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Rimini, 2 dicembre 2000 – Istituto di scienze religiose “Alberto Marvelli”

Senza dilungarmi, per non ripetere cose già note, mi paiono necessarie due brevi premesse. La prima, una questione di termini. Quando diciamo: vita spirituale, vita religiosa, vita interiore, spesso intendiamo la stessa cosa, ma in realtà si tratta di cose diverse. Un uomo può avere una vita interiore intensa, ma non avere una vita religiosa; oppure, si può vivere una certa vita religiosa senza avere una buona vita spirituale. C’è ‘vita religiosa’ quando si sperimenta in qualche modo una qualunque relazione con Dio, sebbene la religione che si vive si riduca spesso a determinate pratiche od opere buone; ‘vita interiore’ quando la vita di un uomo prende uno sviluppo cosciente, più o meno autonomo, come in certi poeti ed artisti che, pur essendo indifferenti verso la religione od apertamente ostili, possono sperimentare e comunicare una ricchezza d’immaginazione, di pensieri e di sentimenti tutta propria; si arriva alla ‘vita spirituale’ solo quando la vita interiore si sviluppa non nell’isolamento, ma nella coscienza di una realtà spirituale trascendente. E quando questa realtà trascendente viene riconosciuta come ‘Qualcuno’, allora la vita spirituale sarà anche, nel medesimo tempo, vita religiosa.

La seconda, per ricordare le tre tensioni che innervano ogni vita spirituale ed ogni spiritualità: la tensione verso l’Assoluto nella ricerca della verità e del senso dell’esistenza; la tensione per una crescita interiore, desiderata come un processo di realizzazione di se stessi; ed infine la tensione di una relazione, nel segno della sottomissione all’azione dello Spirito.

UNO SGUARDO NELLA STORIA.

1) Vita spirituale e santità. Vocazione e vocazioni.

Il Concilio Vaticano II, con il cap. 5 della Lumen Gentium[1], ha consacrato come acquisito in modo nuovo alla coscienza ecclesiale il dato tradizionale della universale vocazione alla santità nella chiesa. Paradossalmente, negli anni successivi, si registrava nettissimo il declino del culto dei santi a favore, giustamente, della centralità della Parola di Dio e della figura di Cristo, ma con la conseguenza o, forse meglio, la concomitanza, della messa in sordina dello stesso ideale di santità, come se la possibilità dell’esperienza stessa di Dio, tratto peculiare della santità, non fosse più percepito come costitutivo dell’essere cristiani e dell’essere chiesa.

La coscienza odierna è estremamente sensibile alla cultura cosiddetta dell’autenticità[2], dove l’aspirazione all’auto-realizzazione non deve essere vista come una concessione all’individualismo, all’egoismo autoindulgente, permissivo, ma in funzione di un certo ideale che ha presa sulla coscienza stessa. Nel definire il  movimento dalle molte facce che caratterizza la nostra cultura e che si potrebbe chiamare ‘soggettivizzazione’, occorre distinguere due aspetti tra i quali corre una differenza importante: uno concerne la maniera e l’altro il contenuto dell’azione. A livello della maniera in cui abbracciamo una qualunque meta o forma di vita, l’autenticità è palesemente auto-referenziale: l’orientamento che scelgo deve essere il mio orientamento. Ma ciò non significa che, ad un altro livello, il contenuto debba essere anch’esso auto-referenziale. Anzi, l’appagamento si ottiene solamente in qualcosa che ha un significato oltre e indipendentemente da noi o dai nostri desideri. Confondere questi due livelli è disastroso.  Solamente il primo è ineluttabile, nel senso che è inammissibile un ritorno all’indietro che ci riporti a prima dell’epoca dell’autenticità, mentre il secondo, se viene confuso col primo, finisce per fornire legittimità alle peggiori forme di soggettivismo.

I termini precisi del problema per la coscienza moderna credo siano i seguenti: se l’autenticità significa recuperare un contatto morale autentico con noi stessi, che è fonte di gioia e di appagamento, se significa essere fedeli a noi stessi, allora si può trovare compiutamente la  propria realizzazione soltanto se riconosciamo che questa tensione interiore ci congiunge a una totalità più ampia. Noi abbiamo perso  il senso di appartenenza operante attraverso un sistema dato di valori  e questa perdita va compensata con il senso, più forte e più intimo, di un legame. L’ideale di santità lo porrei qui a condensare e a svelare la forza e l’intimità di quel legame che ci viene dall’alto e ci costituisce nell’intimo e fonda le condizioni per lo sviluppo di una sana vita spirituale.  Rientra nella capacità e nel dovere di mediazione della chiesa, attenta alla voce di Dio e alle esigenze dei cuori, proporre questo ideale di santità in tutta la sua rilevanza. La posta in gioco è la vivacità stessa della trasmissione della fede. Chiaramente la più convincente articolazione di quel ‘legame’ per gli uomini del nostro tempo appartiene alla genialità e fecondità dell’esperienza cristiana  testimoniata dai santi in carne ed ossa. E quando preghiamo perché il Padre mandi operai per la sua messe (cfr. Lc 10,2) preghiamo Dio perché continui a fare dono di Sé agli uomini attraverso i suoi santi, come ha fatto dono di Sé nel Figlio, il Santo, che ha rivelato il Suo volto agli uomini.

Nella nostra tradizione latina parliamo, rispetto alla vita religiosa, di ‘consigli evangelici’. Ebbene, nelle fonti orientali, non si trova mai l’espressione ‘consigli evangelici’; si trova sempre l’espressione ‘comandamenti evangelici’, ‘comandamenti del Signore’, valevoli per tutti e che, evidentemente, ciascuno è chiamato a vivere nel proprio stato di vita. Ma i comandamenti del Signore valgono per tutti. E’ lo stesso principio della vocazione alla santità, cioè il seguire il Signore fino in fondo: vale per tutti.

E ancora. Nella nostra tradizione latina siamo abituati ad accentuare la distinzione delle vocazioni. Diciamo che ci sono tanti tipi di vocazione. Come riconoscere la propria? Una volta domandavo ad un gruppo di suore: “Come fate a sapere che avete scelto la strada giusta, che la vostra vocazione è quella davvero che fa per voi?”. Una mi risponde: “Se sento di pregare con fervore…”. “Perché? Una che prega con fervore deve per forza farsi suora?”. Un’altra aggiunge: “Quando sento che voglio fare del bene …”. “Ma non deve essere di tutti volere fare il bene?”. Voi, che cosa rispondereste? Io ricordavo loro questo semplice principio di discernimento: “Puoi essere sicura della tua scelta quando, vedendo un’altra persona che ha ricevuto un dono diverso  (per esempio, quando vedi una coppia di sposi o di fidanzati che si abbracciano) tu sei contenta per lei, più contenta di lei. Quando registri che tu sei contenta della vocazione di un altro, allora vivi la tua vocazione al cento per cento”. Vocazione, prima di tutto, dice rapporto al dono di Dio in funzione della santità dell’insieme, della chiesa; solo secondariamente si riferisce al particolare stato di vita, a me conveniente, nel quale realizzare quella santità dell’insieme, accogliendo quel dono tra tanti doni, tutti dati per il medesimo scopo. Se non riesco a vedere il dono dello Spirito Santo in un altro, vuol dire che non c’è neanche in me. Significa che mi metto su di un piedestallo, che mi sto illudendo, che mi arrogo il dono di Dio. Se in me non agisce lo Spirito, come posso vivere la mia vocazione?  Se la nostra vocazione non si specchia nella vocazione dell’altro, ci manca qualcosa, perché in effetti ogni vocazione è ‘ecclesiale’ ed è tale in quanto simultaneamente riconosce quella altrui. Deve valere anche per noi occidentali il principio dell’unica spiritualità!

Affrontando ora più direttamente il tema propostomi, vorrei introdurmi con un testo che trovo particolarmente adatto al contesto di questa sera. Mi trovo in un centro di ricerca teologica, davanti a persone che in un modo o nell’altro, più o meno nobilmente e sinceramente, hanno deciso di impegnare la propria vita, oltre che le proprie capacità, dentro il mistero della conoscenza di Dio, nodo cruciale per cogliere il senso della vita, per rispondere ai desideri dei cuori ed alle responsabilità etiche e sociali che strutturano il nostro essere. Si tratta dell’elogio di Gregorio il Taumaturgo a Origene[3], l’elogio di un discepolo al suo maestro. E’ una testimonianza diretta sull’insegnamento, il programma, i metodi del grande teologo ed i sentimenti che provavano maestro e allievi ad Alessandria come a Cesarea, in un certo senso anticipazione di quella che sarà la grande ‘ricerca’ monastica nei deserti egiziani e palestinesi, esperienza che tanto ha segnato la storia della spiritualità cristiana di ogni tempo. Gregorio il Taumaturgo frequenta la scuola di Origene a Cesarea per cinque anni (tra il 233 e il 238 ca) dove l’insegnamento era partecipato in un contesto di vita comune con una accentuata vita di preghiera e di contemplazione spirituale. Segnalo alcuni passi significativi:

“ Egli [Origene] si sforzava di darci la padronanza e la conoscenza, non della scienza che concerne gli impulsi dell’anima, ma di quegli impulsi stessi … Ci costringeva, se ci è permesso parlare così, a praticare la giustizia con l’attività propria dell’anima a cui ci convinceva di aderire; ci stornava dalla molteplicità degli affari di questa vita e dal tumulto della piazza, invitandoci a esaminare noi stessi e ad occuparci dei nostri affari veritieri [] (XI, 137-138).

“ Ci aveva dato, grazie alla sua virtù, l’amore per la giustizia …, per la prudenza …, per la temperanza …, per la fortezza …, per la nostra pazienza e soprattutto per la pietà, che è la madre di tutte le virtù … Il fine di ogni uomo non è altro, a mio avviso, che avvicinarsi a Dio fatti a Lui simili per la purità dell’intelligenza e dimorare in Lui [] (XII, 148-149).

“ Spiegava e rischiarava ciò che c’era di enigmatico, poiché sapeva ascoltare Dio in tutta intelligenza… Egli è il solo tra gli uomini di oggi che io conosca personalmente o per sentito dire ad essersi esercitato a raccogliere nella sua anima gli oracoli luminosi e puri e ad insegnarli agli altri. In effetti, l’autore di tutte le cose, che risuona nei profeti amici di Dio e detta loro ogni profezia, ogni parola mistica e divina, l’ha onorato come suo amico e ne ha fatto l’interprete di questi oracoli… Tutto ciò che dice non ha altra fonte a mio parere se non una comunicazione dello Spirito divino  []: la stessa potenza infatti è necessaria a quelli che profetizzano e a quelli che ascoltano i profeti e nessuno potrà ascoltare un profeta se lo Spirito stesso che ha profetizzato in lui non gli ha accordato l’intelligenza delle sue parole…. E’ per questo che nulla ci restava segreto, nulla nascosto e inaccessibile; al contrario, ci era possibile imparare ogni scienza, barbara o greca, mistica o politica, divina e umana, poiché, in tutta libertà, tenevamo conto di tutto e tutto scrutavamo, ci riempivamo di tutto e godevamo dei beni dell’anima (XV, 174-182).

Potremmo sintetizzare il messaggio di questi testi così: l’essenziale è avere lo Spirito del Signore, il quale ci rende simili a Cristo purificandoci da tutto ciò che ce lo nasconde e permettendoci di aprirci al mistero della fraternità umana in tutta la sua concretezza, in un vero interesse per le cose umane e per la verità dell’uomo. Del resto, è quanto dirà stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera Tradizione. Cos’è la perfezione, cos’è la santità?  “Desiderare sopra ogni cosa di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”[4].

2) L’idea-forza della pratica cristiana: la ‘sequela Christi’.

Per gettare uno sguardo d’insieme sulle molteplici forme di vita ascetica e spirituale sviluppatesi nei secoli non trovo di meglio che rifarmi all’idea-forza della pratica cristiana, così come è presentata dall’evangelista Luca, autore del terzo vangelo e degli Atti degli apostoli, quella cioè della ‘sequela Christi’. L’Evangelo, la Buona Notizia, che costituisce anche l’Annuncio Nuovo compimento di tutta la Rivelazione, si riassume in questo: Dio ci ha riconciliato a Sé in Cristo. Come dice l’apostolo: “Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2 Cor 5,18-20).

L’ultima strofa dell’inno delle Lodi del Comune degli Apostoli, nel breviario monastico, canta:

Su voi, resi saldi in eterno,

s’edifica e innalza la Chiesa

che eterna, riversa sul mondo

da Dio, come un fiume, la pace.   Amen.

Trovo che sia una delle espressioni più belle che definiscono la chiesa, la comunità dei credenti. La storia della chiesa, la nostra piccola storia quotidiana rivela la verità di questa espressione: “che eterna, riversa sul mondo da Dio, come un fiume, la pace” ? Chi ci avvicina, a livello personale e comunitario, sente innanzi tutto questo? “Lasciatevi riconciliare con Dio” vuol dire: lasciatevi invadere da questo fiume di pace, lasciate che questo fiume di pace risani i vostri cuori.

Nella nostra storia personale, prima di tutto con Dio ( ricordate il passo del vangelo in cui Pietro domanda a Gesù quante volte deve perdonare al fratello che manca nei suoi riguardi. Gesù gli risponde che deve perdonare non sette volte, ma settanta volte sette, cioè sempre. Il passo però va letto così. Devi perdonare al tuo fratello quante volte hai bisogno di domandarlo al tuo Dio, cioè sempre.) e poi con gli uomini ( si parla troppo di amore, carità e troppo poco delle condizioni che lo rendono possibile e veritiero ), pace significa essenzialmente riconciliazione. L’abbiamo appena menzionato: “Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo … affidando a noi la parola della riconciliazione … E poiché siamo suoi collaboratori…”. Collaboratori a che cosa? All’opera della riconciliazione. Quanto è urgente allora allargare i confini del cuore per percepire l’opera divina della riconciliazione in atto nella storia! Grazia, redenzione, salvezza, tutti termini che esprimono la realizzazione della riconciliazione tra Dio e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, tra l’uomo e il mondo, in Cristo. Come possiamo ‘rivelare’ la presenza di Dio nel mondo? Come collaboratori della sua opera di riconciliazione.

L’annuncio della fede, la celebrazione dei sacramenti, la testimonianza della carità, non tendono ad altro: lasciatevi riconciliare con Dio! Dove ‘riconciliazione’ non significa “Dio si riconcilia con  noi, riconcilia se stesso con noi”, ma solo “Dio riconcilia con Sé noi”. Si tratta di un’iniziativa divina, che trasforma, non Dio stesso che da sempre rivela la sua volontà di grazia verso gli uomini, ma l’uomo. E quando Gesù invia i suoi apostoli, li invia come annunciatori di questa iniziativa di Dio e li invia proprio a scongiurare in nome suo gli uomini perché si riconcilino con Dio. Ed è proprio questa rivelazione dell’infinito e traboccante amore di Dio , per il quale né il sacrificio del Figlio è un prezzo troppo alto né è umiliazione scongiurare gli uomini, a trasformare tutto il nostro modo di essere. Dio è in pace con noi, Dio offre la sua pace a noi, Dio ci invita a vivere nella sua pace, riassume  la rivelazione del Padre, in Gesù,  nella potenza dello Spirito.

L’antica domanda: “come conoscere Dio?” ormai ha in questo annuncio la nuova risposta, definitiva nel suo mistero nel senso che non esiste un ‘oltre’ al di là del quale si possa andare (“È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità”, Col 2,9), ma perennemente nuova e personale per ciascuno nel senso del percorso infinito, cioè mai concluso, che compie il cuore per viverne intera la verità .

È la risposta di chi si fa discepolo del Signore Gesù, che s. Luca descrive in tre tratti caratteristici:

– il discepolo perfetto rinuncia a tutti i beni (ha trovato la perla di grande valore, il tesoro nel campo) diventando capace di condivisione con tutti sia in senso materiale che spirituale[5].

– il discepolo di Gesù perdona. Il perdono è in funzione dell’esperienza della gratuità dell’amore misericordioso del Padre. La comunità degli uomini non può  vivere l’innocenza che  come peccatori pentiti e riconciliati e non può muoversi all’amore che nell’amore sperimentato come perdono. Dall’ esperienza di tale gratuità proviene la necessità del perdono come segno della salvezza ottenuta e l’amore degli uomini si fa testimonianza della potenza dell’amore di Dio[6].

– il discepolo vive nella pazienza, intesa come fedeltà nelle prove, in funzione della testimonianza del Risorto. Qui confluiscono tutti i richiami e gli avvertimenti all’attenzione, alla lotta contro il maligno, alla fatica nel cammino spirituale, alla costanza nella sequela, al cammino della croce sia nella vita interiore che esteriore, al dramma della lotta per la giustizia.

3) Valori nella scala di perfezione del discepolo di Cristo.

Come sono stati vissuti nella storia questi tratti del discepolo perfetto? Un autorevole esegeta, B. Gerhardsson[7], ha spiegato la parabola del seminatore (Mt 13,1-9. 18-23) sulla base della confessione di fede ebraica quotidiana, lo Shema’ Yisra’el.  Le tre possibilità con le quali si deve ascoltare-amare l’unico Signore sono : “con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza” . Nell’interpretazione rabbinica tradizionale, “con tutta la tua anima” significa “anche se ti chiede la tua anima”, vale a dire fino al martirio; mentre “con tutta la tua forza” significa “con tutte le tue ricchezze”. Nella parabola, quelli che sono indicati come il terreno buono, si dividono in tre categorie: quelli che producono il cento per uno, il sessanta, il trenta. Ora, coloro che producono il cento per uno sono quelli che hanno un cuore così obbediente che sono capaci di sacrificare non solo quello che posseggono, ma anche la cosa più preziosa di tutto, la loro vita e sono i martiri; coloro che producono il sessanta sono quelli che hanno un cuore obbediente e che distribuiscono i loro beni, ma non hanno l’occasione di dare la propria vita; coloro che producono il trenta hanno un cuore obbediente e unito, ma non hanno l’occasione né di offrire la loro vita né di dare quanto posseggono per testimoniare il loro amore a Dio.

Nell’interpretazione cristiana tradizionale il seme che frutta al cento per uno è applicato ai martiri, quello che frutta al sessanta per uno alle vergini. Il martirio è la massima perfezione cui un discepolo di Cristo può pervenire. Il martirio è l’imitazione più sublime di Cristo, conduce all’unione con lui, fa diventare partecipi di Cristo, ci fa raggiungere Cristo[8]; allora è pure la perfezione e l’ideale a cui aspirare. Nel quarto libro degli Stromata  Clemente Alessandrino identifica martirio e perfezione: “chi muore per la propria fede ha compiuto l’opera dell’amore perfetto” (IV, 4, 14, 3). Ma non a tutti è dato di morire per Cristo. Allora l’impegno per acquisire la virtù è visto come preparazione al martirio e ogni forma di vita verginale e ascetica è vista come  l’espressione del martirio della coscienza, come martirio di desiderio. La vita verginale è un frutto tipicamente cristiano, sbocciato nel solco del discepolato a Cristo e nell’imitazione della sua vita. Come definire la grazia della verginità? Particolarmente suggestiva e sintetica trovo l’espressione di s. Agostino a proposito della gioia delle vergini cristiane, le quali gioiscono “di Cristo, in Cristo, con Cristo, secondo Cristo, mediante Cristo e a motivo di Cristo”[9]. Vale per le vergini in particolare quello che è detto per tutti i discepoli di Cristo: “Giorno e notte la parola di Dio risuoni sulle tue labbra, la lettura delle Sacre Scritture sia in ogni tempo la tua occupazione. Procurati un Salterio e impara i Salmi. Il sole, quando tramonta, trovi la Bibbia fra le tue mani”[10].

La comparsa successiva del monachesimo non fa mutare ottica: i monaci sono i nuovi martiri. Il merito dell’ascetica e del monachesimo continua ad essere misurata sul metro del martirio, ma si approfondisce la dimensione contemplativa dei cuori in rapporto al mistero di Cristo ed il valore di profezia del secolo futuro. La semplice analisi del termine ‘monaco’ ci scopre tutta la densità di questa tipica esperienza ecclesiale che ha segnato così profondamente tutta la spiritualità cristiana. Monaco deriva dal greco ‘μονος’, che vuol dire solo, unico e ricopre quattro significati:

  1. definisce il monaco nella sua scelta di solitudine, nel senso che si allontana da tutto e da tutti per vivere in solitudine. E’ l’anacoreta, l’eremita, il testimone dell’ “unicum” necessario.
  2. si riferisce a coloro che hanno rinunciato e al matrimonio e ai beni di questo mondo. Monaco dice anzitutto verginità.
  3. monaco vuol dire ‘solo’ non nel senso di ‘solitario’, significato di per sè negativo, ma nel suo significato positivo, vale a dire ‘colui che non è attaccato a nulla in modo da non impedirsi di vivere unito ai suoi fratelli’, è colui che vive in un ‘cenobio’, in una comunità di fratelli.
  4. monaco ha anche il significato di ‘unico’ nel senso di ‘unificato’, vale a dire colui che, staccato da tutto per poter essere unito a tutti i fratelli, deve poter essere unito in se stesso perché è unito totalmente al suo Dio.

La parola è tutta un programma, e non solo per coloro che professano la scelta di vita monastica, ma per tutti coloro che vogliono vivere da discepoli di Cristo, ognuno secondo la propria scelta di vita. Da notare che nell’esperienza spirituale la radice è posta in alto, all’opposto di quanto avviene nel mondo materiale. Non so se avete mai visto la raffigurazione dell’uomo come un albero le cui radici sono in alto e i rami con i frutti in basso. Gli uomini sono animali siffatti, con le radici in cielo e i rami in terra. Così per ogni cosa spirituale: l’origine viene dall’alto, da Dio; i frutti si vedono in basso, nella nostra condizione terrena. Alla coppia di simboli alto-basso, corrisponde l’altra interiore-esteriore, dentro-fuori. Ciò che viene dall’alto è ciò che è interiore, ciò che viene da dentro, dal cuore, luogo della presenza di Cristo in noi.

Così, nel primo millennio della storia cristiana, in oriente e in occidente, i valori nella scala di perfezione del discepolo di Cristo restano: martirio, verginità, monachesimo. E i discepoli perfetti restano: i martiri, i vergini, i monaci.

Nel secondo millennio si assiste ad una diversificazione delle figure tra oriente e occidente. Mentre in oriente prosegue ininterrotta ed unica la linea monastica con lo sviluppo della tradizione esicasta che monopolizza il discorso sulla santità, in occidente si fa strada una nuova accentuazione. Vediamo i due sviluppi distintamente, evidentemente per accenni.

  1. A) Occidente.

Ho scelto di considerare lo sviluppo della spiritualità cristiana in occidente secondo tre momenti, in tre tappe.

Prima tappa, secoli XI-XII: la nascita della ‘fraternitas’.

Fermenti e movimenti nuovi iniziarono a rinnovare la cristianità, a partire dal secolo XI, proprio rivendicando una santità per tutti. Coloro che diedero voce all’aspirazione generale alla santità da realizzare nella Chiesa furono i ‘frati’, gli Ordini mendicanti, Domenicani e Francescani. Interpretarono in forma nuova l’esigenza primaria del modello monastico della ‘fuga mundi’, come spiegherà s. Tommaso d’Aquino : “Si può essere nel mondo in due maniere. La prima con la presenza corporale, la seconda con l’attaccamento del cuore. I religiosi che si votano alle opere della vita attiva restano nel mondo con la loro presenza corporale, ma ne sono al di fuori quanto all’attaccamento del cuore “ (Summa theologiae, II, II, q. 188, a. 2, ad 3). Si cerca un nuovo rapporto col mondo e con la storia. Basti pensare alla nascita delle Università che coincide con questo fiorire degli ordini mendicanti, i quali ne costituiranno il vero asse portante. Con Francesco d’Assisi non siamo più di fronte al monaco che fugge il mondo, né al monaco che, convertendo il mondo, lo conquista, ma al fratello, a colui che si sente ‘minimo’ fra tutti, che ama il mondo. La povertà di Francesco è una ricerca di libertà e l’amore può così irradiarsi e abbracciare tutta la creazione e tutta la storia umana. La povertà, con l’umiltà e la gioia che l’accompagnano, assai più di una spoliazione di beni, è vissuta come assenza di rivendicazioni, di diritti, per vivere in rapporti fraterni, con il creato e gli uomini, senza proprietà. Il cammino, esigente, va percorso con la pazienza, l’umiltà e la gioia che Dio stesso possiede e che è. Gioia che si sperimenta nella meditazione della parola di Dio, è compagna della povertà[11], può essere così forte da dimorare nell’uomo e custodirlo nella pace anche quando tutto il resto lo abbandona. Francesco invita sempre i suoi fratelli a «essere lieti nel Signore, giocondi e amabili come si conviene»[12]. E’ il nuovo fermento che lievita la cristianità entro un mondo in trasformazione. Sarà grazie ai francescani, i cui santi sono i più numerosi ed i più amati, che il modello monastico, sorto nel popolo cristiano alla fine delle persecuzioni, ritrova il consenso ed il linguaggio del popolo.

Seconda tappa, secolo XV: l’affermazione della ‘vita apostolica’.

Tutto il secolo è segnato dalla Riforma protestante e da quella cattolica, denominata anche Controriforma per il suo accentuato carattere antiprotestante (l’avvenimento di riferimento è il concilio di Trento, 1545-1563). Nascono i cosiddetti ‘Chierici regolari’,  denominazione che si riferisce ad istituti religiosi clericali, i quali, con la professione dei consigli evangelici, non seguono alcuna regola monastica e si dedicano alle più varie forme di apostolato. Si propugnava un ritorno alle origini apostoliche basato sulla piena rinuncia dei beni e decisamente rivolto all’apostolato. Nascono i Teatini ( è un teatino, Lorenzo Scupoli, l’autore del libro ascetico-spirituale tra i  più letti nei tempi moderni,  Il combattimento spirituale, Venezia 1589, continuamente ristampato e tradotto con adattamenti anche in greco da s. Nicodemo Aghiorita ed in russo da Teofane il Recluso), i Barnabiti (i collaboratori di spicco di s. Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano e instancabile animatore delle riforme tridentine, soprattutto per quanto riguarda la vita sacerdotale e le strutture ecclesiastiche nella sua immensa diocesi);  i Somaschi (impegnati in attività caritative a favore dei poveri, degli orfani, delle categorie più bisognose), i Gesuiti. E più tardi, i Camilliani (impegnati nella cura degli ammalati), gli Scolopi (impegnati nell’educazione dei giovani, con la fondazione di scuole gratuite per i ragazzi). E ricordo anche l’iniziativa di s. Angela Merici (1470/5-1540) che costituisce un audace tentativo di inserire nel mondo, e non tra le mura di un chiostro, vergini consacrate fondando a Desenzano sul lago di Garda, nel 1535, con 28 compagne la Compagnia delle Dimesse di S. Orsola.

Un vivo ascetismo basato sulla guerra contro se stessi (la vita spirituale è combattimento), un rinnovato fervore per l’orazione (la meditazione discorsiva e affettiva, con una predilezione per la passione del Signore) e per la vita liturgica (molto raccomandata la comunione frequente), da cui prende le mosse un forte zelo evangelico-apostolico, in un clima di generale riforma della chiesa e dei costumi, sono le caratteristiche essenziali comuni della spiritualità moderna che ancora agiscono ai nostri tempi. Il clima dei primi ‘Chierici Regolari’, in generale, si riassume nella mortificazione interiore, ma per arrivare alla gioiosa tranquillità dell’anima; nell’amore puro per Dio nel senso che la santità proviene dal fatto di agire solamente per essere graditi a Dio e non in rapporto all’importanza delle azioni; nella  meditazione della vita e soprattutto della passione di Gesù Cristo, modello di tutte le virtù e nello stesso tempo motivo principale e pressante per praticarle; nella comunione frequente, spirituale o sacramentale, come mezzo efficace di progresso spirituale.

Terza tappa, secolo XX: i movimenti ecclesiali in una Chiesa sentita come comunione.

L’annuncio del concilio da parte di Giovanni XXIII (1959-1963) suscita un’ondata di entusiasmo nei cattolici che sentono di trovarsi ad un crocevia della storia. Il suo discorso inaugurale dell’ 11 ottobre 1962, Gaudet mater ecclesia, vera ‘magna charta’ del concilio, definisce lo spirito e gli intenti che guideranno l’immane lavoro che lo attende :

  • Un nuovo spirito: la fiducia della presenza di Dio operante nella storia insieme ad un nuovo modo, più rispettoso, di rapportarsi della chiesa alla coscienza altrui e alla storia degli uomini.
  • Un nuovo contesto: la chiesa deve “venire incontro ai bisogni di oggi mostrando la validità della sua dottrina, piuttosto che rinnovando condanne”. È il compito dottrinale del concilio: trasmettere la dottrina cattolica nella sua integrità, senza indebolirla né alterarla, ma evitando sia l’immobilismo rivolto al passato sia l’impossibilità di concepire uno sviluppo che non sia solo ripetitivo: “È necessario che questa dottrina certa ed immutabile sia approfondita e presentata seguendo i metodi di ricerca e il modo di trasmissione usati dal pensiero moderno. Altra cosa è infatti il deposito della fede … e altra cosa è la formulazione che la riveste; …Bisognerà attribuire molta importanza a questa forma e, se sarà necessario, bisognerà insistere con pazienza nella sua elaborazione: e si dovrà ricorrere ad un modo di presentare le cose che più corrisponda al magistero, il cui carattere è preminentemente pastorale” [13].
  • Un nuovo progetto: il fine ultimo della missione pastorale del concilio è l’unità di tutti i cristiani e di tutta la famiglia umana. Radicata nella storia dell’umanità, la dottrina cristiana non ha altro compito se non quello di trasformare questa umanità e orientarla verso il suo fine escatologico.

Si tratti di riportare l’assoluto della Parola di Dio a fondamento della spiritualità, di riinsegnare a celebrare la Liturgia come corpo della chiesa e non come pratica devozionale, di leggere la Parola di Dio nel solco e nella fecondità della  Tradizione, di vivere la diversità delle tradizioni, di guardare con fiducia e rispetto alle religioni e al cammino dell’umanità pur nelle stridenti lacerazioni in atto, in realtà tutto acquista valore e forza evangelica a motivo di una nuova percezione della Chiesa, del suo essere, del suo mistero rivelato in Cristo.

Il movimento liturgico, il movimento biblico e patristico, il movimento ecumenico sono i tre campi dove questa scoperta del mistero della chiesa diventa tanto fecondo da rinnovare tutto lo spirito con cui guardare alla storia della chiesa e al mondo contemporaneo, alla formulazione dei dogmi e al confronto con il mondo moderno, all’ideale di santità aperto a tutti i credenti ed alla speranza da offrire al mondo.

Potremmo definire il cambiamento portato dal Concilio Vaticano II come una trasformazione di prospettiva, di orizzonte interiore; trasformazione che opera nel senso di un allargamento, di una estensione dei confini interiori. La coscienza di essere portatori per l’uomo di un’offerta che ci precede e ci ingloba rende la Chiesa più umile e attenta. La rivelazione di Dio, che la Chiesa è chiamata ad annunciare e a testimoniare, non è che questa: “Dio ha perdonato a voi in Cristo”, “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo” [] (Ef 4,32). Parafrasando: se anche voi perdonerete, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo, il mondo risplenderà della Sua presenza, fino a che Dio sarà tutto in tutti, definitivamente, compiutamente. È l’annuncio della salvezza che viene da Dio, per cui l’unica perfezione desiderabile per i credenti è quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di Sé da parte di Dio agli uomini  in Cristo. È quanto dice stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera Tradizione, come ho già ricordato sopra: “desiderare sopra ogni cosa di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione” [14]. La volontà del Padre è vedere l’uomo investito dal suo Spirito, consegnato alla sua misteriosa operazione, quella cioè di compiere quel mistero di riconciliazione rivelato a noi in Cristo. Allora perfezione, santità, testimonianza, evangelizzazione, giustizia, carità, hanno il valore di compiere un compito, rispondere a un appello, l’appello che viene dal desiderio di Dio di essere in comunione con gli uomini[15].

Alla dinamica della ‘fuga mundi’ che ha caratterizzato tutto lo sviluppo della spiritualità cristiana del primo millennio subentra, senza però scalzarla, nel secondo millennio, un’altra dinamica, quella della ‘imitatio Christi’, basata sulla percezione della possibilità di vivere la vita umana come divina.

Sorvolo evidentemente sullo sviluppo storico del monachesimo in oriente per accennare solo a un movimento, il cosiddetto ‘movimento filocalico’ che ha caratterizzato l’Ortodossia orientale a partire dal sec. XVIII e che si pone in continuità con il filone  patristico esicasta in cui si riconosce in blocco tutta la tradizione spirituale delle Chiese d’Oriente. Il filone si sviluppa a partire dai Padri dei deserti d’Egitto e di Palestina, continua nei cosiddetti Padri Sinaiti, vissuti o ricollegantisi idealmente alla spiritualità fiorita sul Sinai, per arrivare infine alla tipica tradizione del Monte Athos con il movimento esicasta dei secoli XIII e XIV. L’esicasmo può essere definito come un sistema spirituale di orientamento essenzialmente contemplativo che pone la perfezione dell’uomo nell’unione con Dio raggiunta attraverso la preghiera incessante.

Nella rinascita esicasta dei tempi moderni centrale risulta la figura di Paisij Veličkovskij, riportata all’attenzione della coscienza ecclesiale in questi ultimi anni con la sua canonizzazione da parte della Chiesa Ortodossa russa e romena, rispettivamente nel 1988 e nel 1992. L’opera di questo grande monaco e starets, che guidava una comunità di circa un migliaio di fratelli tra russi, ucraini, romeni, bulgari, greci, serbi, ha costituito senza dubbio un avvenimento di prima grandezza nella storia moderna della Chiesa Ortodossa nell’Europa orientale e in Russia.

Non si può che costatare come con Paisij la vita monastica torni ad essere vissuta come un ideale appassionante[16]. Da notare che non è tanto la persona di Paisij a suscitare fascino quanto la sua comunità. Paisij è da vedere e da leggersi in funzione della sua comunità. Conosce per esperienza diretta tutte e tre le vie che caratterizzano il monachesimo secondo la tradizione: quella eremitica (per la quale però non si sente all’altezza, non gli risulta congeniale), quella ‘regale’, cioè la vita con due/tre fratelli sotto la guida di una padre spirituale (che ha sempre sognato ma che, controvoglia, ha dovuto lasciare), quella cenobitica (di cui è diventato l’emblema stesso, rinnovandola nello spirito più genuino della tradizione). Il genio spirituale di Paisij si rivela nel fatto di far confluire i carismi della via regale nella via cenobitica ed in questo si realizza il mistero della sua santità. Con tutto se stesso ha voluto e cercato di vivere la grazia del monachesimo in tutta la sua potenza. Dice molto bene il suo biografo Mitrofan: “Nei tempi in cui il monachesimo si era tanto illanguidito e mostrava solo il suo aspetto esteriore, [Paisij]  fece conoscere cosa fosse il monachesimo, quale fosse il mistero dell’obbedienza, quale grande profitto arrecasse al novizio l’avanzare nell’intelligenza spirituale, quale fosse l’azione e la contemplazione, la preghiera mentale del cuore, quella compiuta dalla mente nel cuore.”[17]. L’ordinamento della vita comunitaria, come si desume dalla sua Regola, si basa sull’obbedienza e su di una stretta povertà; il superiore deve condurre i fratelli a partire dalle Scritture e dai Padri; la pratica di preghiera preferita è la preghiera di Gesù; il superiore deve essere eletto tra i membri della comunità e deve conoscere il greco, lo slavo e il romeno.

Ma al di là degli ordinamenti è un certo clima particolare a caratterizzare la vita della comunità paisiana, centrata sul mistero dell’obbedienza: il clima che deriva da un’obbedienza praticata in umiltà e mansuetudine, come sottomissione ai fratelli (Paisij insiste molto di più sull’obbedienza vicendevole che sull’obbedienza al superiore) e da  quel ‘lavorio del cuore’ unito alla preghiera incessante che dà un respiro esicasta alla vita del cenobio. “Per imparare l’umiltà, non esiste apprendimento più conveniente di quello che possiamo effettuare nel segreto del nostro cuore: ognuno biasimi se stesso, si ritenga sotto i piedi di tutti, si pensi polvere e cenere … L’istruzione che agisce nell’intimo, insieme alla lettura, è casa dell’anima dove non ha accesso l’avversario, è pilastro incrollabile, porto tranquillo, senza agitazione e senza scosse, che salva l’anima. I demoni in effetti si agitano grandemente e si arrabbiano molto quando il monaco si premunisce con le armi di questo lavorio interiore di istruzione e con l’incessante invocazione: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore”, insieme ad una lettura conveniente[18]. Con Paisij –  e questa è una vera rivoluzione! – la ‘vita comune’, scuola impareggiabile della vera obbedienza, dalla quale fiorisce l’umiltà, giunge ad essere il vero luogo della pratica esicasta, senza cui si finirebbe per fraintenderla[19]. Ora, la vera forza di Paisij sta nel mettere in mano ai suoi discepoli la chiave per comprendere dall’interno ciò che li esorta a praticare. In questo contesto riceve tutto il suo significato la lettura assidua ed amorosa delle Scritture e dei Padri insieme alle pratiche della confessione quotidiana dei pensieri e la preghiera di Gesù. Lo scrutare, giorno e notte, le Scritture e gli scritti patristici, è la risposta di Paisij alla mancanza di guide sperimentate. Risposta così seria e impegnativa che lo studio dei testi patristici, unito allo sforzo di tradurli in slavo ecclesiastico e in romeno, è diventato poco a poco l’attività principale del nostro starets, il fondamento, il punto di forza della sua opera. Quello che però resta come grandioso nella coscienza dei suoi discepoli non sarà il risultato di questo immenso lavoro di correzione e traduzione dei testi patristici, bensì lo scopo e la vitalità spirituale con cui era vissuto tale compito. E’ risaputa la grande importanza e la diffusione che ha goduto nel mondo slavo il Dobrotoljubie, la versione slavonica della Filocalia edita a Mosca nel 1793, undici anni dopo l’edizione greca di Venezia. Nessuna delle cinque biografie conosciute di Paisij, composte dai suoi discepoli circa una ventina d’anni dopo la sua morte, ne fa menzione. Eppure tutti unanimemente sottolineano la straordinaria fecondità del lavoro di correzione e traduzione dei testi patristici ad opera del nostro starets, lavoro che costituisce il contesto più diretto di quel rinnovamento monastico che ha così colpito i contemporanei.

In sostanza, la singolarità dell’esperienza paisiana risulta fondata sul principio di ancorare la pratica ascetica all’intelligenza spirituale, concependo il fare in funzione del contemplare, l’agire, esteriore e interiore, in funzione del vedere spirituale. Sintetizzerei il suo insegnamento in questo modo. Perché la lettura? Insieme alle fatiche ascetiche è necessario abbinare anche la mente, la capacità di giudizio, perché tutta la nostra vita, la nostra condotta proceda secondo la potenza delle S. Scritture. La lettura illumina la mente e accende il desiderio di praticare i comandamenti.

Perché i Padri? Dal momento che noi, uomini passionali, non possiamo comprendere la luce delle Scritture, seguiamo i Padri ai quali, per aver avuto un cuore puro, illuminato dallo Spirito Santo, sono stati aperti i segreti del regno dei cieli, ossia la profondità della S. Scrittura. Nella loro interpretazione delle Scritture ci svelano gli inganni del diavolo e ci fortificano nello zelo per osservare i comandamenti.

Come leggere? Non c’è alcun vantaggio se uno legge solamente nero su bianco e non si dà cura di conoscere anche la potenza di quel che legge.

Altro elemento di singolarità è sicuramente la capacità di Paisij di  coniugare persona e istituzione. L’obbedienza in sottomissione reciproca crea comunione nel rispetto di ciascuno: è il primato della persona sull’organizzazione. Ecco perché é così importante che la comunità non si regga su giudizi o mire umane sia da parte del superiore che dei fratelli; sarebbero in qualche modo sacrificate le persone. Una comunità evangelica è sempre e sopra tutto una comunità di persone, che cresce se ciascuno cresce. E’ straordinario che Paisij, alla guida di una comunità tanto numerosa e multietnica, non abbia mai perso di vista questo punto! « Preferiva che andasse in rovina il monastero o qualche altra cosa di valore piuttosto che l’anima di un fratello si perdesse e cadesse in peccato» riporta un biografo. Voleva che i lavori fossero compiuti senza agitazione e pressione, secondo l’energia propria di ciascuno. Conosceva bene la sua imperizia nei lavori (basta leggere la sua autobiografia!). L’unica cosa che gli premeva e che sapeva trasfondere nei fratelli era l’anelito a progredire spiritualmente, era l’obbedienza di tutti, in sottomissione reciproca, a Cristo. Paisij ha saputo, e non è certo l’ultimo titolo di merito che ha, tenere insieme una comunità capace di promuovere una comunione ed un amore sincero tra gli uomini, modellando senza posa l’umano e levando quell’opacità che gli impedisce di riflettere il divino.

UNO SGUARDO SULL’ OGGI. 

Il mistero cristiano di riferimento: la trasfigurazione.

Cercando di raccogliere in sintesi i valori spirituali di cui sono così ricche portatrici le tradizioni cristiane dell’oriente e dell’occidente, formulerei così i miei suggerimenti per l’oggi. A me pare che le varie forme di vita ascetica e spirituale, che esprimono nel concreto l’ideale di santità che può nuovamente far presa sul nostro immaginario interiore, devono poter rispondere alle attese dei cuori nella nostra società, attese che io specificherei attorno a tre bisogni e a una grande paura.

Primo, il bisogno di senso. Gli uomini di oggi non hanno più il senso di uno scopo superiore, qualcosa per cui valga la pena di morire. Concentrandoci sulle proprie vite individuali, abbiamo perso la visione più ampia di un’appartenenza ad un insieme significativo e fonte di significato. Ciò appiattisce e restringe le nostre vite, impoverendone il significato. E’ inevitabile uno scadimento della tensione etica, che rafforza questa chiusura d’orizzonti sull’io, sempre più in balia delle sue ossessioni. In effetti, alla perdita di senso si accompagna sempre una forma di ir-responsabilità, cioè di non risposta di fronte alle questioni che trascendono l’individuo. Il riapparire del ‘religioso’, anche nelle sue forme più assurde, assolve al bisogno di senso, spesso però in maniera tragicamente illusoria (vedi il proliferare di sette e movimenti dalle qualifiche più fantasiose). Rispondere al bisogno di senso significa ridare capacità di responsabilità come portatori di un compito che ci trascende e ci rivela a noi stessi. A tale riguardo, come suona sentimentale l’ammissione che oggi si sente spesso ripetere di fronte ai gravi problemi sociali del mondo: “siamo tutti responsabili”, (intendendo, nessuno ha colpa, nessuno può fare nulla) dall’ammissione di un santo: “io sono responsabile del peccato del mio prossimo”, dove l’amore che porta agli altri fratelli dà loro dei diritti su di lui!

Secondo, il bisogno di interiorità. La tendenza alla valorizzazione del soggetto nella nostra cultura è un fatto ricco di conseguenze positive, ma in pratica spesso si risolve in una specie di relativismo dove il soggetto si sente arbitro non solo dell’agire, ma del suo essere. E’ l’illusione di definirsi in base a ciò che si sente senza voler o poter raccordare ciò che si sente a uno scopo e a un compito che ci precede e ci interpella. Si finisce col restare prigionieri della propria soggettività, dilatata all’infinito fino alla vacuità, senza più radici, senza più identità. La conseguenza, per quanto strana possa sembrare, è che il soggetto non è più capace di intimità, non sa più vivere in intimità né con se stesso né con Dio né con gli altri né con le cose. Dove si stempera l’identità non può esserci intimità. Ma il desiderio di intimità come della propria identità è costitutivo del nostro essere. Così, alla illusione di una dilatazione interiore fasulla, si accompagna il desiderio di una interiorità autentica, che si traduce nel rifiuto della vacuità, nel desiderio di essenzialità, nella disponibilità a cercare un cammino spirituale che dia ragione delle aspirazioni del nostro cuore e si configuri come un riappropriarsi della totalità del nostro essere. Quando abbiamo la fortuna di cogliere la santità in un  uomo notiamo subito questa capacità di intimità che comunica calore e  rivela quanto naturalmente abbia investito la sua capacità emozionale al livello spirituale.

Terzo, il bisogno di comunione. La perdita di senso e di interiorità lascia gli individui troppo distanti tra loro e nell’impossibilità di superare la distanza. Troppo preoccupati dei propri diritti, non ci si accorge dello scadimento di livello nel difenderli perché, invece di lottare in nome dell’essere,  finiamo per lottare solo per l’avere, nell’illusione che il possesso ci porti all’essere. Se per il possesso agire con la forza della rivendicazione porta a qualche risultato, nell’essere rivendicare, esigere e difendere porta al fallimento. In effetti, insieme all’affermazione di se stessi sta l’incapacità del dono di sé, l’incapacità di un rapporto in gratuità e gratitudine, vera porta d’ingresso al mistero della comunione e della riscoperta delle radici del proprio cuore. Non è forse quello che fa presagire un uomo che sentiamo lambito dalla santità allorquando scopriamo che ha un cuore più vasto del suo interesse personale, che oltre a farci sentire il bene di cui è capace senza nulla in cambio, ci rende a nostra volta capaci di agire similmente? Si apre allora una finestra sul mistero stesso di Dio. Scoprire Dio passa spesso attraverso lo scoprire la Fonte e il Nome di quel bene. Tutto quello che succede al cuore dopo questa scoperta resta  segreto, ma la sensazione sicura è che il mondo è diventato più vivibile ed umano.

Parlavo prima anche di una grande paura, la paura di perdere la propria umanità. Evocare la santità significa il più delle volte provocare la resistenza della nostra umanità. Non alludo qui evidentemente alla contrapposizione tra la carne e lo spirito che contrassegnerà sempre ogni vita umana, ma al timore indotto da una certa visione delle cose. Nel sentire comune, ricercare la santità equivale a fuggire, a staccarsi dalla propria umanità. La difficoltà di credito e di amabilità che trova oggi la virtù dell’umiltà ne è il segnale più evidente. Mettersi dalla parte di Dio pare comportare l’alienazione della propria personale e concreta umanità, per cui la necessaria rinuncia a se stessi è temuta risolversi in un processo che porta a ritrovarci ‘sfigurati’, non già ‘trasfigurati’. E’ venuta meno la sapienza di una visione che non dà più ragione dei vari spezzoni  religiosi incagliati nella coscienza. E tutto fa resistenza; il cuore non sa più liberare i suoi desideri e le sue energie.

Tre sono allora gli elementi che mi sembrano qualificare  l’allargamento dei confini interiori che vorrei illustrare:

–  il fatto di percepire la santità  come una santità nel mondo, non più in fuga dal mondo

– il fatto di percepirla come una potenza di trasfigurazione, non tanto un effetto dello spirito di mortificazione     

– il fatto di fondarla sulla fede, non più sulla morale.

Anzitutto, santità nel mondo. Se la santità verrà avvertita come una fuga dall’umanità, non sarà mai desiderata. L’ideale non agisce più nel senso di sottolineare la fuga dal mondo il più radicalmente possibile, bensì nel senso di testimoniare una Presenza con la maggior trasparenza possibile. Siamo chiamati più a scoprire e a far scoprire che Dio non ha abbandonato il mondo che non a preferire Dio al mondo. E quando dico santità nel mondo non intendo solo il mondo dell’umanità, della società e della storia degli uomini, con tutto il carico di dolore e di ingiustizie che caratterizza le vicende umane, ma anche il mondo della mia umanità, della mia storia personale, delle mie debolezze. L’illusione di dedicarsi al prossimo o di cercare Dio fuggendo da noi stessi rivela il disprezzo che ci inchioda al nostro limite, l’incapacità di schiuderlo ad uno sguardo amorevole che ci risani e ci intenerisca per disporci alla vera adorazione e alla intimità di un rapporto con Lui che interessi tutto il nostro essere. Dio non ha lasciato il mondo, il nostro mondo e la risposta alla santità di Dio che preme alla radice dei cuori non è quella di tirarlo giù dal cielo o di modellargli la terra facendo leva sulla nostra buona volontà, ma più semplicemente di aprire la nostra terra, la terra del nostro cuore al Suo splendore. Se il rifiuto del mondo prima attirava era perché i cuori sentivano in quel rifiuto il desiderio del cielo. Ora non più. Ma il desiderio del cielo è sempre il desiderio del cuore. Come liberarlo?  Accettare il mondo non porta sicuramente a trovare il cielo. Il mondo non ha perso nulla della sua ambiguità!  Ma anche il cielo non ha perso nulla della sua inafferrabilità! Il percorso più pertinente è allora nella logica del ‘compimento’ dei desideri dei cuori di interiorità e di comunione: staccarsi dal mondo per rientrare in se stessi e poter accedere, dalla profondità del cuore, alla solidarietà con l’umanità e il creato, scoprendo Dio che è Padre di tutti e Creatore di tutto. 

Nella espressione ‘santità nel mondo’, l’accento va posto su santità. E’ qualcosa che il mondo non ha e che attende per vedersi compiuto. Capire o accogliere  il mondo non porta alla santità. Se per far accettare la santità, se ne abbassa l’esigenza per adeguarla al mondo, si tradisce il mondo e si fallisce lo scopo. Ma imporla sul mondo come dovessimo cambiarlo con il nostro volere è impresa vana, tragica. Sarebbe il trionfo dell’ideologia, non della santità.   E non si è mai visto nessuna ideologia portare salvezza o consolazione al mondo.

Santità come potenza di trasfigurazione. Trasfigurazione dice essenzialmente sguardo, lo sguardo della beatitudine evangelica: ‘beati i puri di cuore, perché vedranno Dio’ (Mt 5,8). Noi non siamo affascinati dalla purità di cuore, che abbiniamo ad un perfezionismo individuale, ma dallo splendore che emana da un cuore puro che è capace di guardare in modo nuovo. E lo sguardo nuovo che affascina è quello di chi non ha mai paura di noi né dei nostri peccati, di chi custodisce la nostra bellezza nonostante ci sentiamo brutti, di chi ci usa bontà perché tiene a noi più di noi stessi. Scopriamo cosa significhi bontà non domandandoci ‘quando mi sento buono?’, ma ‘quando gli altri mi trovano buono?’.  Quando gli altri sentono che noi desideriamo la loro vita, quando sentono che sono desiderati nel loro essere concreto, che sono degni di amore e non solo oggetto del nostro amore,  abbracciati da uno sguardo che, come quello di Gesù, redime cioè ri-suscita la vita dove sia sopita o sofferente o bloccata, facendola decollare verso la sua pienezza. E’ la visione di quell’ oltre delle creature, segno dello splendore di Dio colto nella sua relazione intima  con esse, che muove il cuore. Di uomini capaci di vedere con tale sguardo sentiamo di avere bisogno.

Trasfigurazione dice ancora spazio di rapporti, liberazione dai confini angusti e irrigiditi in cui chiudiamo noi stessi ed i nostri fratelli. “Beati i miti, perché erediteranno la terra” (Mt 5,5), compreso nell’ottica dell’altro versetto “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi … imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,28-29), rivela la grazia e lo splendore di quella liberazione. Mitezza ed umiltà sono il paradigma di tutte le disposizioni buone  nell’uomo, quando l’io diventa capace di una misura piena ‘scossa e traboccante’(cfr. Lc 6,38), come costituisse l’esito finale e maturo di una ascesi volta a purificare la volontà. Forse, più che cercare di ‘volere bene a’ qualcuno, dove bene è il complemento oggetto del volere, si dovrebbe imparare a ‘volere bene’ qualcuno, dove bene è un avverbio che esprime il modo adeguato di volere che qualcuno o qualcosa siano. L’ascesi per la santità è un’ascesi che tende a generare un nuovo modo di volere in cui l’accento non sia posto tanto sull’affermazione di sé quanto sulla disponibilità a servire ciò che è voluto, ad accompagnarlo al suo destino, servitori e testimoni di un mistero che ci supera e ci racchiude. In questo contesto trova piena espressione quella libertà oggi tanto agognata e così facilmente fraintesa. Un uomo libero è un uomo che in mitezza ed umiltà ‘vuole bene’ chiunque: non ha più ostruiti i sentieri interiori verso chiunque o qualunque cosa. Il mondo può risplendere ancora della primitiva luce di Dio.

Santità infine fondata sulla fede, in funzione cioè dell’intimità di un rapporto, non dell’esercizio di un potere, che sa troppo di questo mondo. Non si guadagna in santità in ragione degli sforzi su se stessi, per la propria perfezione, che del resto non interessa a nessuno, ma in ragione della remissività del cuore alla rivelazione di Dio. E la rivelazione di Dio che costituisce il grande annuncio della nostra fede non è che questa: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32).

Per concludere, vorrei sottolineare come la credibilità di un credente oggi si giochi sulla tensione contemplativa della sua preghiera. E qui ci soccorre l’apporto prezioso della tradizione orientale. Tutti abbiamo sentito parlare di Filocalia[20] e di preghiera del cuore. Ebbene, credo che occorra riprendere quella ‘scienza dello spirito’ che proprio la Filocalia dà ad intendere che costituisca il contesto genuino della preghiera del cuore. Scienza, che va intesa come la capacità di tradurre in valori concreti il tesoro della fede, in valori vitali che coinvolgano tutto il nostro essere nell’adorazione di Dio, nel mistero di Cristo e della chiesa. Sembra che noi si possa diventare buoni sforzandoci semplicemente di compiere tanti atti buoni. Ma come sarebbe possibile operare il bene se il male non è stato vinto stabilmente nel nostro cuore? Fin tanto che non impariamo a distinguere con lucidità i nostri pensieri segreti e, invocando il Signore, a respingere quelli che non si accordano con i suoi comandamenti, come potrà venir illuminato il nostro cuore da compiere il bene secondo Dio? Come potrà adorarlo in spirito e verità, in pentimento ed umiltà, per ricevere quel perdono che noi stessi siamo invitati a dare al nostro prossimo, testimoniando così il nostro amore? Ma per arrivare a questo punto abbiamo bisogno di indicazioni precise e sicure per procedere nel nostro cammino spirituale. L’apertura alla Filocalia e alla preghiera di Gesù in questo spirito potrebbe riuscirci di grande aiuto per questo immenso, instancabile, lavorio interiore del cuore.

Ed è proprio questo che noi dovremmo imparare dalla tradizione ortodossa:  il senso della lotta contro le nostre passioni, i nostri pensieri, per imparare a pregare.  Lottare contro le passioni ed i pensieri a queste collegati non è fatto di psicologia o di testa. Si tratta essenzialmente di un’altra cosa; si tratta di ridare ai nostri pensieri l’oggetto e il contenuto loro proprio, che è il Cristo. Ritornare in se stessi significa ritornare al luogo della presenza del Signore nel cuore. Combattere allora i pensieri che ci illudono non significa distruggerli, ma trasfigurarli perché (sembra un paradosso, ma è così) in ogni nostro pensiero, anche cattivo, in ogni nostro peccato, di qualsiasi tipo, vi sta come racchiuso un anelito che va liberato perché il cuore torni a vivere profondamente e liberamente. E l’anelito è in diretta dipendenza con la presenza del Signore nel cuore. Padre Staniloae, il maggior teologo ortodosso rumeno, recentemente scomparso, ha una bella espressione relativa all’infinità del cuore umano nel suo ‘Corso di ascetica e mistica’ . Dice:”I nostri peccati, le nostre passioni, come possono essere definiti? Sono un attaccamento infinito a ciò che è finito”. Anche in questo il cuore umano ha la percezione netta di desiderare l’infinito. Si tratta di ridare il contenuto infinito a questo attaccamento infinito. E questo è esattamente il lavoro dell’ascesi, questo è essenzialmente ciò che avviene nella preghiera.  La preghiera ti mette in comunione con Dio e Dio è comunione di Persone: Padre, Figlio e Spirito Santo.  Se la preghiera ci mette in comunione con Dio, comunione di Persone, allora la porta di accesso a questa comunione non può che essere il pentimento, perché il pentimento è ciò fa cadere ogni barriera di separazione, ci ‘concentra’ nella comunione con  Dio, ci rende eminentemente persone, non più alienati nelle cose o nelle illusioni che creano barriere. Così, più ognuno perde la sua individualità alienata, la sua chiusura, più si apre alla comunione, più diventa persona tra persone, più è assunto nella comunione con Dio e con i fratelli. 

Una delle pratiche che l’antica tradizione monastica suggeriva per imparare a porre il proprio cuore nel pentimento e discernervi ciò che si muove dentro è la manifestazione dei pensieri al padre spirituale. Pensieri, quindi non solo peccati! Si tratta di una pratica ascetica più che di un atto sacramentale. E’ una pratica che ormai si è come persa ed è stata rimessa in onore, in un diverso contesto e con diverso significato, dagli psicoanalisti di oggi. I pensieri sono tutto ciò che si muove nel nostro cuore. Possono essere sensazioni, immagini, attese, desideri, pregiudizi, giudizi, ecc., colti prima che si traducano in atti concreti. Praticando una certa ascesi ed istruiti da un certo spirito di preghiera, incomincerete a rendervi conto di quante cose si muovono nel nostro cuore, imparerete a riconoscerle, a filtrarle alla luce della Parola del Signore, a cogliere il messaggio che portano. Quando si tratta di vincere un certo difetto o peccato, se non ci accorgiamo da dove arriva e fin dove porta l’impulso cattivo che scaturisce dal cuore, possiamo fare tutti gli sforzi che vogliamo, ma quel difetto o quel peccato non verrà superato. Da notare come non sia poi realmente importante superare il difetto (di difetti ne avremo sempre); l’importante è riuscire a non giustificare il nostro difetto, a nessun livello. E qui mi ricollego ad una annotazione per me essenziale. Quando si parla della preghiera, della preghiera del cuore soprattutto, si dimentica troppo spesso un aspetto fondamentale, che risulta espresso da una affermazione categorica del padre spirituale di Paisij Veličkovskij, Basilio di Poiana Marului, che lo stesso Paisij ha fatto propria e l’ha trasmessa ai suoi discepoli: “La struttura fondamentale della preghiera è data dall’attenzione e dal pentimento”.  I vari metodi o le varie tecniche di preghiera si riferiscono solo al primo elemento, all’attenzione, ma senza il pentimento non sboccia la preghiera. Con l’insistenza sul pentimento, la tradizione orientale custodisce il meglio dell’insegnamento patristico sulla preghiera. Quando noi diciamo che non si può pregare se non si è concentrati, a quale tipo di concentrazione ci riferiamo? Da cosa è data la concentrazione?  Ad una giovane signora che mi chiedeva come pregare, sapendo che aveva un bambino di pochi mesi, le dissi di fare la preghiera  mentre allattava. La rividi parecchio tempo dopo e mi confidò: “Sai, ho provato a fare come mi hai detto e viene che è una meraviglia.  A parte che mi ritrovo raccolta naturalmente, a parte che questo momento lo vivo con una tenerezza incredibile, mi sembra di vivere in una dimensione così viva del mistero che non faccio alcun sforzo di concentrazione; mi trovo dentro la realtà del mistero”. Ecco,  ha rivelato anche a me il senso di quel che percepivo. Il pentimento porta appunto l’anima a trovarsi dentro il mistero. La concentrazione di cui parlano i testi spirituali non deriva dallo sforzo di introspezione psicologica o di attenzione mentale; deriva dalla intensità del pentimento. I Padri arrivano a dire che la concentrazione, l’attenzione e quindi il senso della presenza del Signore, è direttamente proporzionale non solo al pentimento rispetto ai propri peccati, ma alla coscienza del proprio stato di peccatori. Quando ci confessiamo sacramentalmente, quello che è veramente importante non è la completezza dell’elenco dei peccati, ma che attraverso i peccati riconosciuti si abbia ancora più fortemente la coscienza che siamo peccatori. E’ questa coscienza che fa gridare a Dio:”Signore, abbi pietà di me”. Se non abbiamo questa coscienza, le parole che diciamo che valore hanno? In un certo senso, quello che mi sembra manchi al  nostro desiderio di esperienza spirituale è il fatto che non parte sinceramente dal cuore, ma piuttosto dalla testa. Restiamo affascinati, ci entusiasmiamo per una certa pratica religiosa, ma siamo davvero coinvolti? Attenzione che essere ‘sinceri’ non significa essere ‘veri’. Si può essere sinceri nel dire quello che si prova, ma ciò che si prova può benissimo non procedere dalla profondità del nostro cuore, dalla verità del nostro essere. Qui si cela uno dei nodi della vita spirituale. Ed il lavorio interiore porta proprio alla ‘verità’ del cuore, a quella profondità che lo definisce nella sua realtà oltre le apparenze, per quanto impressionanti. Ci accompagni il Signore in questo cammino che non ha altro scopo se non quello di portarci ad incontrarLo in tutta verità e di incontrare i nostri fratelli nel Suo amore.

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[1] Il capitolo V della Lumen Gentium porta il titolo “De universali vocatione ad sanctitatem in Ecclesia”. Il tema è ripreso con forza da Giovanni Paolo II nella “Novo millennio ineunte”, 30-31.

[2] Si veda  Charles Taylor, Il disagio della modernità, Bari 19942, Laterza.

[3] GREGOIRE LE THAUMATURGE, Remerciement à Origine suivi de La lettre d’Origène à Grégoire. Texte grec, introd., trad. et notes par Henri Crouzel, Paris 1969, du cerf (Sources Chrétiennes n. 148).

[4] Regola bollata, X,8 in Fonti francescane, editio minor, Assisi-Padova 1987,  p. 63-64.

[5] Lc 14,33 : “Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”;  Atti 2, 42- 47: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo”.

[6] Luca 6, 36-38: “ Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio”.

[7] B. GERHARDSSON, The Parable of the Sower and Its Interpretation, NTS 14 (1967-1968), p. 165-193, citato da Alberto MELLO, Evangelo secondo Matteo. Commento midrashico e narrativo, Comunità di Bose – Magnano 1995, Qiqajon.

[8] Basta leggere le testimonianze di Ignazio di Antiochia nelle lettere che indirizza alle varie comunità nel viaggio verso il martirio a Roma. Si vedano, per esempio, Agli Smirnesi 4,2; Agli Efesini 12,2; Ai Romani 5,3, 4,2-3.

[9] La santa verginità 27 (CSEL 41,264,10s.).

[10] S. Atanasio, La verginità 12 (PG 28, 265 A)

[11] Cfr. Ammonizioni, XXVII,  in  FF 177

[12] Regola non bollata, VII, 16,  in FF 27

[13] La versione latina curata dalla Curia omette di menzionare ‘i metodi di ricerca’ e ‘il modo di trasmissione del pensiero moderno’, cfr. BERNARD SESBOÜÉ  e CHRISTOPH THEOBALD, Storia dei dogmi, IV, La parola della salvezza, XVI-XX secolo, Dottrina della Parola di Dio, Rivelazione, Fede, Scrittura, Tradizione, Magistero, Casale Monf.to (AL) 1998, p. 421.

[14] Regola bollata, X,8 in Fonti francescane, 104.

[15] A tal riguardo, la testimonianza dei sette monaci trappisti di Nostra Signora dell’Atlante, in Algeria, uccisi il 21 maggio 1997 dai fondamentalisti islamici, mi sembra particolarmente illuminante.

[16] «Un tal tipo di vita cenobitica tra tutti i fratelli riuniti nel nome di Cristo li lega in  un amore tale che, sebbene provengano da varie nazioni e paesi, formano tutti un unico corpo, membra gli uni degli altri, avendo tutti un solo capo, Cristo; tutti ardenti di amore per Dio, per il loro padre in Dio e gli uni per gli altri; mirando tutti, un’anima sola ed una sola mente, a questo unico obiettivo: custodire e compiere con zelo i comandamenti di Dio, esortandosi a vicenda e sottomettendosi l’uno all’altro con quell’unico pensiero in testa, portando i pesi gli uni degli altri, maestri e servi gli uni degli altri. Con un tal genere di amore spirituale, in unità di intenti, si fanno imitatori della vita del Signore e degli apostoli e degli angeli, sottomettendosi in ogni cosa con fede e amore al loro padre e istruttore in Cristo come a Dio stesso ». Lettera a Demetrio, del 16 maggio 1766.

[17] Il testo slavonico della biografia di Mitrofan si trova in A.-E.N.TACHIAOS, The revival of byzantine mysticism among Salvs and Romanians in the XVIIIth century. Texts relating to the life and activity of Paisy Velichkovsky (1722-1794), Thessaloniki 1986. La citazione si trova a p. 142 (ms. f. 149-149v).

[18] Lettera per i fratelli alla mietitura, pp. 342-343.

[19] Cfr. E. CITTERIO, La scuola filocalica di Paisij Velichkovskij e la Filocalia di Nicodimo Aghiorita. Un confronto, in T. SPIDLIK, K. WARE, E. LANNE, M. VAN PARYS e AA.VV., Amore del bello. Studi sulla Filocalia, Qiqajon, Comunità di Bose 1991, p. 187-8.

[20] Si veda, in italiano, La  Filocalia, a cura di M. Benedetta Artioli e M. Francesca Lovato,  4 voll., Torino 1982-1987, Gribaudi.