] Sul monastero e su di lei si veda p. Ioanichie BĂLAN, Volti e parole dei padri del deserto romeno. Introduzione, traduzione e note a cura della Comunità dei Fratelli Contemplativi di Gesù, Qiqajon, Comunità di Bose 1991, pp. 193-200.
[17] Troppo ‘ideologicamente’ il metrop. Antonie PLĂMĂDEALĂ, Tradiţie şi libertate în spiritualitatea ortodoxă, Sibiu 1983, configura il ruolo del monachesimo nel contesto del sistema di pensiero del regime. Una visione della situazione dopo la caduta del regime si può vedere nella rivista DEISIS. Revistă de Spiritualitate şi Cultură Ortodoxă , n. 3-4, 1996, a cura della metropolia ortodossa romena per la Germania e l’Europa centrale : Monahismul în Ortodoxie.
[18] Una voce singolare nel panorama monastico romeno è quella di Nicolae STEINHARDT ( Nicolae Delarohia) (1912-1989), ebreo convertito e battezzato nelle carceri comuniste, monaco dal 1980 a Rohia, nel Maramureş, senza cessare dalla sua attività di saggista e cronista letterario, musicale e artistico, di cui è stato pubblicato in italiano il Diario della felicità, EDB, Bologna 1996. Interessanti, per lo spirito libero e profondo con cui le pronuncia, le sue omelie: Dăruind vei dobîndi. Cuvinte de credinţă, Baia Mare 1992.
[19] Maciej BIELAWSKI, Părintele Dumitru Stăniloae, o viziune filocalică despre lume, Deisis, Sibiu 1998. Ricchissimo di informazioni e contenente la bibliografia completa del grande teologo: Persoană şi comuniune. Prinos de cinstire Părintelui Profesor Academician Dumitru Stăniloae la împlinirea vârstei de 90 de ani, sub îngrijirea diac. Asist. Ioan I. Ică jr., Sibiu 1993.
[20] Queste vedute sono riassunte ed espresse nel suo Reflexii despre spiritualitatea poporului român, Scrisul Românesc, Craiova 1992. A livello più generale, per chi si interessa di cultura romena, credo sia proficua per la comprensione di questo tipo di ‘debolezza’ la lettura di Lucian BOIA, Istorie şi mit în conştiinţa românească, Humanitas, Bucureşti 1997.