Il senso della preghiera nella ricerca dello Spirito santo e nelle giuste disposizioni per favorirla.
Incontro di Avvento tenuto da E. Citterio e pubblicato in SPECIALE AVVENTO / SEGNO SETTE n. 43, 24 novembre 1996.
Siamo soliti considerare la preghiera a partire da noi. E se la considerassimo a partire da Dio? Cos’è la nostra preghiera per Dio?
Come ci suggerisce un racconto chassidico, immaginiamo la scena di due bambini che giocano a nascondino sotto la sorveglianza del nonno. Succede che uno di loro si nasconde così bene che l’altro, stufo, desiste nel cercarlo e si mette a giocare ad altro. Allora il primo, tutto piangente, corre dal nonno e si lamenta: “Non mi cerca più!”. Al che il nonno, pensando al rapporto tra Dio e gli uomini, esclama: “Ecco, questo è proprio il lamento di Dio: non mi cercano!”.
Dice il salmo 34, 5 : “Ho cercato il Signore e mi ha risposto e da ogni timore mi ha liberato”. Ho cercato il Signore. Non: ho cercato salute … beni … sicurezze… e mi ha risposto! Ecco l’ostacolo, l’impedimento che spesso avanziamo a giustificazione della fatica o dell’inutilità della preghiera: Dio non mi ascolta. Perché chiedere se poi non ottengo risposta?
La preghiera, vista dalla parte di Dio, è la risposta al suo desiderio di riposarsi in noi, una risposta al suo appello. E’ un passare dalla confessione della fede alla coscienza di una relazione: “Gustate e vedete quanto è buono il Signore; beato l’uomo che in lui si rifugia” (Sal 33,9). Scoprire la bontà di Dio significa scoprirsi nella propria umanità guarita e perdonata, tesi a quella comunione di cui ci è fatto dono e che diventa supremo desiderio del cuore e criterio di discernimento dei nostri atti nei confronti del prossimo.
Tutti costatiamo un diffuso disagio interiore dovuto alla perdita di una identità e di un’armonia interiori che né la fede così come viene vissuta e trasmessa comunemente né la cultura con i suoi surrogati sembrano capaci di ripristinare. Tutti sanno di portare un infinito dentro di sé ma, più che racchiuso, è avvertito come ormai nascosto. Forse tanta arroganza o egoismo o spudoratezza derivano semplicemente dall’incapacità di accogliersi e guardarsi con bontà, senza disprezzo, di vivere in intimità e tenerezza, qualità così essenziali all’umanità degli uomini e delle donne, all’esperienza stessa di fede dei credenti. Eppure, come sembrano diventate ‘nostalgiche’ per noi credenti di oggi le parole di s. Paolo: “Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio” (Ef. 2,19)! Sarà mai possibile accedere a tale dimensione? Scaturisce da qui l’urgenza di imparare a pregare, di accostarci alla preghiera come allo spazio vitale per il cuore perché si espanda in intimità e verità e si scopra degno di essere amato.
Cosa cerca chi prega?
Domandiamoci prima di tutto cosa cercare nella preghiera. Secondo le parole di Gesù, una cosa sola: lo Spirito Santo. Nel passo della vedova che importuna il giudice disonesto (cfr. Lc 18,1-8) Gesù pronuncia una frase che suona contradditoria. Come può dire che Dio esaudisce prontamente quando ha appena ricordato che i suoi eletti bussano giorno e notte nella speranza di essere esauditi ( quindi, in realtà, non lo sono )? La risposta va cercata in un altro passo: “Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” (Lc 11, 13). Dio esaudisce prontamente ogni richiesta di Spirito Santo, vale a dire l’anelito del cuore che non si accontenta delle cose che provengono da Dio, ma che cerca proprio Dio, l’incontro, l’intimità con Lui. Allora, per le cose di cui abbiamo bisogno, prima che di richiesta, si tratta di affidamento: abbiamo fiducia che Dio dispone ogni cosa per il nostro bene. Fare la volontà di Dio significa prima di tutto fidarsi del proprio Dio, dare credito al suo amore e cercare di stare con Lui, non di avere i suoi doni. Se la preghiera è questo, allora non c’è preghiera che non venga esaudita. Dio cerca adoratori e amici, non semplicemente ‘consumatori’, ‘utenti’, ‘fruitori’, ‘clienti’, termini che ben si addicono a quanti ricercano prima di tutto le cose. Lo dice bene una preghiera liturgica: “La potenza di questo sacramento, o Signore, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo Santo Spirito” (Orazione dopo la comunione, XXIV domenica del tempo ordinario).
Per noi che viviamo un’umanità senza profondità e senza intimità, che abbiamo paura di mostrarci in verità, che siamo prigionieri di un timore che portiamo latente dentro di noi, timore che ci chiude in un certo disprezzo di noi stessi, nella diffidenza verso gli altri e, per contrapposizione, come forma di autodifesa, nell’arroganza e nell’aggressività, cosa significa cercare lo Spirito Santo? Almeno tre cose.
1) ritornare al luogo della presenza del Signore nel cuore. La preghiera non è questione di concentrazione o di tecniche meditative. E’ invece un progressivo scendere nel cuore dove irradia la grazia del Signore vivente; una graduale scoperta del nostro essere creato ad immagine del Figlio, in Lui rinnovati e rivelati a noi stessi. Il cuore si allarga alla fiducia. Mi confidava una responsabile di una comunità terapeutica: “Se non avessi la mia ora di preghiera quotidiana e di confronto con la Parola del Signore, come potrei distinguere nel mio cuore la rabbia dovuta al mio amor proprio ferito da quella che invece è frutto dello zelo per il Signore e dell’amore verso le mie sorelle malate? Quando sono afflitta da un atteggiamento cattivo degli altri, come posso capire se deriva dalla malevolenza altrui e quindi sopportarla in pace oppure se si tratta soltanto della mia vanità e quindi farmi interrogare sui miei atteggiamenti?”. Solo con la preghiera si impara a riconoscere il proprio cuore in sincerità, in una intimità di relazione che ci dà una nuova coscienza di noi stessi.
2) fare esperienza di umanità. La banda dei sentimenti che lasciamo disponibile per la preghiera è davvero ristretta. La preghiera dei salmi è l’espressione di una umanità che grida, impreca, implora, ringrazia, loda. In un contesto di fiducia, tutta la gamma dei sentimenti deve passare nella preghiera, senza timore, perché tutto il cuore, in sincerità, stia aperto davanti a Dio.
3) percorrere un cammino di trasfigurazione. La preghiera è il luogo della nostra trasformazione da individui a persone. L’individuo è istinto di sopravvivenza, istinto egoistico: tutto mi serve e di tutti mi servo per affermare me stesso. Persona dice invece istinto di comunione, capacità di relazione, incontro d’amore. Egoismo dice solitudine e l’uomo sente che non è fatto per star solo. La preghiera è il luogo per eccellenza che svela al cuore questa sua esigenza assoluta e l’accompagna lungo la via per realizzarla, perché fa cadere ogni pretesa o giustificazione per il proprio egoismo di fronte a Colui che lo chiama a partecipare alla beatitudine dell’amore, sebbene sia tanto diversa da quella che noi ci aspetteremmo. Basta che ci specchiamo nelle beatitudini proclamate da Gesù: le sentiamo davvero nostre?
Quali disposizioni favoriscono la preghiera?
Interroghiamoci ora sul come imparare a pregare. Ogni arte suppone sempre una tecnica, sebbene il possesso di una tecnica non garantisca mai il risultato artistico.
Più che di ‘cose’ che si dovrebbero fare, voglio accennare alle ‘disposizioni’ che dobbiamo imparare a tenere presenti. Anzitutto questa: la preghiera non sboccia in conseguenza della capacità di usare un metodo appropriato, ma unicamente in conseguenza della capacità di essere obbedienti ed umili, i due segni di riconoscimento del pentimento. Parlo di obbedienza nel senso dell’espressione cara alla tradizione: “Ho visto il mio fratello, ho visto il mio Signore”. E’ l’obbedienza nei confronti della vita, dei fratelli, nel nome del Signore. La concentrazione necessaria alla preghiera non deriva dallo sforzo di introspezione psicologica o di attenzione mentale, ma dalla intensità del pentimento, dal lucido riconoscimento del nostro essere peccatori. Quello che mi sembra manchi al nostro desiderio di esperienza spirituale è il fatto che non parte sinceramente dal cuore, ma piuttosto dalla testa. Manca lo spirito giusto, l’entrare per la porta giusta. Siamo disposti a percorrere il cammino della preghiera fino in fondo, nella sua autenticità, senza scorciatoie e improvvisazioni?
Per imparare a pregare è necessario disporsi alla lotta spirituale, alla lotta contro ogni tipo di ‘pensiero’ che mira a possedere il nostro cuore alienandolo. Una bella espressione del padre Dumitru Staniloae, teologo romeno recentemente scomparso, definisce così i nostri peccati: un attaccamento infinito a ciò che è finito. Anche in questo il cuore umano ha la percezione netta di desiderare l’infinito. Si tratta di ridare il contenuto infinito a questo attaccamento infinito. E questo è esattamente il lavoro dell’ascesi, questo è essenzialmente quello che avviene nella preghiera: un aprire i nostri ‘pensieri’ a Dio, senza fuggirli o evitarli o rinnegarli.
Ciò avviene lungo due direttrici: quella della profondità e quella dell’intimità. In funzione della profondità lavora la pazienza. Pregare costa fatica. Diversamente da quanto ci si immagina, la preghiera, per diventare spontanea e forte, deve prima essere tenace. Non è così facile pazientare con il proprio cuore, accettare i suoi tempi, accettare i tempi di Dio, in tutta pace. Non è così agevole entrare nel proprio cuore per poterlo offrire, tutto, a Dio. Ci può soccorrere la pratica della manifestazione dei pensieri, il richiamare cioè alla coscienza tutte quelle pulsioni elementari che si muovono dentro di noi, quelle immagini sottili che nascondono a noi stessi e agli altri la nostra vera realtà lasciandoci illuminare in ogni piega dell’anima dalla parola di Dio, in tutta confidenza, al di là dei vari sensi di colpa o di schematismi morali costrittivi. Anche un altro esercizio, quello che chiamo il recupero dell’energia del peccato, mira allo stesso scopo. L’antico adagio “odiare il peccato, non il peccatore” deve valere anche nei nostri confronti. Nei peccati restano come intrappolate le risorse spirituali in termini di anelito, di desiderio, che dobbiamo imparare a decifrare e recuperare attraverso il pentimento. Ogni peccato si può così trasformare in un trampolino di lancio e non tramutarsi, come spesso capita, in un ingombro della coscienza. Riconoscere il proprio peccato fino in fondo vuol dire comprendere l’esperienza interiore soggiacente, le risorse positive impiegate che non perdono il loro valore semplicemente perché sono state impiegate male.
In funzione dell’intimità invece lavora la sincerità. Non siamo mai sinceri davanti a Dio (ancor meno davanti agli altri e spesso davanti a noi stessi). Dove non c’è sincerità non c’è intimità e dove manca intimità l’incontro è freddo e banale. Si riporta del Baal Shem Tov, il fondatore del movimento chassidico che tanto fervore ha suscitato nelle comunità ebraiche del centro Europa nel settecento, che una volta era stato invitato a visitare una sinagoga gremita di gente. Al suo arrivo la gente gli fa ala per farlo entrare ma lui si ferma sulla soglia e dice: “Non posso entrare. Non c’è spazio”. E commenta: “Le preghiere che sono state fatte in questo luogo non hanno superato il tetto, sono rimaste ammassate dentro”. La sincerità dà ali alla preghiera. Imparare ad essere sinceri, fino in fondo, senza barare, è la credenziale migliore alla porta del cielo. E non crediamo sia così facile come sembra! Potremmo fare nostra una preghiera come questa? “ O Signore del mondo. So che non ho virtù o meriti che ti autorizzino a mandarmi in paradiso dopo la mia morte. Ma se è tua volontà mandarmi all’inferno in mezzo agli empi, sai che non sono fatto per intendermela con loro. Quindi, ti prego di portare fuori dall’inferno tutti i malvagi prima di spedirmi laggiù”.
Posso riassumere quanto sono venuto esponendo con la testimonianza di un eremita incontrato in Romania che avevo interrogato sulla preghiera pura. “Non siamo più capaci di pregare in modo puro. Era una caratteristica dei nostri Padri, i quali erano molto più santi di noi. Noi non possiamo più essere a quel livello. La preghiera pura per noi oggi è la preghiera che fa scaturire nel cuore l’amore per i fratelli. Siamo in una foresta, qui passano pochissime persone, eppure il clima che respiro non è più il clima puro di un tempo. Respiro il clima del mondo di oggi, tormentato da angosce, passioni, dolori (non si dimentichi che eravamo in pieno regime comunista!). Il primo compito, il più essenziale, non è allora quello di tendere alla preghiera pura, irraggiungibile, ma di tendere ad avere il cuore pieno di amore per i fratelli. E poi scopro che non posso ottenere questo senza la preghiera”.
Pubblicato in SPECIALE AVVENTO / SEGNO SETTE n. 43, 24 novembre 1996